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MERS-CoV, “La nuova SARS”, un anno dopo

Un anno dopo la comparsa della SARS sulla scena pubblica, con quel famoso comunicato della WHO nel 2003, il panico era ovunque, ma la nostra conoscenza del virus era cresciuta in maniera esponenziale. In poche settimane dall’identificazione del virus il suo genoma era stato sequenziato, la sua riserva in natura nota, la sua epidemiologia compresa, e i primi trattamenti efficaci diffusi. La SARS è stata una totale e assoluta vittoria della comunità scientifica, medica e logistica internazionale.

Il 20 settembre 2012, il Dr. Zaki rivela al mondo la morte di un uomo saudita, dovuta apparentemente a quello che sembrava essere un nuovo coronavirus, un lontano cugino della SARS. Ad oggi, abbiamo avuto oltre 130 casi, e 58 morti confermate.

Ad oggi stiamo parlando di una malattia infettiva emergente che uccide metà della gente che infetta, che è causata da un nuovo virus del quale non si conosce la riserva o l’ospite naturale, che si trasmette tra persone in un modo che non comprendiamo, un virus che sparso nell’ambiente rimane infettivo per chissà quanto, che ha già migrato tra nazioni, che potrebbe spargersi  in maniera asintomatica nel mondo e causare peggioramenti solo in concomitanza con altre malattie, e per il quale non esiste nessun vaccino o terapia antivirale che ha dimostrato di funzionare.

Siamo terribilmente, terribilmente in ritardo. Anche perché la malattia, al di là di pochi isolati casi (anche in Italia) sta colpendo principalmente i paesi del medio oriente, in particolare l’Arabia Saudita.

Arabia Saudita dove presto si riverseranno decine di milioni di pellegrini per l’Hajj. Se si volesse fare allarmismo, si potrebbe dire che è una bomba ad orologeria. Ma il paradosso è che siamo ancora ad un punto in cui non ne sappiamo abbastanza per quantificare il rischio. Che, nonostante la nostra incapacità di quantificarlo, esiste senza dubbio.

Dopo un anno dalla scoperta della SARS, erano già stati pubblicati più di un migliaio di articoli scientifici; ad oggi, Pubmed ne indicizza poco più di 200 sulla MERS-Cov.

Ma 200 articoli scientifici non sono pochi, e anche se grattano appena la superficie, possiamo usarli per cercare di capire quello che sappiamo, quello che sappiamo di non sapere, quello che non sappiamo di non sapere, e perché diavolo non siamo stati in grado di fare meglio in questo caso.

L’origine della specie

In analogia con la SARS, il virus che causa la Sindrome Respiratoria Medio-Orientale (Middle-Eastern Respiratory Syndrome, da cui MERS) è probabilmente una zoonosi, un virus trasmessoci da una qualche altra specie animale. I primi frammenti di genoma del virus ottenuti, una volta sequenziali, sono stati confrontanti con quelli di altri coronavirus noti, alla ricerca dell’origine del passaggio interspecifico del virus. Inizialmente, per pura comparazione di sequenza, il candidato ritenuto più probabile sembrava essere il pipistrello africano: il primo ceppo di MERS di cui si conosceva almeno parte del DNA, isolato da un paziente inglese, sembrava essere strettamente imparentato con un Coronavirus che colpisce i pipistrelli. Ma, tanto più che altri esperimenti si accumulavano lentamente, e tanti più i casi e le vittime aumentavano, l’idea di un passaggio diretto perdeva credito.  Nei casi sporadici di MERS, dove per sporadici si intende non direttamente collegati ad altre infezioni umane, concentrati per lo più in Arabia Saudita, sembra improbabile che la trasmissione sia causata da contatti coi pipistrelli africani visto che le specie di chirotteri interessate non sono certamente comuni in medio oriente, e generalmente i contatti tra esseri umani e pipistrelli sono piuttosto scarsi. Sin da quasi subito è dunque partita la caccia ad altro ospite intermedio, una riserva che facilitasse la zoonosi, la trasmissione del virus tra animale e uomo. Le ricerche di questo tipo sono ancora in corso, ma dopo aver considerato cani, gatti, pipistrelli, capre e babbuini, l’indiziato principale è il dromedario.

Sul Lancet Infectius Diseases, è stato pubblicato un articolo che, testando il sangue di svariate specie di bestiame provenienti da vari paesi medio orientali, alla ricerca di anticorpi specifici per questo nuovo virus. Tutti e 50 i dromedari testati, provenienti dall’Oman, hanno anticorpi con qualcosa di molto simile al MERS, abbastanza almeno da causare un falso positivo. Nell’uomo, i casi positivi ai test con gli anticorpi vengono considerati “probabili”, ma prima che il WHO si sbilanci richiede una serie di test più approfonditi, principalmente l’effettiva individuazione del DNA virale tramite PCR.

Questi dromedari sono animali “in pensione” da diverse scuderie dove vengono allevati per la corse. Il fatto che il 100% degli animali testati sia positivo non è molto probabilmente un caso.
I paesi più colpiti dalla MERS, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, producono e consumano una grande quantità di carne di camelidi vari, e gli autori sottolineano che molti di questi animali vengono anche importati dall’Africa, dove potenzialmente può essere avvenuto il primo salto di specie tra chirotteri e camelidi.

Non si può escludere che il virus sia solo simile alla MERS, e non effettivamente lo stesso che colpisce l’uomo, perché i virus non sono ancora stati effettivamente isolati da i cammelli, né si può escludere che esistano altre specie riserva, e che il virus passi facilmente da una specie all’altra, ma per quanto ne sappiamo, i dromedari sembrano essere la scommessa più sicura.

Da questo punto di vista, non è particolarmente rassicurante l’idea che durante i riti per l’Hajj in Arabia Saudita sia uso praticare la macellazione rituale di dromedari in pubblico come sacrificio religioso.

Per il compleanno del Virus, sul Lancet è stato pubblicata la più estesa indagine molecolare finora, cercando una sorta di albero genealogico delle trasmissioni nell’uomo per cercare di ricostruire gli eventi e individuare, se non il paziente zero, esattamente con cosa abbiamo a che fare. Il virus è stato isolato da un team congiunto Saudita-Britannico in 21 pazienti, riuscendo a sequenziare almeno 13 genomi completi. Confrontando queste nuove sequenze geniche, prestando attenzione alle mutazioni che questi virus accumulano molto velocemente passando da ospite ad ospite, si può indagare la storia naturale del virus (Per saper di più sulla filogenesi e gli orologi molecolari in generale, c’è questo articolo qui).

Combinando questi dati molecolari ai dati geografici, i ricercatori hanno fatto una scoperta inquietante. Uno dei virus sequenziati, isolato da un paziente a Riyadh il 23 Ottobre 2012 era su un ramo dell’albero genealogico completamente diverso da quello di un secondo virus isolato una settimana dopo, nella stessa città di Riyadh.

Questo significa che due ceppi di virus, discendenti da uno stesso antenato, stavano circolando nella città contemporaneamente, non visti, da abbastanza tempo per evolversi in due ceppi distinti. Un’infezione silenziosa, forse asintomatica, in corso almeno dal luglio 2011, più di un anno prima della prima individuazione della MERS.

Ipoteticamente, si potrebbe pensare che il passaggio tra riserva animale (diciamo il dromedario), sia avvenuto più di due anni fa, e poi ci sia stato un passaggio tra esseri umani, che ha spezzato l’albero in due rami, ma è molto improbabile: quando la sindrome si manifesta ha una mortalità troppo alta perché una cosa del genere possa passare inosservata.

L’alternativa è che il virus sia saltando continuamente tra animale e uomo, o magari addirittura da un ospite animale primario, a uno secondario, all’uomo. Questo spiegherebbe la divisione in ceppi e lignaggi distinti, e spiegherebbe come sia possibile la parentela tra un virus umano, uno di un cammello e un pipistrello su un altro continente.

Sono risultati contemporaneamente rassicuranti e terrificanti. Rassicuranti perché non esiste una catena ininterrotta di trasmissione da uomo a uomo, il che fa pensare, almeno preliminarmente, che questa sia difficile, o limitata a situazioni in cui le vittime sono pregressamente immunodepresse o indebolite. D’altro canto, è certo che il virus può trasmettersi da uomo a uomo, animale-animale e uomo-animale: il che significa che ha un sacco di occasioni perché possa mutare e diventare peggio, e se ciò avviene nella riserva animale, sulla quale abbiamo zero controllo in quanto non sappiamo con certezza quale sia, è un grosso, grosso problema.

 La selezione naturale ha bisogno di grosse popolazioni e molte generazioni perché una mutazione possa dominare sulle altre e diffondersi principalmente. Se un virus che infetta uno specifico individuo muta in una variante che aumenta la sua capacità di diffusione tra gli esseri umani, la probabilità che riesca a trasmettersi ad un altro essere umano, che possibilmente deve essere immunosoppresso, è molto bassa. Ma se esiste una popolazione di portatori sani, e specie animali che possono fornire nuove varianti continuamente, la probabilità che mutazioni vantaggiose si diffondano aumenta inesorabilmente. Quanto ? Non lo sappiamo, non ne sappiamo abbastanza.

L’origine di una pandemia? 

Per quanto i virus siano generalmente abbastanza fragili, sappiamo che nelle giuste condizioni ambientali molti possono rimanere integri e infettivi per ore, anche giorni al di fuori di un ospite. Le variabili che influenzano questa sopravvivenza possono essere molte, dalla temperatura, all’umidità, al pH. E’ uno dei motivi per cui l’influenza è stagionale.

Recentemente sono usciti i primi dati di ( su Eurosurveillance) sulla stabilità ambientale del coronavirus che causa la MERS, e non sono particolarmente rassicuranti. Il virus dell’influenza A, esposto su una superficie di acciaio o plastica, non sopravvive più di 4 ore, indipendentemente dalle altre condizioni ambientali.

MERS-CoV è in grado di sopravvivere 48 ore a 20 °C con il 40% di umidità sulle superficie, e anche in aerosol è resta molto stabile alle medesime condizioni, anche se diminuisce rapidamente all’aumentare dell’umidità relativa.

Il che significa che a condizioni di umidità e temperatura favorevoli, tipo, non so, quelle di un ospedale con l’aria condizionata, il virus può sopravvivere sulle superfici e nell’aria. Il che va a braccetto con l’alto numero di epidemie localizzate negli ospedali.

La WHO sta particolarmente attenta alle infezioni tra il personale sanitario, e la diffusione della malattia in questa categoria è considerata particolarmente preoccupante non solo perché sono più a contatto con persone immunodepresse e possono essere vettori, ma anche perché (almeno presumibilmente) seguono di routine tutta una serie di procedure per minimizzare i rischi di infezione, e se nonostante ciò diffondono la malattia non è un buon segno. Nell’epidemia di SARS del 2003, un quinto dei casi era costituito da personale ospedaliero.

Per ora i casi di questo tipo per il MERS-CoV sono limitati, ma è anche vero che il numero complessivo di infetti è molto minore: tre delle morti su 58 complessive attribuibili alla MERS hanno interessato personale sanitario, per un 5% di mortalità che è un dato preliminare ma non molto rassicurante.

La maggior parte dei casi finora confermati è in maschi più vecchi di 45 anni, mentre molti meno casi e nessuna morte è avvenuta tra i minori di 21 anni, che conferma l’idea che la MERS sia il risultato di un’infezione opportunistica.

In Italia, il caso finito sui giornali è stato quello di un quarantacinquenne giordano che ritornava in Toscana dopo un viaggio di 40 giorni nella sua patria nativa. Al ritorno presentava già sintomi influenzali con febbre e difficoltà respiratorie, ed è stato ospedalizzato il 28 Maggio 2013. Suo figlio, in Giordania, ha manifestato gli stessi sintomi, e anche la nipote, di appena un anno e mezzo, è risultata positiva al MERS-COV. Tra i contagiati da questo “vettore”, anche un collega di lavoro, con una incubazione apparente di 6 giorni. In tutti i casi, salvo il 45enne Giordano, le infezioni sembrano essere rimaste in un vicolo cieco, e tutti i contagiati di questo out break sono sopravvissuti. La trasmissione tra umani sembra difficile, e tendenzialmente non continua oltre individui che sono stati a stretto contatto con un caso confermato: la trasmissione sembra avvenire per via aerea tramite goccioline di dimensione superiore a 5 micron.

Se la trasmissione è per via aerea, perché le epidemie sono (per ora) limitate ? Non lo sappiamo, non con precisione. Ma ci sono indicazioni parziali da modelli animali.

L’unico modello sviluppato finora è il Macaco che, infettato con un il virus, sviluppa l’infezione nei tratti profondi del sistema respiratorio. I segnali clinici sono praticamente identici a quelli nell’uomo, e possiamo quindi essere ragionevolmente convinti che il MERS-COV abbia un tropismo per i pneumociti alveolari, il che può spiegare sia la limitata trasmissione umano-umano, sia la letalità dell’infezione.

Se il coronavirus non evolve, il rischio pandemia dovrebbe essere relativamente basso nei paesi occidentali, ma rischia comunque di colpire molto duramente le fasce già più deboli e svantaggiate della popolazione.

Ma una cura non c’è ?

E’ difficile trovare una terapia per qualcosa che non si sa bene come funzioni. Al limite dell’impossibile, oserei dire. Non esistono sul mercato antivirali efficaci contro i coronavirus, quindi l’unica terapia disponibile è di supporto al paziente (fluidi, ventilazione e perfino ECMO, antibiotici per infezioni secondari, etc.) . Ci sono però indicazioni per una combinazione di due farmaci antivirali (Interferone-alfa-2-b e ribavirin) che, dopo aver mostrato risultati promettenti in vitro, sono stati utilizzati nel macaco e hanno effettivamente mostrato una riduzione della replicazione del virus, e un miglioramento della condizione clinica. E’ una buona notizia, ma ci sono una serie di precisazioni da fare:

–       In primis, come già detto, il MERS-CoV si comporta per lo più come infezione opportunistica che colpisce individui immunosoppressi e/o deboli per altri motivi. I macachi utilizzati, come da normativa, sono individui giovani e sani a cui il virus è stato sperimentalmente inoculato, ragion per cui sono sin da subito in condizioni migliori per lottare contro il virus

–       In secondo luogo, il trattamento con questi antivirali è iniziato 8 ore dopo l’infezione (per motivazioni etiche, suppongo); nessun paziente umano può ragionevolmente aspettarsi che un infezione del virus sia riconosciuta in così poco tempo e il trattamento iniziato così rapidamente, almeno per ora

–       In generale, il MERS-CoV colpisce più severamente gli esseri umani che i Macachi, perché è meglio adattato all’uomo.

Tolti questi dati preliminari, non ci sono molte ragioni per essere ottimisti riguardo un trattamento efficace, almeno non nel breve periodo.

Perché ne sappiamo così poco ?

E’ facile giocare a scaricare il barile, e le colpe sono molte e molto ben distribuite. Ciò detto, il comportamento dei governi medio orientali, in particolare dell’Arabia Saudita, è quantomeno opinabile. In particolare, il Center For Disease Control e la WHO lamentano l’assoluta mancanza di cooperazione del governo saudita quando si tratta di condividere le informazioni sui pazienti. Il governo saudita si difende sostenendo che lo fa per proteggere la privacy dei pazienti, ma quelli che sono necessari agli esperti non sono certamente i dati sensibili, quindi si tratta di una scusa alquanto debole. Inoltre, fino a pochi mesi fa il governo sembrava facesse il possibile per insabbiare l’epidemia, nascondendo la sua diffusione; solo da poche settimane le televisioni e i giornali mandano messaggi per preparare la popolazione, ma che comunque non raggiungono le zone più remote della nazione, dove si sono verificati la maggior parte dei casi. Inquietantemente, anche il personale ospedaliero delle città colpite dal virus tipicamente nega anche di fronte all’evidenza che la MERS abbia colpito, quasi a voler nascondere un disonore; e un solo laboratorio in tutta la nazione è abilitato a verificare che i casi definiti “probabili” siano effettivamente causati da questo coronavirus: una procedura che non solo rallenta terribilmente le operazioni, ma che permette anche una sorta di censura governativa. E’ raro che si possa usare la Cina come termine di paragone per la trasparenza, ma in questo caso l’Arabia Saudita si sta comportando molto peggio di quanto la Cina abbia fatto con l’influenza Aviaria (in cui, per la verità, il comportamento cinese è stato ineccepibile), e con la SARS. Quando ci si lamentava della mancanza di cooperazione orientale, non ci si aspettava certamente che l’Arabia Saudita, il paese più amico delle superpotenze dell’occidente in medio oriente, potesse fare peggio.

– Ultimo Update: 28/09/2013

Bibliografia:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=%3Cli%3E+A.M.+Zaki+et+al.+Isolation+of+a+Novel+Coronavirus+from+a+Man+with+Pneumonia+in+Saudi+Arabia.+N+Engl+J+Med.+(2012)
http://www.who.int/csr/disease/coronavirus_infections/update_20130920/en/index.html
http://www.eurosurveillance.org/ViewArticle.aspx?ArticleId=20596
http://www.pnas.org/content/early/2013/09/18/1310744110.short?rss=1
http://www.nature.com/nm/journal/vaop/ncurrent/abs/nm.3362.html
http://online.wsj.com/article/SB10001424127887324807704579086821158272430.html?mod=wsj_share_tweet

Sopravvivere all’olocausto fa bene alla salute

Qualche giorno fa, in occasione dell’anniversario del bombardamento di Hiroshima, il sempre bravo Gianluigi Filippelli ha scritto un interessante articolo dal provocatorio titolo ” I salutari effetti della bomba atomica “. La conclusione della review riportata da Filippelli però la riporto, in due righe, anche qui:

The evidence presented indicates that acute, low dose irradiation induced lifetime health benefits for Japanese survivors of atomic bombs. (…) The flash exposure for those in Hiroshima and Nagasaki was equivalent to a radiation vaccination. That suggests an important concept. These data indicate that acute exposure to low dose irradiation is adequate, with or without chronic exposures, to provide lifetime health benefits.(1)

Cioè, se ignoriamo per un momento tutti gli ovvissimi effetti collaterali immediati delle bombe, incredibilmente i sopravvissuti hanno tratto dei benefici per la loro salute. Che è una cosa apparentemente fuori dal mondo, roba che se non avendo i risultati alla mano la reazione spontanea di una persona normale sarebbe ribaltare il tavolo ed andarsene.

Ma, siccome io non sono normale, ho deciso di prendere quella di Dropsea come una sfida a trovare qualcosa di più inaspettatamente benefico per la salute. E come il titolo sopra dice, nella maniera più infiammatoria che mi venisse in mente: sopravvivere all’olocausto fa bene alla salute.

E’ la conclusione di questo paper che trovate in libero accesso su PLOS ONE, dall’eloquente titolo ” Against All Odds: Genocidal Trauma Is Associated with Longer Life-Expectancy of The Survivors “. E’ un risultato interessante anche perché dubito che i ricercatori, due dei quali sono di origine ebraica, e finanziati da associazioni come il ” Center for Advanced Holocaust Studies”, lo ” United States Holocaust Memorial Museum “, si aspettassero questo risultato.

Gli autori inizialmente si rifanno ad una grande meta analisi, con più di 12 mila partecipanti, che mostra come coloro che sono sopravvissuti all’Olocausto mostrano molti sintomi da stress post-traumatico (ma và?) ma nessun generale deterioramento delle capacità cognitive o della salute fisica. La meta analisi in questione non aveva però raccolto alcun tipos di dati sulla sopravvivenza e la speranza di vita, e quindi gli autori si son lanciati in questa impresa.

Se avete letto il mio precedente articolo sull’intelligenza dei vittoriani e il selection bias e ne avete colto la morale (sbagliando il campionamento tutto il resto non è attendibile), vi sarà chiaro che la difficoltà più grande per questo studio sia effettivamente trovare un gruppo di persone il più simile possibile a chi ha sofferto per l’olocausto, senza però aver dovuto sottostare ad un genocidio. Non solo: per quanto l’olocausto degli ebrei possa essere considerato un evento di stress acuto confrontato con la vita intera di una persona, bisogna che la vita prima e dopo l’olocausto, dei due gruppi che vai a comparare fosse il più simile possibile, per evitare altri fattori confondenti.

Per costruire i due gruppi, quindi, i ricercatori hanno considerato gli ebrei emigrati dalla Polonia in Israele subito prima dell’Olocausto (dal 1919 al 1939), e quelli emigrati in Israele, di origini polacche, subito dopo l’olocausto (Dal 1945 al 1950). Il gruppo di controllo non è perfetto, chiaramente, perché si possono immaginare obiezioni per cui i due gruppi non sono comparabili, ma vista la questione è difficile fare meglio di così: il background genetico è più o meno lo stesso, l’ambiente di vita dopo l’olocausto è più o meno lo stesso, e usando i dati del censimento si sono stratificati i campioni in base alle condizioni socioeconomiche, per evitare effetti falsati dal confrontare un gruppo ricco con un gruppo di poveri, e in classi di età.

Precisazione importante: sopravvissuti all’olocausto NON SIGNIFICA sopravvissuti all’internamento in un campo di concentramento: il gruppo dei sopravvissuti include non solo coloro che sono stati liberati dai campi di prigionia, ma anche chi era nascosto in conventi o altrove.

” Ma allora è una stronzata! ” direte voi impulsivamente: in realtà, è effettivamente una procedura che ha un senso visto che si vuole misurare l’effetto dello stress. Come ho detto prima,  ci sono studi precedenti su campioni enormi che ci dicono che l’effetto sul lungo periodo delle deprivazioni dei campi di prigionia sono abbastanza piccoli; quello che gli autori vogliono misurare è l’effetto del trauma psicologico del genocidio sulla speranza di vita.

In ogni caso, l’effetto finale trovato è talmente grande che sinceramente sarei sorpreso se fosse solo un artefatto statistico:  analizzando in totale 55220 uomini e donne, salta fuori che i sopravvissuti all’olocausto sopravvivono 6.5 mesi più a lungo di quelli che l’olocausto l’hanno evitato stando in Israele. L’effetto è ancora più grande per gli uomini, per i quali la speranza di vita aumenta in media di 14 mesi, o addirittura diciotto se nel 1940 erano tra i 16 e i 20 anni. E’ un risultato assurdo. Come lo spieghiamo ?

La mia prima idea, leggendo il paper, era comunque un effetto di selezione. Perché se è vero che gli autori hanno cercato disperatamente di abbinare i due gruppi, sopravvivere all’Olocausto non è una variabile casuale. Considerato lo stress, l’asperità, le difficoltà etc, non è difficile immaginare che le persone che sono sopravvissute siano quelle che già dall’inizio erano le più in salute, mentre i più deboli e malati non ce l’hanno fatta. Il gruppo di controllo, che non ha dovuto subire questo terribile esperimento di selezione artificiale, contiene anche gente che per ragioni genetiche o ambientali è generalmente meno in forma, e quindi abbassa la media. In realtà gli autori considerano brevemente questa possibilità, ma non è la spiegazione che ritengono più probabile:

An alternative interpretation would be differential mortality, meaning that those vulnerable to life-threatening conditions had an increased risk to die during the Holocaust. Holocaust survivors by definition survived severe trauma, and this may be related to their specific genetic, temperamental, physical, or psychological make-up that enabled them to survive during the Holocaust [12]–[15] and predisposed them to reach a relatively old age.”

Secondo gli autori del Paper, la spiegazione più probabile è ” L’effetto di crescita post traumatica “.

Such findings may highlight the resilience of survivors of severe trauma, even when they endured psychological, nutritional, and sanitary adversity, often with exposure to contaminating diseases without accessibility to health services. This may be considered an illustration of the so-called posttraumatic growth [9] that is observed to occur, for example, in soldiers having experienced combat-related trauma but finding greater meaning and satisfaction in their later lives because of those experiences.

Che darebbe ritrovata veridicità al proverbio ” Ciò che non mi uccide mi rende più forte ” (o quanto meno mi dà EXP)

Nelle parole di uno degli autori, il professor Sagi-Schwartz :
“The results of this research give us hope and teach us quite a bit about the resilience of the human spirit when faced with brutal and traumatic events”

Io, sarà che sono cinico, sono ancora abbastanza convinto che sia un effetto di selezione, ma l’effetto paradossale rimane: sopravvivere all’olocausto allunga la vita.

ResearchBlogging.org
Sagi-Schwartz A, Bakermans-Kranenburg MJ, Linn S, & van Ijzendoorn MH (2013). Against all odds: genocidal trauma is associated with longer life-expectancy of the survivors. PloS one, 8 (7) PMID: 23894427

L’intelligenza dei vittoriani (e il selection bias)

Hey, sono finalmente in ferie.

Il che significa che posso andare a prendere articoli scientifici vecchi di due mesi, sculacciarli perché contengono cattiva scienza con una gran dose di alterigia, e avere comunque tutto il tempo che mi serve per cancellare tutti i commenti che non dicono ” OMG MM ma quanto hai ragione? “.

Questo articolo pubblicato su “Intelligence” è finito perfino sulla stampa generalista ( es. su repubblica ) per via della sua conclusione che comunque piace ai nostri istinti nostalgici: stiamo diventando tutti più idioti. Ah, “ai miei tempi si leggeva… ora tutti a instupidirsi davanti a facebooke”. Secondo gli autori, la migliore educazione, la migliore alimentazioni, le migliore cure rispetto al passato non riescono comunque a mascherare il fatto che nel 1880 la gente era biologicamente più intelligente.

Perché secondo loro siamo diventati più scemi ? Perché c’è una correlazione inversa tra intelligenza e fertilità, per cui la gente più stupida fa più figli, e quindi presto saremo invasi da oceani di gente mentalmente sottosviluppata, alla faccia di quelli che credono che l’evoluzione sia un continuo trionfo verso il progresso. In pratica, la trama di Idiocracy.

Ci si aspetta questa diminuzione generale dell’intelligenza da quando ci si è resi conto del collegamento inverso tra intelligenza e fertilità, ma questo pattern si rifiuta di diventare palese: anzi, su ogni generazione bisogna rinormalizzare a 100 i test del QI, per colpa di quello che in gergo viene chiamato Effetto Flynn. Più o meno 5 punti di QI in più per generazione, effetto che viene normalmente spiegato con fattori sociali vari (migliore educazione, nutrizione, etc.) piuttosto che con un’evoluzione reale.

A prima vista lo studio, che si intitola ” Were the Victorians cleverer than us? The decline in general intelligence estimated from a meta-analysis of the slowing of simple reaction time ” sembra fatto bene. Ma solo a prima vista.
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Perché non ci sono serpenti erbivori ?

Stavo guardando un video di un pitone che si mangia una antilope intera in un sol boccone, e improvvisamente mi sono reso conto che i serpenti sono ben strani.

Ci sono montagne di mammiferi erbivori, dall’amabile vacca ai bradipi, i conigli e i loro compari, i lamantini e alcune specie di primati (inclusi alcuni esseri umani. Ci sono uccelli erbivori: anche non volendo includere nella categoria i granivori che si mangiano semi vari ci sono uccelli come l’Hoatzin del rio delle amazzoni, che mangia solo foglie.

Opisthocomus hoatzin è un uccello veramente bizzarro: al di là dell’essere l’unico uccello che mangia solo foglie, facendole fermentare in un organo apposito (e facendo puzzare questo uccello come una fogna), ha anche gli artigli sul margine superiore delle ali, un carattere moderno che ricorda però forme antiche. Photocredits: The Internet Bird Collection

Ci sono un sacco di pesci erbivori, dai  ciclidi ai pesci rossi, e anche tra i rettili abbiamo tartarughe e lucertole che si cibano solo dei prodotti della terra.

Ci sono 3400 specie di serpenti note sulla faccia della terra, e non ne conosciamo neanche una che si astenga dai piaceri della carne. Perché ?

Una risposta, parziale, è dovuta al fatto che nessuna specie erbivora è veramente erbivora. Tutte le specie sopra elencate non digeriscono da sole il proprio cibo, che è strapieno di cellulosa: non hanno enzimi per rompere la cellulosa in composti facilmente utilizzabili, come il glucosio. Invece, subappaltano il loro sistema digerente a comunità di microbi che vivono negli stomaci e negli intestini facendogli fare il lavoro sporco. Sono simbionti indispensabili, senza cui l’erbivoria non sarebbe possibile.

Ma perché funzioni, i neonati devono far colonizzare il loro sistema digerente da questi microbi. E per farlo utilizzano sistemi diversi: si va dall’allattamento, alla coprofagia (mangiare la cacca dei genitori), alla trasmissione attraverso contatto sociale e cure parentali. Predigerire e rivomitare il cibo nella bocca dei piccoli, ad esempio, non trasmette solo nutrienti facilmente assimilabili ma anche tutta una comunità microbica utile.

Tutte queste cose, generalmente, mancano nei serpenti (anche se a dirla tutta circa il 10% dei serpenti è viviparo, cioè partorisce direttamente cuccioli, non depone uova) , il che rende automaticamente difficile la trasmissione dei microbi necessari di generazione in generazione. In più, quando hai mascelle evolute per ingoiare roba grossa come un’antilope intera, e difficile che tu possa passare a una vita da erbivoro, in cui la masticazione deve essere ininterrotta e costante: semplicemente, non è una buona idea. Quindi il mangiare fusti, o foglie, o erbe è precluso ai serpenti sostanzialmente per via della loro storia naturale: avrebbero bisogno di così tanti cambiamenti nel loro stile di vita che qualsiasi serpente erbivoro non sarebbe più un serpente.

Ok, e che dire di serpenti frugivori ? Ci sono lucertole che vengono ricompensate per il loro lavoro come impollinatori o dispersori dalle piante, tramite frutti succulenti o dolcissimo nettare.

A Gecko delle Mauritius, ad esempio, sembra piacere veramente tanto il nettare di quella Trochetia. Photocredits: Tortoise forum

Inghiottire un frutto intero non sarebbe molto diverso da inghiottire un uovo intero o un piccolo mammifero: sono tutte cose che hanno un contenuto energetico alto e possono essere digerite con relativa calma. In più, ci sono un sacco di specie di serpenti arboricoli che, stando appollaiati tra le fresche frasche, non dovrebbero neppure far molto sforzo per prendere due bocconi di frutta invece che depredare un nido. E’ vero che i serpenti moderni essendo ipercarnivori mancano di amilasi e di tutto l’ensemble di enzimi utili per digerire prodotti vegetali in generale, ma il fatto che ci siano sauri erbivori fa pensare che non fosse una via impossibile da percorrere per l’evoluzione, ma piuttosto una via non esplorata dall’evoluzione (o, se è stata esplorata, si è rivelata un vicolo cieco).

Perché non ci sono serpenti frugivori ? Qualcuno ha qualche idea ?

Le api e il sesso (ma niente fiori)

Il caro Alberto mi scrive:

Cara Prosopopea,
visto che ami gli insetti e l’ape è un insetto figo volevo porti questo spunto di possibile articolo/spiegone: Ho scoperto oggi che il fuco nasce da un uovo non fecondato per cui ha un corredo aploide, diciamo n. Sua sorella futura regina ha un corredo diploide 2n (frutto dell’unione fra regina madre e vecchio fuco). Quindi se la vecchia regina si accoppiasse con suo figlio creerebbe un clone di se stessa?

Avendo promesso di risponderti, e avendo un po’ di ritardo rispetto a questa promessa, ho deciso di darti 2 risposte, un pochettino diverse, in mezzo ad un po’ di contesto e spiegoneria.

La prima risposta, quella breve, è no.

La seconda risposta è un pochettino più complicata, e la dividiamo in 3 parti: Quando, Perché e Come.

Negli esseri umani il sesso è determinato dalla presenza o l’assenza dei cromosomi X e Y, come certamente sapete. Gli imenotteri, il gruppo di insetti che include api, vespe e formiche funziona in maniera differente, ma ciò non toglie che un sacco di cose che sappiamo sulla determinazione del sesso, storicamente parlando, viene dagli insetti.

Partiamo quindi dal Quando. (Alberto caro, se non volevi il pippotto storico ti conveniva chiedere ad altri.)

Nel 1845 un prete cattolico, Johann Dzeirzon, si rende conto che se durante il volo nuziale l’ape regina resta vergine la sua progenie contiene solo maschi. Evidentemente era particolarmente recettivo all’idea di immacolata concezione. Può sembrare una osservazione da poco o poco interessante, ma tenete presente che si tratta del primo metodo di determinazione del sesso trovato empiricamente. Del resto, l’idea imperante all’epoca era ancora quella di Aristotele, secondo la quale il sesso del nascituro dipendeva dalla temperatura dello sperma paterno. L’idea è quasi giusta per certi rettili, ma veniva indiscriminatamente applicata a ogni animale, uomo incluso. Tieni anche presente che questa osservazione arriva almeno 50 anni prima della scoperta dei cromosomi sessuali, prima della scoperta dei cromosomi in generale, e prima che fosse chiaro in alcun senso il collegamento tra quegli strani bastoncelli che si coloravano e l’ eredità genetica.

Dzierzon in un ritratto del 1901. Questo padre dell’agricoltura moderna era un piantagrane non da poco, e per via del suo coinvolgimento in politica, del suo rifiuto dell’infallibilità papale e della sua scoperta della partenogenesi nelle api (che a quanto pare non piaceva alla chiesa) fu scomunicato nel 1873.

Dal momento che, come ho accennato altre volte, fissare i cromosomi su un vetrino era un bel casino perché ci volevano tante cellule in divisione, gli animali con un ciclo vitale veloce erano preferiti. Cosi’, mentre qualcuno si focalizzava sui girini di anfibi vari o vermi piatti, un biologo tedesco di nome Hermann Henking si mise nel 1880 a lavorare con le vespe. Con il suo primitivo microscopio ottico si rese conto che negli spermi di vespa ogni tanto ci sono 12 cromosomi invece di 11. Seguendo una antica tradizione,dal momento che non riusciva a capire bene che cosa fosse questo cromosoma estraneo, decise di battezzarlo fattore X. Il tuo cromosoma X si chiama X, caro Alberto, per merito (colpa?) delle vespe di Henking.

Il cromosoma X non è a forma di X più di qualsiasi altro cromosoma, per quanto un sacco di gente sia convinta che il nome venga dalla forma. Photocredits: Winona State University, winona.edu

Henking per la verità intuì subito che quel cromosoma extra poteva avere a che fare con il sesso, ma per confermare la sua idea si mise a caccia di un equivalente fattore X nei grilli. Purtroppo per lui, sebbene nel 20% delle specie animali la determinazione del sesso funziona come le vespe i grilli utilizzano un altro sistema, e la sua ricerca si rivelo’ infruttuosa.

Agli inizi del ‘900, però, la sua intuizione fu confermata e l’X trovato in molte altre specie, uomo e api incluse. Sapendo che tutte le api operaie erano femmine e sorelle, i maschi nascevano senza che la madre si accoppiasse, e che c’era di mezzo il fattore X, si dedusse infine che le api (e le vespe e le formiche) determinavano il loro sesso per aplodiploidia.

Mentre nell’essere umano, indipendentemente dal sesso, tutti hanno due copie dei  cromosomi non sessuali (altrimenti detti autosomi), nelle api hai bisogno di due copie di tutto per essere femmina, mentre se ne hai una sola sarai solo un fuco.

Il che da’ origine a tutta una serie di paradossi per chi e’ abituato ai nostri standard di genealogia. Un fuco non ha un padre (perché se lo avesse sarebbe femmina), ma ha un nonno (perché sua Nonna, la regina madre, si e’ dovuta accoppiare con un maschio per generare mamma), e a sua volta non avrà mai figli maschi (se si accoppia tutto quello che feconda diventerà femmina, e con le uova non fecondate, che diventano maschi, non avrà mai a che fare), ma potrà avere nipoti maschi.

Ma, nonostante ciò, caro Alberto, un fuco non è un clone di sua madre, ne del nonno. Un clone, come due gemelli omozigoti, ha esattamente lo stesso genoma della sua sorgente. Quando l’ape regina fa le sue uova, le fa comunque per meiosi, e durante questa divisione i cromosomi si ricombinano e mischiano con il crossing over. Quindi un fuco sarà un po’ sua madre e un po’ suo nonno, ma mai un clone dei due.

Questo è l’endofallo del fuco, rivoltato come un guanto da un bravo apicoltore che ne vuol cogliere lo sperma ben indicato nella foto. Non c’entra con il discorso al momento ma ci tenevo che lo vedessi, caro Alberto. Photocredits: UC Davis Department of Entomology

Per rispondere specificamente alla tua domanda, se la regina madre si accoppia con suo figlio, maschio aploide, succede questo.
Il gamete maschile, aploide, contiene i geni della regina madre, ma ricombinati tra le due copie (che vengono da sua mamma e da suo nonno) quando la regina madre ha fatto per meiosi l’uova del fuco futuro marito.
L’uovo della regina contiene anch’esso i geni della regina madre, ma ricombinati anch’essi non solo tra loro per meiosi, ma anche con i geni del fuco, che i realtà sono i geni di mamma e nonna.
Se la cosa va avanti per tante generazioni diventa un problema, come al solito negli incroci tra consanguinei, ma le varie ricombinazioni omologhe impediscono che si arrivi ad un clone.  (Ti farà però piacer sapere che ci sono specie in cui può avverarsi il tuo scenario, con generazione di cloni: la madre deve essere però aploide. Succede, ad esempio, in certi afidi)

Anzi, a dirla tutta, l’ape regina è più imparentata con le sue sorelle che con le sue figlie , e qui si passa al perchè il sesso delle api funziona cosi, e ciò addirittura si collega al perché le api hanno una regina e una gerarchia tutta strana.

Darwin nell’Origine delle Specie scrive una di quelle cose che ai Creazionisti piace citare a sproposito fuori dal contesto:

I […] confine myself to one special difficulty, which atfirst appeared to me insuperable, and actually fatal to my whole theory. I allude to the neuters or sterile females in insect-communities:  for these neuters often differ widely in instinct and in structure from both the males and fertile females, and yet, from being sterile, they cannot propagate their kind.

Mi limito ad una particolare difficoltà, che all’inizio mi sembrava insuperabile, e a dire il vero fatale per la mia intera teoria. Alludo alle formiche operaie o sterili: poiché queste sono differenti nella struttura sia dai maschi che dalle femmine fertili, eppure, essendo sterili, non possono propagare i loro caratteri.

” Ohibo’ ! Le api distruggono la Teoria dell’evoluzione ” dice a questo punto il creazionista sprovveduto, dimenticandosi “”‘misteriosamente”””  di leggere i paragrafi successivi, in cui Darwin propone la sua soluzione, di cui metto un estratto piccino picciò considerato che Carletto è un poco verboso:

It will indeed be thought that I have an overweening confidence in the principle of natural selection, when I do not admit that such wonderful and well established facts at once annihilate my theory. In the simpler case of neuter insects all of one caste or of the same kind, which have been rendered by natural selection, as I believe to be quite possible, different from the fertile males and females, in this case, we may safely conclude from the analogy of ordinary variations, that each successive, slight, profitable modification did not probably at first appear in all the individual neuters in the same nest, but in a few alone; and that by the long-continued selection of the fertile parents which produced most neuters with the
profitable modification, all the neuters ultimately came to have the desired character.

Si penserà che ho una fiducia smisurata nel principio della selezione naturale vedendo che mi rifiuto di ammettere che tali meravigliosi e ben noti fatti distruggono completamente la mia teoria. Nel caso più semplice di insetti sterili della stessa casta o dello stesso tipo, che devono essere stati resi differenti dai maschi e dalle femmine fertili, come io credo, dalla selezione naturale, possiamo dire per analogia con gli altri tipi di variazioni che ciascuna modifica successiva, leggermente favorevole non è apparsa in tutti gli individui sterili in un singolo nido, ma solo in pochi; e per lunga e continua selezione dei genitori fertili che producevano più figli sterili con le modificazioni profittevoli, tutti gli sterili alla fine hanno sviluppato il carattere desiderato.

(Capitolo 7, Istinto)

Darwin in realtà, come spesso succede, si sbaglia nei dettagli, ma l’intuizione giusta di fondo c’è.

Le api operaie non sono sterili, e anzi ogni tanto depositano di nascosto qualche uovo. Per fortuna, però, il servizio di sicurezza interno funziona quasi sempre perfettamente, la larva viene cannibalizzata e la femmina uccisa per il suo crimine. Per il bene di tutti.

Le api sono animali eusociali: cioè formano vere società con gerarchie, caste, generazioni che convivono tra loro e altruismo.

Altruismo che funziona ed esiste perché i geni delle api sono egoisti.

L’idea si basa sulla teoria della Fitness inclusiva di W.D Hamilton, resa celebre da Dawkins nel libro che ho namedroppato prima.

La fitness, in gergo evolutivo, e’ la misura ideale di quanto un organismo è adatto al suo ambiente. siccome questa è una cosa difficile da misurare, anche perché include un sacco di idee abbastanza astratte, come surrogato per stimare la fitness si guarda a quanta prole ha una coppia. Se hai piu’ figli che sopravvivono meglio e competono con piu’ successo significa che i tuoi geni saranno sparsi in giro di piu’, cioè, in un certo senso, sei piu’ adatto al tuo ambiente.

Se guardiamo a questa idea pensando agli individui, però, non ha senso quello che fanno le api. Perché io, ape operaia, dovrei sopportare il fatto che le altre mi cannibalizzino i figli, mentre la regina fa uova ovunque?  Non sarebbe meglio una rivoluzione operaia che permetta alle sorelle di diventare proletarie?

La ragione per cui la risposta è no sta nell’aplodiploidia, nei maschi senza padre di cui abbiamo parlato prima, ma il segreto sta nel guardare la situazione come se fossimo geni che vogliono dominare il mondo.

Tu, caro Alberto, condividi circa il 50% dei geni con i tuoi genitori e con i tuoi eventuali fratelli e sorelle. Ma tu sei diploide.

L’ape regina, come tua madre, passa il 50% dei geni alle sue figlie (l’altra metà sarà del fuco). Ma, dal momento che la mamma della regina e’ diploide, ma il papà ha solo la metà dei cromosomi, condivide con le sue sorelle il 75% dei geni. Cioè, a dirla in un altro modo, è piu’ imparentata con le sorelle che con le figlie.

Diciamo ora che sei un gene egoista. A te non frega nulla degli altri geni, o dei desideri di maternità dell’ape operaia: vuoi solo diffonderti il piu’ possibile nella popolazione, vuoi essere in tutte le generazioni future.

Hai due strategie. Se sei egoista ma un po’ scemo, allora cercherai di costringere il tuo organismo a fare piu’ figlie possibili. Ogni volta hai il 50% di probabilità che una copia di te ci sia nel nuovo individuo.

Se invece sei piu’ furbo, sfrutterai il fatto che c’è già il 75% di probabilità che una tua copia sia nelle tue sorelle, e quindi, per conquistare il mondo il tuo piano sarà di far fare piu’ figli possibili a tua madre, e impedire che tua sorella faccia dei nipotini .

Questo piano diabolico massimizza la Fitness Inclusiva, cioè non solo il tuo egocentrico ed individuale successo riproduttivo, ma anche il successo riproduttivo degli altri che condividono gli stessi geni. Dall’egoistica voglia di autopropagazione dei geni nasce un sistema in cui, altruisticamente, le api dedicano la loro vita al supporto della famiglia.

Ad esempio cannibalizzando le larve nei momenti di scarsità di cibo. Ah, il cannibalismo, pilastro della civiltà.

Come avrai già intuito, caro Alberto, questo sistema può evolversi  a due condizioni. La prima è che la mamma regina non metta le corna al papà. E, nella maggior parte delle specie, l’ape regina durante il suo volo nuziale non solo si accoppia con un solo fuco, ma lo sperma di cui fa incetta viene conservato n organi appositi per tutta la vita, garantendo l’egual grado di parentela di tutte le api operaie.
L’altra condizione è che i maschi siano prodotti solo per partenogenesi e non possano sabotare l’equilibrio 75%-50% di geni in comune.

Il che è un po’ più un problema.

Ti devo fare una confessione, caro Alberto. Prima, quando ti dicevo che i maschi sono aploidi, non ti ho mentito, ma ho fatto qualcosa di necessario per quanto riprovevole: ho semplificato le cose. Perché per quanto questa sia la risposta un po’ piu’ complicata di quella breve, la realtà è ancora un po’ più complicata.

Quando ho parlato dell’aplodiploidia ho momentaneamente glissato sul come. Perché avere la metà dei cromosomi ti fa diventare maschio? In fondo hai tutto quello che serve per fare una femmina, solo che in singola invece che in duplice copia. Perché non ci dovrebbero essere maschi diploidi?

Ci sono maschi diploidi. Saltano fuori, ogni tanto, nelle linee pure degli apicoltori. Far incrociare di continuo gente strettamente imparentata fa sempre saltare fuori roba interessante.

Il maschio diploide salta fuori da un uovo fertilizzato, il che significa che ha un papà, oltre che una mamma. Avrà una copia di ciascun cromosoma dalla regina, e una dal fuco.Contando semplicemente i cromosomi dovrebbe essere una femmina, ma abbiamo un maschio fatto e finito con un endofallo che aspetta solo di essere rivoltato. I cromosomi ci hanno tradito: non sono direttamente loro a decidere il sesso. Siam caduti in una trappola, dando per scontato che le due cose erano l’una causa dell’altro, quando invece la situazione era un po’ più complicata. Dal momento che la comparsa di maschi diploidi era legata all’endogamia, i ricercatori intuirono che c’era di mezzo uno specifico che locus poteva essere in due stati, e, a seconda della sua condizione, determinava il sesso.
La dominanza e la recessività, in questo caso, non c’entrano. Quello che conta è l’eterozigosi o l’omozigosi, ossia avere due o differenti copie uguali su i due cromosomi omologhi. L’ipotesi era semplice: se sei un maschio, hai soltanto una copia del gene, e quindi sei per forza omozigote, e ti svilupperai in un maschio. Un uovo fecondato, invece, ha due copie del gene determinante il sesso: se sono differenti, diventi una femminuccia. Se sono uguali, diventi un maschietto. Sempre che non muori prima. Perché, non a caso, avere due copie del gene identiche è embrioletale per lo sfortunato maschio in fieri, a meno che non ci sia una qualche mutazione che mascheri l’effetto. In quel caso, può nascere un maschio diploide. Che, poco dopo la nascita, sarà cannibalizzato dalle altre operaie. Come si evolvono questi meccanismi molecolari e come cambiano nel tempo è una questione interessante, che però terremo per un’altra volta visto che questo articolo è già abbastanza massiccio.

La stretta somiglianza genetica fra generazioni a cui fai riferimento nella tua domanda, caro Alberto, è il collante che ha permesso l’evoluzione particolare della società delle api. E’ difficile mettersi nei panni dei geni egoisti che promuovono l’altruismo, ma la cosa bella è come una volta indossati quegli occhiali tutto comincia ad essere più chiaro, e i pezzi del puzzle ad incastrarsi. Non perfettamente, certo, perché ci sono ancora vagonate di roba da scoprire sull’evoluzione dell’eusocialità, ma abbastanza perché il cervello faccia “click”, quel click che dà il gusto di capire le cose.

Tranne il cannibalismo. Il cannibalismo proprio non lo capisco.

Brown SJ (2003). Entomological contributions to genetics: studies on insect germ cells linked genes to chromosomes and chromosomes to mendelian inheritance. Archives of insect biochemistry and physiology, 53 (3), 115-8 PMID: 12811764

Mackensen O (1951). Viability and Sex Determination in the Honey Bee (Apis Mellifera L.). Genetics, 36 (5), 500-9 PMID: 17247362

Quando l’uomo aveva 48 cromosomi

Se, al giorno d’oggi, dovessi per caso dire che l’uomo ha quarantotto cromosomi, le fiere dell’inferno si abbatterebbero su di me: orde di biologi farebbero la fila per insultarmi e fustigarmi di fronte ad un così macroscopico errore. Del resto sin da quando si è bimbi,si insegna, quasi fosse una filastrocca, che di cromosomi se ne ricevono ventitré dal papino, e ventitré dalla mamma: 23 a coppie, per un totale di 46. Poi non sono veramente convinto che la gente abbia un’idea chiara di cosa sia un cromosoma, considerato che la maggioranza degli italiani non sa se è più grande un protone o un elettrone, ma sono ben convinto che se scrivessi qui che l’uomo ha quarantotto cromosomi, il mio pubblico, composto perlopiù da gente più istruita della media oltre che da mia mamma (ciao mamma!), si fionderebbe nei commenti a segnalare il terribile errore.

Quello che però difficilmente questi saccenti arrabbiati tengono presente è che fino agli anni ‘50 la quasi totalità della comunità scientifica era pressoché certa che l’uomo di cromosomi ne aveva quarantotto, ventiquattro coppie. Se non avete idea su cosa sia un cromosoma, e come abbiamo scoperto che i geni stanno sui cromosomi, e come la genetica è stata rimessa assieme alla teoria dell’evoluzione, date un occhio al mio articolo sull’eclissi del darwinismo; forse non vi chiarirà tutti i dubbi, ma almeno avete un idea dello sfondo storico, quasi contemporaneo alla storia che vi sto per raccontare, con cui spero di battere in saccenteria i saccenti arrabbiati.

Un cariotipo umano, cioè una foto la compilation dei cromosomi che vi portate a spasso. Questa foto è un collage del 1979, dopo l’introduzione della colchichina Photocredits: T. C. Hsu

Non mi pare di aver mai definito che cosa sia un cromosoma nell’articolo precedente, e non lo farò neanche adesso: in fondo, i ricercatori degli anni ’20 non avevano una chiara idea di quello che era o non era un cromosoma, e non vedo perché voi dovreste avere un vantaggio. L’unica cosa che dovreste avere è  la vaga idea che il cromosoma è fatto di DNA arrotolato su se stesso, e che i cromosomi appaiono come bastoncini colorati (cromo-somi, corpi colorati, come vuole il nome stesso) solo poco prima della divisione cellulare. Per vedere i cromosomi bisogna beccare le cellule nel momento giusto, quando tutto il DNA è impacchettato nel suo bastoncino. Questa è una sfida tecnica non indifferente, perché in una cellula morente i cromosomi si fondono e si rompono in allegria. Per beccare per bene i cromosomi servivano quindi cellule fresche, e possibilmente con poco altro oltre al DNA di modo che nulla interferisse con l’osservazione. E siccome i metodi di colorazione che cromavano i cromosomi non erano esattamente massimo della precisione era anche bene avere una grande quantità di queste cellule, sicché almeno qualcuna sui prendesse la cellula giusta al momento giusto.

In pratica, servivano montagne di testicoli.

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L’invasione del dipartimento di Farmacologia di Milano e un paio di paper

Visto che un branco di facinorosi ha ben pensato di andare a far danni al Dipartimento di Farmacologia dell’Università di Milano, siccome sono dell’idea che per combattere l’ignoranza non c’è niente di meglio della cultura, andiamo a vedere e spiegare qualcuna delle pubblicazioni che sono uscite da questo ” lager vivisezionista “.

Tra le centinaia e centinaia di pubblicazioni che trovate sul sito del dipartimento: http://www.farmacologia.unimi.it/pubblicazioni.php?ln=it ne ho prese giusto un paio, per praticità e rapidità; conto nel caso di farlo anche per qualche altro articolo.

Partiamo da:
Mutant PrP suppresses glutamatergic neurotransmission in cerebellar granule neurons by Impairing Membrane Delivery of VGCC α2δ-1 Subunit; Neuron.; 74/2; 2012; 300-313.

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3339322/

Probabilmente avete sentito parlare delle malattie da prione, tipo la mucca pazza. Un prione è una proteina mutante piegata in una forma erronea, che trasforma altre proteine intorno a lei in altri mutanti. In un vecchio articolo avevo paragonato i prioni agli zombi: come gli zombi, sono quasi indistruttibili, e un “morso” di prione zombifica.

Oltre alla mucca pazza, circa un 15% delle malattie prioniche sono ereditarie e invariabilmente letali, dovute a mutazioni nel gene PrP. I prioni si accumulano all’interno dei neuroni e si depositano, fino a far suicidare la cellula; ma i sintomi e i problemi neurologici cominciano molto prima che i neuroni comincino a morire. Ancora prima infatti i prioni interferiscono con il funzionamento delle sinapsi, i collegamenti fra i neuroni, e quindi qualsiasi terapia deve innanzitutto impedire i danni sinaptici.

Il problema principale era che, mentre è abbastanza chiaro come l’accumulo di PrP faccia suicidare i neuroni, non si aveva una chiara idea di come i prioni interferissero con le sinapsi. E se neppure sai in quale quartiere sta il bersaglio, è difficile fare centro.

I ricercatori hanno quindi preso un ceppo di ratti, il ceppo TG. Come l’evoluzione prevede, i ratti hanno più del 90% dei geni in comune con l’uomo, incluso il gene Prp; e i ratti del ceppo TG hanno una mutazione in questo gene, esattamente come gli sfortunati esseri umani che ereditano le malattie prioniche. Inizialmente, come negli esseri umani, i topi non presentano sintomi evidenti, ma invecchiando la neurodegenerazione si fa sempre più forte, portando all’atassia (la perdità della coordinazione muscolare) e ad una terribile atrofia cerebrale. Lo stesso è tristemente vero nell’uomo.

Osservando il procedere della malattia, gli autori hanno notato che alcuni deficit del movimento insorgono prima di danni visibili a cervello o cervelletto. Per verificare che stava succedendo all’interno del cervello, i ricercatori hanno fatto risonanze magnetiche progressive ad animali di diversa età confrontandoli con ratti controllo della stessa età perfettamente sani, rilevando un tipo di anomalia che è normalmente dovuto alla disfunzione di un particolare neurotrasmettitore, la glutammina.
La loro ipotesi era che la PrP interferisse con VGCC, una proteina canale necessaria per il funzionamento glutaminergico della sinapsi, e la trattenesse all’interno del reticolo endoplasmatico, la parte della cellula in cui vengono costruite le proteine che devono essere poi esposte sulla superficie.

Alcune immunostain, o immagini a fluorescenza, dal paper

Alcune immunostain, o immagini a fluorescenza, dal paper

Oltre a tutta un’altra serie di esperimenti (non è che ti pubblicano proprio con leggerezza su Neuron) per dimostrare questa interazione i ricercatori hanno verificato la co-locazione di queste due proteine con un esperimento di immunofluorescenza, quello nell’immagine qui sopra: degli anticorpi marcati con un colore fluorescenti sono stati fatti legare alla PrP mutante e alla sub-unità del canale VGCC coi cui pensavano che interagisse. Come si vede dall’immagine, sia la PrP sia VGCC si accumulano assieme negli organelli di trasporto. (Tra l’altro, per la gioia degli antivivisezionisti, questo particolare immunostain è stato fatto in vitro su cellule umane. Altre procedure, come capire specificamente in quali neuroni avveniva questa interazione, hanno richiesto l’autopsia dei rattini. Autopsie anche sui giovani che non erano ancora morti naturalmente ma che sono stati uccisi appositamente; sentitevi pure liberi di urlare “assassini” se ne avete questo bisogno atavico).

La conclusione è molto incoraggiante per chi è affetto da queste malattie, e la cito direttamente:

Clearly, further studies are required to establish the physiological significance of the PrP-α2δ-1 interaction. It will be critical to identify the protein domain(s) involved in the interaction, and any other interacting partners. In light of the dysfunctional consequences of the mutant PrP association with α2δ-1, disrupting their binding might represent a means for therapeutic intervention.

Per la mia mamma (non-anglofona), dice, in due parole, che impedire il legame tra PrP e VGCC può essere un bersaglio terapeutico. Non proprio una cosa da nulla.

Questo secondo articolo non è open access, ma siccome i precedentemente citati animalisti sono barricati al quarto piano e so per certo che i topini di questo esperimento sono lì (si vedono anche nel video, sono facilmente riconoscibili in quanto scuri al contrario dei classici topini bianchi), mi sembra rilevante parlare di questo studio:

Pharmacologic rescue of impaired cognitive flexibility, social deficits, increased aggression, and seizure susceptibility in oxytocin receptor null mice: a neurobehavioral model of autism.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21306704

Un topino BTBR, un'altro modello murino dell'autismo, in questo caso non transgenico ma semplicemente inbred. Da http://jaxmice.jax.org/strain/002282.html

Un topino BTBR, un’altro modello murino dell’autismo, in questo caso non transgenico ma semplicemente inbred. Da http://jaxmice.jax.org/strain/002282.html

 

L’autismo è una sindrome ben complicata, anche perché, sebbene ci siano forti indicazioni che l ’ autismo costituisca un disordine dello sviluppo cerebrale su base biologica, non è che sappiamo esattamente i fattori eziologici. Possiamo fare osservazioni sui sintomi e vedere come bimbi autistici abbiano un volume ridotto dell’ippocampo, dell’amigdala, hanno spesso problemi di risposta autoimmune (Singh et al, 1993), e livelli alterati di due neurotrasmettitori, serotonina e dopamina.

La serotonina ha un sacco di funzioni collegate alla temperatura corporea, al dolore, alla percezione sensoriale, al sonno, al comportamento sessuale, alla funzione motoria, al sistema neuroendocrino, alla memoria, l’apprendimento; almeno un terzo dei pazienti autistici ha un eccesso di serotonina.

Un idea per cercare di raccapezzarcisi è allora andare a vedere i geni coinvolti nell’autismo che interessano la neurotrasmissione, in particolare i trasportatori della serotonina, dell’ossitocina e della vasopressina, altri due neuro-ormoni comportamentali. Perciò si cercano (o, per meglio dire, si creano) topi mutanti che abbiano comportamenti riconducibili in qualche modo all’autismo; che possano simulare sintomi affini dovuti a cause neurologiche affini. Si osservano questi topini transgenici e si misura come interagiscono con i loro simili, l’aggressività, come reagiscono in presenza di sconosciuti, come e quanto giocano quando sono piccoli rispetto a topi normali; se sono in grado di imparare a costruirsi un nido e come rispondono alle vocalizzazioni e i feromoni materni; si controlla se la loro memoria funziona normalmente e se sviluppono comportamenti ritualistici o ossessivi.

In questo modo si può andare a fare sia ricerca di base su questi topi (capire che cosa cambia cambiare i geni che danno comportamento autistico) e cercare di ridurre questi sintomi, trovare trattamenti farmacologici.

Sembra che, nell’uomo, ci siano indicazioni che trattamenti a base di ossitocina, un neuro-ormone, riducano la gravità dei sintomi autistici. E, in maniera confortante per il funzionamento del metodo, i topini transgenici che vengono insensibilizzati all’ossitocina mostrano sintomi autistici, e sembrano essere un modello migliore degli altri sviluppati finora, perché, oltre agli altri sintomi, mostrano frequentemente casi di convulsioni, un altro sintomo clinicamente associato all’autismo nell’uomo. Similarmente, i trattamenti farmacologici che funzionano nell’uomo per ridurre la gravità ei sintomi funzionano in questi topini, il che significa che il meccanismo molecolare che li causa è probabilmente lo stesso.

Nell’articolo in sostanza si dimostra come questo nuovo ceppo di topini è un buon modello animale, e riproduce in maniera realistica e credibile l’autismo. Questo è chiaramente un risultato molto importante, perché, come dicono le conclusioni dell’articolo:

The Oxtr(-/-) mouse is thus instrumental to investigate the neurochemical and synaptic abnormalities underlying autistic-like disturbances and to test new strategies of pharmacologic intervention.

O, in Italiano, di grande importanza ” per investigare le abnormalità sinaptiche e neurochimiche che sono causa di disturbi simil-autistici e per testare nuove strategie di intervento farmacologico ”

Ovviamente queste sono solo due gocce in un oceano di di pubblicazioni, tanto per dare una vaghissima idea di quello che si fa, dentro quel dipartimento. Sarebbe stato forse più giusto parlarne senza questo pretesto dietro, ma tant’è. Di tutta l’informazione e la caciara che si farà per questa questione, è pressoché ovvio che di scienza se ne parlerà ben poco, e di fatti ancor meno.

ResearchBlogging.org

Senatore A, Colleoni S, Verderio C, Restelli E, Morini R, Condliffe SB, Bertani I, Mantovani S, Canovi M, Micotti E, Forloni G, Dolphin AC, Matteoli M, Gobbi M, & Chiesa R (2012). Mutant PrP suppresses glutamatergic neurotransmission in cerebellar granule neurons by impairing membrane delivery of VGCC α(2)δ-1 Subunit. Neuron, 74 (2), 300-13 PMID: 22542184

Sala, M., Braida, D., Lentini, D., Busnelli, M., Bulgheroni, E., Capurro, V., Finardi, A., Donzelli, A., Pattini, L., Rubino, T., Parolaro, D., Nishimori, K., Parenti, M., & Chini, B. (2011). Pharmacologic Rescue of Impaired Cognitive Flexibility, Social Deficits, Increased Aggression, and Seizure Susceptibility in Oxytocin Receptor Null Mice: A Neurobehavioral Model of Autism Biological Psychiatry, 69 (9), 875-882 DOI: 10.1016/j.biopsych.2010.12.022

Come la genetica quasi ammazzò Darwin

Oggi a pranzo è saltato fuori un discorso particolare. Stavo avvertendo altri biologi della conferenza di mercoledì di Massimo Pigliucci con lo stesso distacco emotivo con cui una dodicenne parla di un imminente concerto di Justin Beiber, con tanto di squee e polso accelerato. Sebbene la platea mi fosse favorevole, almeno rispetto allo standard delle persone su cui vomito saccenza, il messaggio non mi sembrava accolto con particolare entusiasmo. Più che altro perché gli infedeli in questione non sembravano sapere chi fosse Pigliucci.

Quel gran figo di Massimo Pigliucci. Vi avviso, tutte le foto nell’articolo resto dell’articolo riguardano biologi, funzioni matematiche o insetti.

“Ma dai, è uno di quelli della sintesi estesa!” Esclamo, con quel tono che sembra voler dire “la tua ignoranza è sconvolgente”, ma che in realtà vuol sottointendere “ti compatisco”. Perché mi piace farmi amica la gente.

Così sto saccentando spiegando qua e là che cosa vuol dire sintesi estesa, quando una brillante osservazione arriva da uno dei miei interlocutori: “sintesi estesa” è, a guardarlo bene, un ossimoro. E non ci avevo mai fatto caso, una di quelle cose che si nascondono in
piena vista.

Ovviamente ossimoro non lo è poi di fatto, perché sintesi estesa si rifà nel nome alla ben più famosa sintesi moderna, quel famoso neodarwinismo degli anni 40… come sintesi di che? Non avete fatto un esame di storia della biologia? Come no? Ah invece tu si e comunque non hai idea di cosa sto parlando? Beh ma la insegnano proprio a cazzo…

In realtà sto millantando, perché non sono neanche eccessivamente sicuro di quello che sto per dire, ma se non trovo una risposta plausibile al “sintesi de che?”, Ci faccio una pessima figura.

Via, spariamola. “Eh, la sintesi moderna perché mette insieme Darwinismo e Mendel, perché non so se lo sai, ma fino agli anni venti molta gente era convinta che Mendel confutasse Darwin, la sintesi moderna ha riconciliato le due cose. ”

” Che cosa che cosa? ” occhi sgranati e sopracciglia aggrottate. ” come dovrebbe fare Mendel a confutare Darwin? “. Phew, li hai dirottati su un argomento di cui sai la risposta con certezza. E giù di prosopopea.

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Darwin e la vivisezione

Oggi è il Darwin Day, l’annuale festa dedicata a Carletto Darwin, e cercavo qualcosa di interessante da scrivere a proposito per celebrarlo in qualche modo, pur avendo bucato paurosamente le scadenze del Carnevale della Biodiversità. Fortunosamente, anche per colpa della questione dibattito scienza – movimento5stelle – e casini vari, sono andato a riscoprire un po’ il ruolo che Darwin ha avuto nella discussione del benessere animale, della ricerca scientifica e dell’antivivisezionismo suo contemporaneo.

Partiamo con una precisazione importante: ai tempi di Darwin, il termine vivisezione non era, come lo è impropriamente oggi, sinonimo di tutti i tipi di sperimentazione animale, ma indicava soltanto la vivisezione etimologicamente propria (cioè il tagliare effettivamente gli animali vivi, più che altro per studiarne la fisiologia) e la “tossicologia” (che metto tra virgolette perché era ancora nella sua infanzia, e per molti versi era una disciplina molto più chimica che biologica). Darwin stesso spesso insiste per l’uso del termine sperimentazione animale in maniera distinta da vivisezione, e visto che è il suo compleanno non gli si può certo fare un torto.

Se usassimo la più vasta definizione moderna, Darwin, che di sua mano aveva effettivamente sperimentato sui piccioni, sarebbe probabilmente da includere nei ranghi dei vivisezionisti; ma fare un ragionamento del genere non solo è sciocco perché non tiene conto del contesto storico, ma anche perché Darwin, quasi più di ogni altro, ha insistito affinché ci fosse una legislazione sulla sperimentazione, e, per certi versi, ha fondato l’interesse scientifico per per il benessere animale.

Prima di Darwin la questione più simile oggetto di dibattito era se gli animali avessero un anima oppure no; altri, in tempi più temporalmente vicini all’Origine delle specie, si interrogavano se gli animali potessero soffrire, sull’onda di Bentham; ma si trattava per lo più di dispute vuote, che arrivavano alle orecchie di chi stava nelle torri d’avorio e pochi altri.

Raramente si andava a toccare la questione del diritto dell’uomo di sfruttare gli altri animali: per il mondo vittoriano c’era, come diceva Giovanni Paolo II duecento anni dopo, un “salto ontologico”, una distinzione profonda tra l’essere animale e l’essere uomo. L’origine delle specie mostra che questo distinguo è una fregnaccia. Intanto ancora all’inizio del 1800 per le strade londinesi si giocava al cock-throw, in barba alla moderna sensibilità animalista.

Il “nobile” sport del cock-throw consisteva nel legare un gallo ad un palo, e lanciargli contro degli speciali bastoni fino ad ammazzarlo. Era considerato la versione più adatta ai bambini dei più comuni e più diffusi combattimenti tra galli. Pratiche di questo genere andarono avanti fino al 1840. La stampa qui sopra raffigurata è del 1820.  Photocredits: Wikicommons

All’inizio l’antivivisezionismo aveva motivazioni del tutto avulse al darwinismo. Ad esempio, i primi a proibire il già cock-throw nel 1660 erano stati i puritani: non per qualche particolare interesse nei confronti degli animali, ma perché questa pratica portava spesso a risse e dispute tra giocatori e tifosi. Dopo la seconda metà dell’800 oltre a Bentham e agli utilitaristi una nuova categoria si aggiungeva agli antivivisezionisti: le femministe, che spesso dicevano di essere più vicine nello spirito agli animali che agli uomini, e sentivano la violazione dei corpi animali come il risultato della stessa patriarchia che le opprimeva, tanto che, ai tempi di Darwin, femminismo e animalismo erano quasi sinonimi. Charles conosceva bene questo movimento anche perché una delle sue figlie, Etty Darwin, era in prima fila. Ma l’opinione pubblica andava cambiando, tanto che anche Darwin decise di far sentire la sua voce, per quanto avesse sempre rifuggito ogni forma di impegno pubblico e lasciasse le discussioni sull’evoluzione al suo “bulldog”, TH Huxley . Darwin in generale disprezzava ogni forma di crudeltà, tanto nei confronti dell’uomo quanto nei confronti dell’animale. Suo figlio Francis racconta come il padre fosse perseguitato dai ricordi degli schiavisti con cui aveva avuto a che vedere in Brasile, e come intervenisse contro le inutili crudeltà sugli animali:

The remembrance of screams, or other sounds heard in Brazil, when he was powerless to interfere with what he believed to be the torture of a slave, haunted him for years, especially at night. In smaller matters, where he could interfere, he did so vigorously. He returned one day from his walk pale and faint from having seen a horse ill-used, and from the agitation of violently remonstrating with the man. On another occasion he saw a horse-breaker teaching his son to ride, the little boy was frightened and the man was rough; my father stopped, and jumping out of the carriage reproved the man in no measured terms.

Del resto, una delle ragioni che portarono Darwin a perdere la fede era l’insensatezza della violenza in natura, non riconducibile ad un piano divino:

I cannot persuade myself that a beneficent and omnipotent God would have designedly created parasitic wasps with the express intention of their feeding within the living bodies of Caterpillars.

Non è però corretto sostenere che Darwin fosse una specie di attivista per i diritti degli animali ante-litteram: quello a cui più di tutto Darwin era interessato era una riduzione della sofferenza. Scrivendo allo zoologo di Oxford Ray Lankaster nel 1871, in richiesta della sua opinione sulla vivisezione, Darwin rispondeva:

You ask about my opinion on vivisection. I quite agree that it is justifiable for real investigations on physiology; but not for mere damnable and detestable curiosity. It is a subject which makes me sick with horror, so I will not say another word about it, else I shall not sleep to-night.

Come la stragrande maggioranza della comunità scientifica moderna, Darwin era convinto che la vivisezione e la ricerca animale fossero una attività vitale per lo sviluppo della scienza medica e della fisiologia, ma con rispetto dell’animale e minimizzando ogni forma di dolore inutile. Per questo, quando nel 1874 scoppiò il caso vivisezione nel Regno Unito, Darwin entrò in campo. Il 13 agosto del 1874 Eugene Magnan, un fisiologo francese, con quattro colleghi britannici, aveva partecipato ad una dimostrazione fisiologica agghiacciante sull’effetto dell’assenzio sul sistema nervoso centrale. Dei cani venivano immobilizzati e l’alcool iniettato direttamente in arterie precedentemente incise, mentre gli animali erano pienamente coscienti. Il direttore del Royal College of Surgeons in Irlanda, Thomas Joliffe Tufnell, che era presente, tentò di interrompere la crudele dimostrazione, ma la questione fu messa ai voti, e la procedura andò avanti. Tufnell, adirato, riportò la storia nel British Medical Journal, allora come oggi una delle più importanti testate mediche al mondo, e i fisiologi furono rapidamente messi alla gogna pubblica e portati a processo per via di questo abuso. O almeno, quelli inglesi: Magnan era già scappato in Francia al momento del processo. La questione entrò così nei salotti vittoriani, e gli antivivisezionisti poterono sfruttare il favore dell’opinione pubblica per partire alla carica. In cima alla lista c’era Frances Power Cobbe, una scrittrice femminista e animalista, che, anche tramite Etty, convinse Darwin a collaborare con la neofondata National Anti-Vivisection Society. Darwin era però preoccupato dai dettagli dell’ ” Act to amend the Law relating to Cruelty to Animals”, la legge che Cobbe, con l’appoggio di alcuni membri del parlamento, aveva iniziato ad abbozzare. In una lettera a sua figlia del 4 gennaio 1875 scrive a cuore aperto:

Your letter has led me to think over vivisection for some hours, and I will jot down my conclusions, which will appear very unsatisfactory to you. I have long thought physiology one of the greatest of sciences, sure sooner, or more probably later, greatly to benefit mankind; but, judging from all other sciences, the benefits will accrue only indirectly in the search for abstract truth. It is certain that physiology can progress only by experiments on living animals. Therefore the proposal to limit research to points of which we can now see the bearings in regard to health, etc., I look at as puerile. […] I would gladly punish severely any one who operated on an animal not rendered insensible, if the experiment made this possible; but here again I do not see that a magistrate or jury could possibly determine such a point. Therefore I conclude, if (as is likely) some experiments have been tried too often, or anaesthetics have not been used when they could have been, the cure must be in the improvement of humanitarian feelings. […] If stringent laws are passed, and this is likely, seeing how unscientific the House of Commons is, and that the gentlemen of England are humane, as long as their sports are not considered, which entailed a hundred or thousand-fold more suffering than the experiments of physiologists–if such laws are passed, the result will assuredly be that physiology, which has been until within the last few years at a standstill in England, will languish or quite cease.

Che fare, dunque ? Come assicurarsi che la legislazione potesse essere scritta in maniera sensata, tale da tutelare sia gli animali che il progresso scientifico, senza che nessuno dei due fosse vittima dell’ipocrisia vittoriana ? Darwin, insieme a suo genero Robert Litchfield, scrisse un nuovo e diverso disegno di legge, la “Playfair bill”,  dal nome del Dr. Lyon Playfair, che la propose effettivamente in Parlamento. Questa nuova bozza aveva almeno un paio di differenze importanti dalla proposta originale: non solo l’anestesia era richiesta in ogni occasione in cui fosse possibile, ma la vivisezione a fini dimostrativi, nelle scuole veniva completamente abolita. Cobbe non faceva questo genere di distinzione tra esperimento nuovo e semplice dimostrazione, e avrebbe condannato ogni forma di sperimentazione animale. La legge seguiva in maniera ragionevole le guidelines elaborate dalla British Society For The Advancement of Science (BAAS): Darwin scrisse ad Huxley che non solo le trovava il miglior compromesso possibile, ma anche la soluzione più umana. L’anno successivo, il 1876, vide il passare alla storia del  ” Cruelty To Animals Act “, su cui molto pesava la mano spirituale di Darwin, e che rimase la principale normativa in tema per quasi 110 anni. Per Cobbe questo non era tuttavia abbastanza. I due ebbero una piccola diatriba tramite lettere sul Times: la medesima questione della vivisezione stava nascendo in Svezia, e il Professor Homlgren, di Upsala, chiedeva pubblicamente un’opinione a Darwin. Questi, nella lettera pubblica, scrisse:

I have all my life been a strong advocate for humanity to animals, and have done what I could in my writings to enforce this duty. Several years ago, when the agitation against physiologists commenced in England, it was asserted that inhumanity was here practised and useless suffering caused to animals; and I was led to think that it might be advisable to have an Act of Parliament on the subject. […] On the other hand I know that physiology cannot possibly progress except by means of experiments on living animals, and I feel the deepest conviction that he who retards the progress of physiology commits a crime against mankind. Any one who remembers, as I can, the state of this science half a century ago must admit that it has made immense progress, and it is now progressing at an ever-increasing rate.

Darwin aveva già perso fiducia nei confronti di Frances Cobbe quando quest’ultima aveva editato senza il suo permesso una sua lettera prima della pubblicazione. Intanto il movimento antivivisezionista si aggiungevano nuove voci. Darwin ebbe senza dubbio una grande influenza in ciò: come facile esempio basta riportare le parole di Thomas Hardy che, nel 1909, scriveva:

 the practice of vivisection which might have been defended while the belief ruled that men and animals are essentially different, has been left by that discovery (la selezione naturale, ndr) without any logical argument in its favour

Ma la gran parte dei nuovi oppositori tra la fine dell’800 e gli inizi del 900 non avevano molto di darwinista, e neppure molto di scientifico. In primis, c’erano i socialisti, che vedevano gli scienziati come un elité e la scienza come strumento di oppressione governativa; dall’altro lato, stava nascendo un rigurgito anti-scienza, alimentato dalle sperimentazioni sull’uomo (e sugli animali) dell’inoculazione inventata da Pasteur, che veniva dipinto dall’opinione pubblica come una specie di Frankenstein. Nel 1883, ad esempio, quando il governo Francese premiò Pasteur per il suo lavoro, fu lanciata di rimando una campagna internazionale che eguagliava vaccinazione e vivisezione e che, tra le altre cose, diceva che

” […] science does not recognize in the great discoveries of M.Pasteur anything but the tissue of a dogmatic conception more likely to ruin than to enrich the country that would adopt them. ” 

Fortunatamente, queste campagne, più che scoraggiare la vivisezione, finirono per pubblicizzare l’inoculazione e le scoperte di Pasteur ancora maggiormente, permettendo le prime vaccinazioni di massa. Sfortunatamente, hanno finito per polarizzare ancora di più gli animi. Molti fattori sono entrati in gioco nel miglioramento delle condizioni degli animali e nella rivendicazioni dei loro diritti nella storia; è un peccato che l’impegno di un grande della storia come Darwin venga dimenticato.

Feller DA (2009). Dog fight: Darwin as animal advocate in the antivivisection controversy of 1875. Studies in history and philosophy of biological and biomedical sciences, 40 (4), 265-71 PMID: 19917485

Darwin, C (1881). Mr. Darwin on Vivisection Nature, 23 (599), 583-583 DOI: 10.1038/023583a0

Piove, batteri ladri

In questo post farò un paio di affermazioni che vi sembreranno strane, contrarie a quello che credete di sapere.  Resistete all’idea di dire ” Ma questo è un coglione!” e proseguite a leggere, o cliccate sui copiosi riferimenti per controllare che quello che sto dicendo ha effettivamente senso.

In primo luogo, l’acqua non congela a 0 gradi Celsius. In effetti, l’acqua fatica a congelare anche a -10 °C, e ha anzi bisogno di una mano per diventare ghiaccio.

L’acqua normalmente congela a temperature inferiori agli 0 °C perché l’acqua, normalmente, è piena di impurità. Il ghiaccio, come tutti i cristalli, si forma molto più facilmente intorno a qualcosa che funga da nucleo, che faccia da stampo per la crescita dei cristalli intorno. Il nucleo funziona come uno schizzo di un disegno, limitando le infinite possibilità della carta bianca a quelle ammesse dalla sagoma dello schizzo, costringendo le altre forme a svilupparsi entro determinati limiti. Il nucleo nella formazione di un cristallo limita i possibili arrangiamenti delle molecole vicine, e forza il cristallo a coalescere e formarsi.

L’acqua veramente ma veramente pura, senza impurità che fungano da nucleo, non congela fino a -48 °C.

L’acqua normalmente è piena di particelle microscopiche di polvere e altra robaccia simile, il che permette la nucleazione; ma queste particelle non sono particolarmente brave a farla ghiacciare. La maggior parte delle polveri organiche non riesce a far congelare l’acqua senza che la temperatura scenda ad almeno -15°c.

Googlando ” Ice Nucleation” tra i primi risultati c’è questa immagine, che non mi è ben chiaro cosa c’entri, ma è bellina comunque. E siccome viene da un sito governativo USA, significa che è sicuramente di pubblico dominio e posso metterla senza problemi.

Sapete cosa funziona bene come nucleo ? I batteri.

Nel 1982, Deane Arny stava cercando di capire perché diavolo alcune piante congelavano più di altre. Essendo una patologa, si rese conto che se la pianta era infetta da Pseudomonas syringae, un batterio parassita, congelava molto più frequentemente e rapidamente. P. syringae produce una proteina particolare, InaZ, che, a causa della sua particolare struttura tridimensionale, permette all’acqua di congelare alla temperatura relativamente alta di -2 °C. E probabilmente non è un caso: facendo cristallizzare l’acqua nella pianta a temperature così basse, il batterio spacca le cellule e riesce ad estrarre più nutrimento, migliorando la sua capacità di parassitare.

Oggi conosciamo un sacco di proteine che fanno la stessa cosa in molte specie, da batteri microscopici a gasteropodi. In alcuni casi la proteina viene utilizzata come difesa, inducendo il congelamento preferenziale di zone dell’organismo che ne sono meno danneggiate. A volte è un effetto collaterale, una conseguenza della struttura tridimensionale della proteina necessaria per qualche altra funzione, che coincidentalmente funziona bene come nucleatore.

L’immagine è bruttina, ma si riesce a capire come questa Rana sylvatica, indigena del Nord America, durante l’inverno congeli quasi completamente. Oltre il 65% dei suoi tessuti diventa ghiacciato, ma utilizzando nucleatori in posizione strategiche, impedisce danno a tessuti importanti, e può scongelarsi senza problemi permanenti in primavera.

Ed ecco una seconda affermazione che può sembrare folle: sono i batteri a far piovere.

L’aria, nuvole incluse, è strapiena di batteri, funghi e altre schifezze che funzionano da nucleatori molto meglio di polvere e altre particelle simili. Alcuni di questi micro-organismi producono proteine simili a InaZ, che formano cristalli di ghiaccio nelle nuvole. Questi cristalli, se diventano abbastanza grossi e pesanti, finiscono  per precipitare sotto forma di neve o di pioggia, a seconda della temperatura (che li fa sciogliere durante la caduta o meno).

Sì, sì, sembra una follia, l’idea egocentrica di un microbiologo che vorrebbe che perfino il clima dipendesse dai capricci di microorganismi vari. Eppure, Pseudomonas syringae viene costantemente rilevato nell’acqua piovana dall’Antartide fino alle Alpi; nella grandine del Montana la concentrazione può arrivare al migliaio di batteri per millilitro, e i ceppi di batteri precipitati sono distinti da quelli locali, il che significa che generalmente arrivano da lontano.

” Beh ma trovare i batteri nel ghiaccio o nell’acqua non significa che siano responsabili del ghiacciamento o della pioggia” dice lo scettico di turno, rammentando bene che correlazione non implica causazione. Ed ha ragione, di fatto: diversi studi preliminari suggeriscono che l’effetto sul clima globale della nucleazione biologica è piuttosto ridotto, tanto da poter essere trascurabile. I batteri non possono controllare se piove o meno: possono decidere di gettarsi dalle nuvole in cui si trovano momentaneamente, cristallizzando i loro dintorni immediati con le loro proteine nucleanti, ma niente più.

Quindi, tecnicamente, non potete dare la colpa ai batteri se piove proprio quando avete organizzato un picnic con la vostra bella  (potete però sempre dare la colpa al governo, se vi va. Alla fine sono tutte forze abiotiche).

Ma potete dire, con ragionevole certezza, che esiste una specie di batteri , alias Pseudomonas syringae, che oltre a parassitare le piante, oltre a sfruttare il ghiaccio per fare parte del suo lavoro, ha imparato a parassitare il dannato ciclo dell’acqua per arrivare dove gli pare sulla terra.

E poi dicono che “parassita” dovrebbe essere un termine dispregiativo. Tzé.

Morris, C., Sands, D., Vinatzer, B., Glaux, C., Guilbaud, C., Buffière, A., Yan, S., Dominguez, H., & Thompson, B. (2008). The life history of the plant pathogen Pseudomonas syringae is linked to the water cycle The ISME Journal, 2 (3), 321-334 DOI: 10.1038/ismej.2007.113