Archivio Categoria: Fisica

Sferoidi oblati, triangoli e orologi: la misura della terra né piatta né tonda

Recentemente su Italia Unita Per La Scienza è uscito un post in due parti (Prima e Seconda) sul mito della terra piatta nelle ere. Per una fortuita coincidenza, ho iniziato da poco a leggere il Ciclo Barocco di Neal Stephenson, una mostruosità da 3000 e rotte pagine di romanzo storico sulle origini della scienza illuminista scritto da un famoso autore di fantascienza; una lettura leggera sotto l’ombrellone.

Che c’entra? C’entra perché (Spoilers?) uno dei personaggi del romanzo, pre-Newton, utilizza un pendolo per dimostrare che la forza di gravità diminuisce allontanandosi dal centro della terra. Il collegamento resta oscuro (mancano un po’ di passaggi) ma ho fatto l’associazione di idee con il post di IxS visto che è per merito di un pendolo che si è passati dal considerare la terra una sfera al più accurato sferoide oblato. Ergo, prima che mi dimentichi del tutto come si fa a scrivere visto che son passati mesi dall’ultimo post, uno spiegone su come sappiamo che la terra non solo non è piatta, ma non è neanche una sfera.

Partiamo dall’ultima parte del trittico del titolo: gli orologi. Intorno al quattordicesimo secolo, in Italia, nei campanili, cominciano ad apparire orologi con scappamento a verga. Lo scappamento è, per farla semplice, il meccanismo che determina ogni quanto l’orologio ticchetta; lo scappamento a verga ha una corona coi denti a seghetto e una verga che, con due palette, blocca la rotazione della corona in passi fissi della durata di un tic.  Il problema intrinseco di questo tipo di meccanismo è che la regolarità del ritmo dipende moltissimo dall’attrito del sistema: se i denti della corona si consumano, o una paletta impiega anche una frazione di secondo in più del dovuto a spostarsi, o la verga non è ben lubrificata, ecco che subito cominciano i casini e l’orologio perde rapidamente di precisione.

Lo schema di uno scappamento a verga, da Henry Evers (1874), A Handbook of Applied Mechanics, William Collins & Sons, London, fig.58, p.153 Pubblico Dominio

Anche gli orologi ad acqua, l’altra alternativa popolare del periodo, che sfruttavano la regolarità del flusso dell’acqua attraverso un poro, hanno lo stesso problema: il flusso dell’acqua non è mica poi detto che sia così perfettamente regolare. E se hai orologi che scattano a intervalli irregolari, misurare il tempo è roba da pazzi. Galileo, che per i suoi esperimenti dovette accontentarsi degli orologi di questo tipo, sapeva che facevano acqua da tutte le parti (ehm). GG sapeva anche, ed era forse una delle prime persone nella storia dell’umanità a saperlo, che il moto oscillatorio regolare di un pendolo poteva essere la soluzione. Cosí, si impegnò a progettare uno dei primi orologi a pendolo del mondo. Sfortunatamente per lui il suo progetto non sarà realizzato se non parecchio dopo la sua morte, lasciando l’onore (e l’onere) di costruire la prima pendola funzionante a Huygens.
Christian Huygens sarebbe stato comunque uno dei più grandi fisici del suo tempo anche se, nel 1656, non avesse costruito uno strumento che quel tempo lo misurava. Il suo primo modello perdeva non più di un minuto al giorno; successive iterazioni portarono il ritardo al massimo a 10 secondi per die, una precisione senza precedenti. Parte del successo di Huygens dipese dal fatto che determinò matematicamente quanto dovesse essere lungo un pendolo perché una oscillazione completa durasse un secondo, nell’assoluta convinzione che questa lunghezza sarebbe stata una costante universale, e il pendolo avrebbe oscillato con il medesimo periodo ovunque.

C’era solo un piccolo problema: la sua costante non era veramente costante. Immenso miglioramento sui ticchettatori precedenti, di sicuro, ma non costante universale. Fu astronomo francese, Jean Richer, a far nascere i primi dubbi sull’universalità del pendolo.

Jean Richer fa le sue misurazioni in Guyana. Da un incisione di Sebastein Leclerc, pubblico dominio

Richer era a Cayenne con Cassini, il più famoso astronomo francese, per cercare di misurare precisamente il parallasse di marte. Il suo orologio a pendolo, fondamentale per la riuscita della misura, che funzionava perfettamente ed era sincrono a Parigi, aveva però perso più di due minuti rispetto alle pendole locali a Cayenne nel giro di sole 24 ore. “Ben strano“ pensò probabilmente Richer, che decise di pubblicare anche questo fattoide nel suo rapporto alla Franca Accademia delle Scienze, che prese la cosa terribilmente sul serio. Presto l’anomalia fu verificata da fonti indipendenti, e i due più importanti fisici del tempo, Huygens e Newton, si trovarono a competere per cercare di spiegare cosa non tornava.

Continua »

Come sappiamo perché il cielo è blu

Una delle domande tipiche dello stereotipico bambino curioso, quello che esiste più come artificio retorico che come reale individuo, è ” Perché il cielo è blu ? “.

La risposta del genitore tipico che torna a casa dopo una tipica giornata di lavoro è ” Non fare domande stupide “.

La risposta esatta è, notoriamente, ” É per via lo scattering di Rayleigh combinato alla risposta fototipica dell’occhio umano”.

Ma la stragrande maggioranza delle persone che sono esistite nel corso della storia umana non avevano neanche per sbaglio una risposta credibile alla tipica domanda dei bimbi curiosi. Può darsi che ” Perché il cielo è blu ? ” sia una di quelle domande ataviche che ossessionava i nostri antenati, ma una delle prime persone a lasciarci scritte le sue elucubrazioni sul perché del colore del cielo è il solito Aristotele, una persona che mai si sottrasse dall’opinare su tutto l’opinabile.

Aristotele era estremamente affascinato dal cielo e specialmente dalla meteorologia, perché secondo lui era la disciplina in cui la perfetta regolarità delle sfere celesti si scontrava con il caos e l’imprevidibilità del mondo terrestre. Resosi conto di quanto fosse un campo incasinato, Aristotele decise di scrivere un intero libro sulla questione, la Metereologica, fondando, tanto per cambiare, una intera disciplina.

Leggendo Aristotele, però, dobbiamo stare attenti ad una peculiarità linguistica che spesso finisce per essere “Lost In Translation”. Quasi da nessuna parte nella letteratura greca il cielo (o il mare) viene descritto utilizzando l’aggettivo blu: famosamente, nell’Odissea Omero dice che Ulisse affronta un mare nero come il vino. Quello che viene perso nella traduzione è il fatto che per i greci la luminosità di un colore era molto più importante della tonalità. Così, il termine kyanos (da cui il moderno ciano, il blu delle stampanti), viene utilizzato alternativamente per descrivere il colore del ferro, i capelli di Ettore, degli smeraldi, degli iridi e, tra le altre cose, il cielo.

Platone, il maestro di Aristotele, aveva un’idea molto semplice come teoria del colore. Gli occhi di ciascuno di noi sparano raggi visivi in ogni direzione, che poi andavano a toccare meccanicamente il bersaglio, e rimandavano indietro la percezione sulla base delle particelle di cui erano composte: più chiaro se erano piccole, più scure se erano grandi, e diversamente colorate a seconda che contenessero diverse quantità di aria/acqua/terra/fuoco, perché la chimica era più facile una volta.

Sono anche pedanti uguali, lui e Ciclope.

Sono anche pedanti uguali, lui e Ciclope.

Continua »

Piove, batteri ladri

In questo post farò un paio di affermazioni che vi sembreranno strane, contrarie a quello che credete di sapere.  Resistete all’idea di dire ” Ma questo è un coglione!” e proseguite a leggere, o cliccate sui copiosi riferimenti per controllare che quello che sto dicendo ha effettivamente senso.

In primo luogo, l’acqua non congela a 0 gradi Celsius. In effetti, l’acqua fatica a congelare anche a -10 °C, e ha anzi bisogno di una mano per diventare ghiaccio.

L’acqua normalmente congela a temperature inferiori agli 0 °C perché l’acqua, normalmente, è piena di impurità. Il ghiaccio, come tutti i cristalli, si forma molto più facilmente intorno a qualcosa che funga da nucleo, che faccia da stampo per la crescita dei cristalli intorno. Il nucleo funziona come uno schizzo di un disegno, limitando le infinite possibilità della carta bianca a quelle ammesse dalla sagoma dello schizzo, costringendo le altre forme a svilupparsi entro determinati limiti. Il nucleo nella formazione di un cristallo limita i possibili arrangiamenti delle molecole vicine, e forza il cristallo a coalescere e formarsi.

L’acqua veramente ma veramente pura, senza impurità che fungano da nucleo, non congela fino a -48 °C.

L’acqua normalmente è piena di particelle microscopiche di polvere e altra robaccia simile, il che permette la nucleazione; ma queste particelle non sono particolarmente brave a farla ghiacciare. La maggior parte delle polveri organiche non riesce a far congelare l’acqua senza che la temperatura scenda ad almeno -15°c.

Googlando ” Ice Nucleation” tra i primi risultati c’è questa immagine, che non mi è ben chiaro cosa c’entri, ma è bellina comunque. E siccome viene da un sito governativo USA, significa che è sicuramente di pubblico dominio e posso metterla senza problemi.

Sapete cosa funziona bene come nucleo ? I batteri.

Nel 1982, Deane Arny stava cercando di capire perché diavolo alcune piante congelavano più di altre. Essendo una patologa, si rese conto che se la pianta era infetta da Pseudomonas syringae, un batterio parassita, congelava molto più frequentemente e rapidamente. P. syringae produce una proteina particolare, InaZ, che, a causa della sua particolare struttura tridimensionale, permette all’acqua di congelare alla temperatura relativamente alta di -2 °C. E probabilmente non è un caso: facendo cristallizzare l’acqua nella pianta a temperature così basse, il batterio spacca le cellule e riesce ad estrarre più nutrimento, migliorando la sua capacità di parassitare.

Oggi conosciamo un sacco di proteine che fanno la stessa cosa in molte specie, da batteri microscopici a gasteropodi. In alcuni casi la proteina viene utilizzata come difesa, inducendo il congelamento preferenziale di zone dell’organismo che ne sono meno danneggiate. A volte è un effetto collaterale, una conseguenza della struttura tridimensionale della proteina necessaria per qualche altra funzione, che coincidentalmente funziona bene come nucleatore.

L’immagine è bruttina, ma si riesce a capire come questa Rana sylvatica, indigena del Nord America, durante l’inverno congeli quasi completamente. Oltre il 65% dei suoi tessuti diventa ghiacciato, ma utilizzando nucleatori in posizione strategiche, impedisce danno a tessuti importanti, e può scongelarsi senza problemi permanenti in primavera.

Ed ecco una seconda affermazione che può sembrare folle: sono i batteri a far piovere.

L’aria, nuvole incluse, è strapiena di batteri, funghi e altre schifezze che funzionano da nucleatori molto meglio di polvere e altre particelle simili. Alcuni di questi micro-organismi producono proteine simili a InaZ, che formano cristalli di ghiaccio nelle nuvole. Questi cristalli, se diventano abbastanza grossi e pesanti, finiscono  per precipitare sotto forma di neve o di pioggia, a seconda della temperatura (che li fa sciogliere durante la caduta o meno).

Sì, sì, sembra una follia, l’idea egocentrica di un microbiologo che vorrebbe che perfino il clima dipendesse dai capricci di microorganismi vari. Eppure, Pseudomonas syringae viene costantemente rilevato nell’acqua piovana dall’Antartide fino alle Alpi; nella grandine del Montana la concentrazione può arrivare al migliaio di batteri per millilitro, e i ceppi di batteri precipitati sono distinti da quelli locali, il che significa che generalmente arrivano da lontano.

” Beh ma trovare i batteri nel ghiaccio o nell’acqua non significa che siano responsabili del ghiacciamento o della pioggia” dice lo scettico di turno, rammentando bene che correlazione non implica causazione. Ed ha ragione, di fatto: diversi studi preliminari suggeriscono che l’effetto sul clima globale della nucleazione biologica è piuttosto ridotto, tanto da poter essere trascurabile. I batteri non possono controllare se piove o meno: possono decidere di gettarsi dalle nuvole in cui si trovano momentaneamente, cristallizzando i loro dintorni immediati con le loro proteine nucleanti, ma niente più.

Quindi, tecnicamente, non potete dare la colpa ai batteri se piove proprio quando avete organizzato un picnic con la vostra bella  (potete però sempre dare la colpa al governo, se vi va. Alla fine sono tutte forze abiotiche).

Ma potete dire, con ragionevole certezza, che esiste una specie di batteri , alias Pseudomonas syringae, che oltre a parassitare le piante, oltre a sfruttare il ghiaccio per fare parte del suo lavoro, ha imparato a parassitare il dannato ciclo dell’acqua per arrivare dove gli pare sulla terra.

E poi dicono che “parassita” dovrebbe essere un termine dispregiativo. Tzé.

Morris, C., Sands, D., Vinatzer, B., Glaux, C., Guilbaud, C., Buffière, A., Yan, S., Dominguez, H., & Thompson, B. (2008). The life history of the plant pathogen Pseudomonas syringae is linked to the water cycle The ISME Journal, 2 (3), 321-334 DOI: 10.1038/ismej.2007.113

Apocalisse in salsa gamma

E’ un normale giovedì mattina. Al Polo Sud, nelle profondità della Terra ma soprattutto del ghiaccio, all’Ice Cube Neutrino Observatory, alcuni ricercatori annoiati seguono la routine, controllando i dati della notte precedente in cerca di qualche segnale interessante. Ancora nel dormiveglia, uno di loro nota qualcosa di strano. “Oh, ma avete visto l’ultimo set di dati? Si dev’essere fuso qualcosa: è completamente fuori scala!”, urla agli altri, ancora distanti, mentre un sottile fumo si alza e condensa dal suo caffè bollente. Le letture sono fuori da ogni norma. I neutrini sono particelle al limite dell’etereo, difficilissime da rivelare, eppure una pioggia improvvisa di questi fantasmi ha colpito i rivelatori.
Perfino i neutrini solari, che provengono dall’oggetto più luminoso e vicino nel cielo, vengono a malapena registrati dagli avanzatissimi strumenti nelle
profondità polari. “S’è spaccato tutto, qua”, esclama un altro scienziato, frustrato. Due ore dopo, i controlli tecnici non avrebbero notato nulla diirregolare negli strumenti.
Ma nessuno sopravvivrà
 fino a due ore dopo.

Continua su Stukhtra

Anassagora, Darwin e i neutrini: come sappiamo da quando brilla il sole

Secondo round di spiegone su come sappiamo le risposte a certe domande considerate “banali”; dopo ” da dove vengono i bambini “; Questa volta, c’è per voi  una breve storia di come siamo arrivati a capire perché, come, e da quando il sole ci illumina e riscalda.

Cominciamo dall’inizio. Gli antichi egizi pensavano che il sole fosse una palla di fuoco.  Il sole per loro era anche l’incarnazione di una divinità, e per questo motivo non si ponevano il problema di cosa lo alimentasse: una palla di fuoco si adattava alla loro esperienza quotidiana, la divinità pensava alla parte celeste, e bon, eran tranquilli così.

Nel quinto secolo d.C. , Anassagora, il filosofo greco, fece un’interessante osservazione. Trovò una roccia, una stella cadente, che si era appena schiantata. Era un grumo di metallo, ancora così caldo e bollente che arrivò alla conclusione che poteva soltanto venire dal sole. Di conseguenza, elaborò un ipotesi sempre traendo spunto dalla sua esperienza quotidiana: il sole deve essere un ferro arroventato.

Il ferro incandescente emette un sacco di luce. L’idea di Anassagora non era così folle, dopotutto.

Quest’idea restò la più diffusa nel mondo occidentale per quasi duemila anni, nonostante Anassagora fosse stato accusato di empietà e, conseguentemente, osteggiato. Aveva proposto, insieme alla sopracitata ipotesi del ferro arroventato, che il sole non fosse diverso dalle altre stelle, ma soltanto più vicino, il che non si sposava bene con le idee religiose del tempo.

Nel sistema tolemaico, con la terra al centro, il sole non era trattato come le altre stelle, ma più come un pianeta. Infatti, come gli altri pianeti, sembrava muoversi rispetto allo sfondo di stelle fisse.  Non c’era particolare riferimento al suo carburante o alla sua sostanza, dal momento che continuava a esistere la mentalità secondo la quale le cose del cielo e della terra fossero ben distinte. Per via del fatto che l’Almagesto, l’opera principale di Tolomeo, resterà il testo astronomico standard per un millennio e mezzo, la questione di cosa alimentava il sole non sarà ulteriormente eviscerata per un bel po’ di tempo.

Poi, nel 1700, arrivò uno dei miei naturalisti preferiti di sempre: Georges Louis Latrec, Compte di Buffon, meglio noto con il semplice titolo Buffon. Buffon aveva una conoscenza enciclopedica dell’anatomia comparata, e sapeva che tanti dei fossili che cominciavano ad essere notati sempre più frequentemente non potevano essere di specie attuali: nonostante quello che sosteneva la chiesa, le specie si estinguevano,e i fossili non potevano essere soltanto il risultato del diluvio universale.  Nel 1717 Buffon pubblica  le “ Les Epoques De La Nature “: stabilisce che il mondo ha circa 75000 anni, e distingue 7 età della terra, ciascuna distinguibile per la sua particolare fauna.

Buffon viene attaccato da ogni parte da teologi e letterati, per cui il mondo non ha più di 6000 anni: solo la sua amicizia con il Re lo protegge da gravi ripercussioni.  Sfortunatamente per i suoi avversari, Buffon era uno scrittore brillante e avvincente, accessibile a chiunque, e la divulgazione della scienza era il suo pallino: il suo libro successivo, l’Historie Naturelle, diventa rapidamente il libro più letto in Francia, un mega-best seller. Ah, l’Illuminismo. Bei tempi.

Improvvisamente Buffon, rifacendosi alla geologia, aveva decuplicato l’età della terra. Ma decuplicare l’età della terra, significava decuplicare l’età del sole:  e per mantenere un ferro rovente rovente, una fornace deve continuamente essere alimentata col carburante.  Che cosa poteva farlo funzionare così a lungo ? La domanda si faceva sempre più pressante.

Mezzo secolo dopo, con Lyell e Darwin, improvvisamente non si parla più di centinaia di migliaia di anni, ma di milioni: eppure niente nelle leggi della fisica conosciute al tempo poteva spiegare come il sole avesse bruciato così a lungo.

Nel 1850, John James Waterston, un giovane fisico scozzese che faceva rilievi geologici per le ferrovie, realizza, mentre sta sviluppando una teoria cinetica dei gas, che, in base alle equazioni sulle radiazioni termiche di Macedonio Melloni, nessun carburante chimico poteva alimentare il sole da più di diecimila anni.

Macedonio Melloni: fisico, rivoluzionario, patriota, persona con delle iniziali elegantissime.

Macedonio Melloni (nome EPICO) era un fisico italiano, che, quando non veniva cacciato in esilio perché membro di movimenti rivoluzionari e indipendentisti, lavorava sulle sorprendenti somiglianze tra la propagazione della luce e la propagazione del calore radiante.  Questo si propaga come la luce, con tanto di rifrazione e riflessione,  perché è luce infrarossa; MM, pur senza aver nessun background teorico che gli permettesse di arrivare alla conclusione moderna (la natura della luce era ancora largamente dibattuta) aveva sviluppato delle equazioni, che empiricamente, funzionavano piuttosto bene.

Waterston, però, confidava nelle prove dei naturalisti e della geologia: ci deve essere un’altra sorgente di energia per il sole. E l’unico candidato possibile ai tempi doveva essere la forza di gravità: forse, grazie alla sua grande massa, il sole poteva attirare e assorbire rocce come carburante.  L’idea sembrava brillante, ma una volta sottoposta al vaglio di calcoli più precisi basati su osservazioni astronomiche, si rese conto che non c’erano abbastanza meteore note nel sistema solare perché la differenza fosse rilevante. Se anche il sole avesse assorbito Mercurio e Venere, ciascuno dei pianeti avrebbe prolungato la sua vita di poco più di un secolo.

Ma, come ho accennato, Waterstone stava sviluppando una teoria cinetica dei gas.  Così tirò fuori un’altra idea brillante: sapeva per certo che un gas, compresso, aumenta di temperatura. Quindi, immaginò che il sole stesse collassando su se stesso, producendo calore di conseguenza. Convinto che la sua ipotesi potesse salvare la geologia, presentò la sua idea al convegno annuale della British Association for The Advancement Of Science nel 1853. Sfortunatamente per lui, non molti lo presero sul serio, e la sua teoria cinetica dei gas passò inosservata per almeno altri vent’anni. Ma nel pubblico c’era un certo William Thomson, meglio noto come Lord Kelvin, e Waterstone riuscì a far breccia nella sua mente.

William Thomson, altrimenti noto come Lord Kelvin, uno dei più grandi fisici della storia. Questo non gli impedirà di essere in torto marcio nella sua opposizione a Darwin.

Kelvin elaborò una teoria di come il sole potesse collassare su se stesso producendo il massimo calore possibile per il periodo più lungo possibile. Inizialmente, tirò fuori una stima di 100 milioni di anni,  che poi andò riducendo progressivamente col passare degli anni, un po’ per convinzione, un po’ per girare il coltello nella piaga dei naturalisti.

Darwin restò terrorizzato dalla stima di Thompson. Tolse ogni riferimento a possibili scale temporali nelle edizioni “ On The Origin Of The Species “, successive alla prima analisi di Thompson; e restò così inquietato da scrivere a Wallace, l’altro scopritore della selezione naturale, che la questione dell’età della terra era “ uno dei miei guai più gravi “.

Anni dopo, Lord Kelvin ridusse nuovamente l’età del sole: l’astro non poteva avere più di 25 milioni di anni, il che rendeva il conflitto tra l’evoluzione e la geologia da un lato, e la fisica dall’altro, ancora più marcato. Qualcuno doveva sbagliarsi, o quantomeno doveva aver  tralasciato qualcosa.

Una delle (tante) profezie sbagliate di Kelvin era che i raggi X si sarebbero rivelati una truffa, una frode. Cambiò idea successivamente, quando Roentgen, lo scopritore, gli fece una radiografia alla mano, ma in ogni caso non si rese conto che nelle radiazioni c’era la soluzione del paradosso dell’età del sole.

Lo capì Rutherford, l’uomo che per primo riuscì a identificare la struttura dell’atomo. Rutherford aveva identificato diversi tipi di radiazione atomica. La radiazione alfa era fatta di particelle, che si scoprì in seguito essere i nuclei di atomi di elio. L’osservazione fu fondamentale, perché spiegava come nei minerali che contenevano uranio spesso si trovavano tracce di questo gas nobile: era l’uranio stesso che li generava. E più venivano generate particelle alfa, più energia (e calore) venivano emesse. Con la scoperta del radio, che emette a tal punto da essere caldo al tatto, sembrava ormai ovvio che i calcoli di Lord Kelvin avevano ignorato qualcosa di importante.

Una volta realizzato che gli elementi radioattivi possono emettere energia continuamente, senza bisogno di ricevere carburante dall’esterno, gli astronomi si misero immediatamente cercare di capire se era possibile che il sole fosse radioattivo. William Wilson, nel 1903, calcolò che bastassero pochi grammi di radio per metro cubo di sole perché questi irradiasse tanta energia quanto ne arrivava sulla  terra.

Purtroppo, parafrasando T.H. Huxley , questa bellissima ipotesi verrà  annientata da un brutto dato di fatto.  Le prime spettroscopie del sole mostravano che non c’era traccia di radio nella sua composizione, ma la sua composizione era quasi esclusivamente costituita da elio, che, non a caso, prendeva il nome di Helios, il dio del sole.

Ernest Rutherford. ” Tutta la scienza è fisica o collezione di francobolli “, amava dire; e conseguentemente vinse il Nobel per la chimica nel 1908.

Niente radio, ma molto elio. Rutherford e gli altri sapevano che il decadimento radioattivo di certi elementi produceva particelle alfa, cioè nuclei di elio, ma di essi non vi era traccia nello spettro solare. Se l’elio era la “cenere” di una “combustione”, o il carburante era completamente nuovo, o il tipo di combustione era completamente nuovo.

Sir Arthur Eddington, professore di astronomia a Cambridge, fu uno dei primi a comprendere la teoria della relatività di Einstein, e la sua famosa “E=mc^2”, tanto da organizzare una spedizione sull’isola di Principe, in Africa, per osservare l’eclissi solare del 29 maggio 1919, dando una prima conferma empirica diretta della validità delle equazioni einsteiniane.

Nel 1920, Eddington riceve notizie dal suo collega Francis Aston, che lavorava nel Cavendish Laboratory, sempre a  Cambridge. Quest’ultimo aveva appena scoperto che l’atomo di elio pesa 1/120 meno di quanto dovrebbe pesare se fosse la semplice somma di quattro atomi di idrogeno.

Eddington ebbe immediatamente un’illuminazione su come funzionava la luce solare. Tutto quell’elio era la cenere di una nuova forma di combustione dell’idrogeno, il più semplice degli elementi! Ogni volta che quattro protoni si fondevano nel nucleo del sole, quel centoventesimo di massa extra diventava luce e calore solare, e dal momento che E=mc^2, e c^2 è un numero mooooooolto grande, il sole poteva avere centinaia di milioni, o addirittura miliardi di anni.

Eddington aveva avuto l’intuizione giusta, ma i dettagli non erano ancora ben chiari, e sebbene in apparenza il conflitto Darwin-Kelvin fosse rimosso, ancora non c’era una chiara idea dell’età del sole, e di come il combustibile venisse bruciato.

La soluzione, almeno teorica, arriverà solo vent’anni dopo, con Hans Bethe. A temperature di milioni di gradi, come nel centro del sole, gli atomi di idrogeno vengono sbriciolati nelle loro componenti più basilari: elettroni e protoni. Quando questi protoni si schiantano tra di loro, è possibile che avvenga una fusione nucleare. Ma due protoni che si scontrano non formano un atomo di elio: serve una reazione a catena, la così detta “catena pp” (dove pp sta per protone-protone).

Un diagramma della catena pp. La descrizione è nel testo; qui ci sono indicati anche i tempi medi di reazione. Beta+ sono i positroni espulsi, gamma i fotoni e nu (quella roba che sembra una v) i neutrini. Credits: http://csep10.phys.utk.edu/

Inizialmente, due protoni collidono e fondono insieme, creando un deuterone: un insieme instabile di un protone e un neutrone. La carica del protone che è diventato un neutrone viene conservata espellendo un positrone (che è l’antiparticella dell’elettrone, e, come tale, ha la stessa carica, ma positiva invece che negativa) e un neutrino. Il deuterone si trova affogato in una folla di protoni, e ne assorbe immediatamente uno, formando un nucleo di elio-3 (2 protoni e un neutrone). Infine, finalmente, due nuclei di elio 3 si fondono tra di loro, formando la forma stabile di elio, l’elio 4, con due protoni e due neutroni, e espellendo 2 protoni extra. Il risultato finale è che i quattro protoni iniziali sono arrivati ad essere un singolo atomo di elio quattro, emettendo energia sottoforma di positroni, fotoni e neutrini.

Con un colpo di genio, Bethe aveva finalmente trovato un processo nucleare teoricamente comprensibile al suo tempo, che potesse produrre la giusta quantità di calore, che potesse alimentare il sole per la giusta quantità di tempo, e che facesse tornare i conti sia ai fisici che ai geologi.

Tutto molto bello, ma anche niente di empirico: dov’era la prova che la catena pp era quello che realmente avveniva nel sole, e non semplicemente un’altra bella ipotesi in attesa di un brutale dato di fatto che l’annientasse ? C’era solo un modo per dimostrare empiricamente che questo era il processo giusto: trovare i neutrini che venivano emessi durante la catena di fusione.

Peccato che, nel 1939, il neutrino fosse una particella del tutto teorica, inventata da Pauli e Fermi circa 10 anni prima semplicemente per far quadrare i conti, e che, per via delle sue proprietà sfuggenti, era quasi impossibile da rilevare.

Quasi impossibile, nel dizionario dei fisici, significa molto interessante. Così, ebbe inizio una caccia alla particella inafferrabile, in un epopea che ricorda, almeno per certi versi, la moderna caccia ad un’altra particella teorizzata per decenni prima di essere (forse) rilevata sperimentalmente, il  dannato bosone di Higgs. La storia della caccia ai neutrini è avvincente e interessante di per sé, e la conservo per un futuro post; vi basti sapere che per quarant’anni le rilevazioni sono sempre state sempre più o meno inconcludenti, finché non è entrata in gioco la Big Science.

Alla fine degli anni ‘80, in Europa, con l’esperimento internazionale GALLEX (Gallium Experiment), un rilevatore contenente metà produzione annuale mondiale di Gallio, viene installato nelle profondità del Gran Sasso.  L’altra metà finisce in un altro rilevatore nelle profondità del caucaso, sponsorizzato da USA e Unione Sovietica, il SAGE (Soviet-American Gallium Experiment).

Nel 1997 vengono pubblicati i risultati degli esperimenti, che per la prima volta riescono a rilevare neutrini solari a bassa energia (nel mentre, dei neutrini erano già stati osservati negli anni 60, ma prodotti da reattori nucleari, non dal sole). Le rilevazioni dei due esperimenti si sposano perfettamente con i modelli previsti dalla catena pp. Per la prima volta nella storia dell’uomo,  avevamo una linea diretta con il nucleo del sole.

Voglio ripetervelo, perché non so se vi è chiaro: guardando degli scintillii su dei rilevatori nelle profondità della terra, possiamo vedere quello che succede nel nucleo del sole, e sapere con certezza perché e come che Darwin aveva ragione e Kelvin torto.

Queste sono le storie di fisica che preferisco: quelle che danno ragione ai biologi.

Taylor, K. (2001). Buffon, Desmarest and the ordering of geological events in epoques Geological Society, London, Special Publications, 190 (1), 39-49 DOI: 10.1144/GSL.SP.2001.190.01.04

Brush, S. (1957). The development of the kinetic theory of gases Annals of Science, 13 (4), 273-282 DOI: 10.1080/00033795700200151

Bethe, H. (1939). Energy Production in Stars Physical Review, 55 (1), 103-103 DOI: 10.1103/PhysRev.55.103