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Apocalisse Azteca, fuori tempo massimo

Una persona sana di mente, o quantomeno non totalmente e indicibilmente pigra, probabilmente avrebbe scritto di escatologia azteca e miti sull’apocalisse tipo, non so, quattro anni fa, nel mezzo dell’isteria collettiva per il 2012, quando la gente (e per gente intendo Giacobbo) era piena d’interesse. Ma io sono irragionevolmente pigro e non del tutto sano di mente, ergo metà Aprile 2016 è un momento buono come un altro per raccontare (più o meno) uno dei miti fondamentali del mondo mesoamericano: la leggenda dei cinque soli (o della quinta apocalisse, se vi è utile da usare come titolo per acchiappar più click).

Gli aztechi credevano in un dio creatore primigenio, Ometeotl, che, per ragioni non del tutto chiare, creò quattro divinità, una per ciascuna delle quattro direzioni cardinali, e gli delegò il compito di creare il mondo.

Le quattro divinità, bontà loro, si misero d’impegno per ordinare il mondo dal caos primigenio. Ma siccome il Sole non esisteva ancora, la maggior parte delle loro creazioni cadeva nel Grande Vuoto, dove veniva divorato da Cipactli, il Grande-Demone-Marino-Rospo-Coccodrillo-Con-Bocche-Su-Ogni-Articolazione-E-Denti-Su-Tutto-Il-Corpo.

Cipactli, il Grande-Demone-Marino-Rospo-Coccodrillo-Con-Bocche-Su-Ogni-Articolazione-E-Denti-Su-Tutto-Il-Corpo

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Sferoidi oblati, triangoli e orologi: la misura della terra né piatta né tonda

Recentemente su Italia Unita Per La Scienza è uscito un post in due parti (Prima e Seconda) sul mito della terra piatta nelle ere. Per una fortuita coincidenza, ho iniziato da poco a leggere il Ciclo Barocco di Neal Stephenson, una mostruosità da 3000 e rotte pagine di romanzo storico sulle origini della scienza illuminista scritto da un famoso autore di fantascienza; una lettura leggera sotto l’ombrellone.

Che c’entra? C’entra perché (Spoilers?) uno dei personaggi del romanzo, pre-Newton, utilizza un pendolo per dimostrare che la forza di gravità diminuisce allontanandosi dal centro della terra. Il collegamento resta oscuro (mancano un po’ di passaggi) ma ho fatto l’associazione di idee con il post di IxS visto che è per merito di un pendolo che si è passati dal considerare la terra una sfera al più accurato sferoide oblato. Ergo, prima che mi dimentichi del tutto come si fa a scrivere visto che son passati mesi dall’ultimo post, uno spiegone su come sappiamo che la terra non solo non è piatta, ma non è neanche una sfera.

Partiamo dall’ultima parte del trittico del titolo: gli orologi. Intorno al quattordicesimo secolo, in Italia, nei campanili, cominciano ad apparire orologi con scappamento a verga. Lo scappamento è, per farla semplice, il meccanismo che determina ogni quanto l’orologio ticchetta; lo scappamento a verga ha una corona coi denti a seghetto e una verga che, con due palette, blocca la rotazione della corona in passi fissi della durata di un tic.  Il problema intrinseco di questo tipo di meccanismo è che la regolarità del ritmo dipende moltissimo dall’attrito del sistema: se i denti della corona si consumano, o una paletta impiega anche una frazione di secondo in più del dovuto a spostarsi, o la verga non è ben lubrificata, ecco che subito cominciano i casini e l’orologio perde rapidamente di precisione.

Lo schema di uno scappamento a verga, da Henry Evers (1874), A Handbook of Applied Mechanics, William Collins & Sons, London, fig.58, p.153 Pubblico Dominio

Anche gli orologi ad acqua, l’altra alternativa popolare del periodo, che sfruttavano la regolarità del flusso dell’acqua attraverso un poro, hanno lo stesso problema: il flusso dell’acqua non è mica poi detto che sia così perfettamente regolare. E se hai orologi che scattano a intervalli irregolari, misurare il tempo è roba da pazzi. Galileo, che per i suoi esperimenti dovette accontentarsi degli orologi di questo tipo, sapeva che facevano acqua da tutte le parti (ehm). GG sapeva anche, ed era forse una delle prime persone nella storia dell’umanità a saperlo, che il moto oscillatorio regolare di un pendolo poteva essere la soluzione. Cosí, si impegnò a progettare uno dei primi orologi a pendolo del mondo. Sfortunatamente per lui il suo progetto non sarà realizzato se non parecchio dopo la sua morte, lasciando l’onore (e l’onere) di costruire la prima pendola funzionante a Huygens.
Christian Huygens sarebbe stato comunque uno dei più grandi fisici del suo tempo anche se, nel 1656, non avesse costruito uno strumento che quel tempo lo misurava. Il suo primo modello perdeva non più di un minuto al giorno; successive iterazioni portarono il ritardo al massimo a 10 secondi per die, una precisione senza precedenti. Parte del successo di Huygens dipese dal fatto che determinò matematicamente quanto dovesse essere lungo un pendolo perché una oscillazione completa durasse un secondo, nell’assoluta convinzione che questa lunghezza sarebbe stata una costante universale, e il pendolo avrebbe oscillato con il medesimo periodo ovunque.

C’era solo un piccolo problema: la sua costante non era veramente costante. Immenso miglioramento sui ticchettatori precedenti, di sicuro, ma non costante universale. Fu astronomo francese, Jean Richer, a far nascere i primi dubbi sull’universalità del pendolo.

Jean Richer fa le sue misurazioni in Guyana. Da un incisione di Sebastein Leclerc, pubblico dominio

Richer era a Cayenne con Cassini, il più famoso astronomo francese, per cercare di misurare precisamente il parallasse di marte. Il suo orologio a pendolo, fondamentale per la riuscita della misura, che funzionava perfettamente ed era sincrono a Parigi, aveva però perso più di due minuti rispetto alle pendole locali a Cayenne nel giro di sole 24 ore. “Ben strano“ pensò probabilmente Richer, che decise di pubblicare anche questo fattoide nel suo rapporto alla Franca Accademia delle Scienze, che prese la cosa terribilmente sul serio. Presto l’anomalia fu verificata da fonti indipendenti, e i due più importanti fisici del tempo, Huygens e Newton, si trovarono a competere per cercare di spiegare cosa non tornava.

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Fleming, Semmelweis e la mitologia scientifica

Io non sono uno storico, tantomeno uno storico della scienza; sono un appassionato che si diverte a parlare e scrivere ogni tanto di storia e storie di Scienza senza alcuna educazione formale in discipline storiografiche o roba del genere (Del resto il sottotitolo del blog è “scienza con saccenza” non “scienza con cognizione di causa”).

E come tutti, anche i non scienziati, anche i non storici, sono stato esposto a tutta una serie di aneddoti e esempi vari dalla storia della scienza, siano Mendel, Darwin, Galileo o chi per loro. La cosa con cui ho qualche problema, però, è che più vado a scavare negli esempi più famosi, più trovo seri problemi con quello che nei libri di scienze passa come storia della scienza, al punto che sono arrivato a credere che la vulgata sia attivamente dannosa, promuovendo stereotipi falsi e distorcendo la percezione di come funziona normalmente il metodo e progresso scientifico.

Incanalando lo spirito di Leo di Tempi profondi proverò ad essere un po’ più serio e rigoroso del solito, e cercare di esporre con due esempi lampanti come quello che spesso passa per storia della scienza in realtà è una sorta di mitologia, nel senso più antropologico del termine.

Prima di cominciare, lasciatemi essere pignolo e verboso e chiarificare cosa specificamente intendo per mitologia e mito. Nel parlato comune, quando uno parla di miti, tipo quando un venditore di fumo parla de “il mito del metodo scientifico”, il termine viene utilizzato come sinonimo di “falsa credenza”, spesso intesa come “falsa credenza creduta perché promulgata da una figura autorevole” (nel caso dell’esempio specifico, l’autorità del mondo scientifico). Usare mito in questo senso è chiaramente un becero espediente retorico che il venditore di fumo usa per mettersi nella posizione di figura autorevole alternativa che salva il povero innocente dalle fallacie del pensiero popolare. Non uso mito in questo senso, ovviamente.

Altri critici più seri usano il termine di mito, anche quando riferito ad un idea scientifica, come “mito fondazionale” o “metafora religiosa fondamentale” (Midgeley 1992). Parlano di mitologia come “metastruttura cognitiva”, “prospettiva culturale” o, per farla più semplice, “visione complessiva del mondo”, che tinge tutte le percezioni e le idee, tipicamente per poi poter usare l’accusa di scientismo come martello per picchiare idee che non gli piacciono. Non uso mito neanche in questo senso.

In greco, il termine Mythos  significa racconto, o storia. Spesso questi miti, come parabole, hanno funzione esplicativa, o funzionano come giustificazione (Bauer, 1992) e utilizzano espedienti retorici e narrativi specifici per essere persuasivi; spesse volte incarnano archetipi, una sorta di progetti e linee guida che vengono presentate come esemplari e degne di essere seguite. Il mio punto, e il problema che ho con la vulgata, è come la realtà storica venga distorta in mito (in quest’ultimo senso) con questa intenzione pseudo-didascalica (conscia o inconscia) e per volontà di scrivere una bella storia, un racconto interessante, popolare, che emozioni.
E non sto parlando di essere saccenti e “diti-in-culo” per il gusto di esserlo, anzi; riuscire a creare una narrativa interessante intorno ad un fatto scientifico o storico è un mezzo praticamente indispensabile per fare divulgazione, è bello e utile e di norma una cosa buona: il problema è quando, per amore di una buona storia, si spargono idee false ed erronee sulla natura stessa del processo scientifico, facendo più danno che altro.

Non ho problemi con Archimede nella vasca che urla “Eureka!”, o la mela che cade in testa a Newton, o Kekulé che sogna un serpente che si morde la coda e si sveglia per risolvere la struttura del benzene; per quanto siano tutti aneddoti “agiografici”, cioè servono a far sembrare dei geni fighi da ammirare i protagonisti, l’unica concezione erronea che trasmettono è che per avere successo nella scienza bisogna essere geni.

Ma ci sono miti scientifici che trovo controproducenti, e mi accingo a presentare due esempi tra loro complementari, che coprono più o meno tutto lo spettro retorico che trovo sbagliato. Nell’ordine, Fleming e la scoperta della penicillina, e Ignac Semmelweis e la febbre puerperale.

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Storie di Chimica da un Futuro Passato

Ho un problema.

Quando gifh mi ha invitato a partecipare al Carnevale della Chimica mi sono sentito, ovviamente, onorato.

Ma il tema, “ La Chimica del Futuro “, mi mette un po’ nei guai.

In primis perché, di fatto, di chimica non è che ne capisca poi così tanto. Ma soprattutto perché del futuro, io, non ne so assolutamente nulla. Già faccio fatica a capire il passato, con tutti i suoi fatti ordinati uno dietro l’altro, figuriamoci cosa può essere il futuro che neppure è ancora accaduto, nel suo vortice di infinite possibilità.

Isaac Asimov, per quanto sia stato incredibilmente avanti sui tempi ed abbia profetizzato svariate tecnologie e cambiamenti sociali che sono poi diventati realtà, lamentava che :

Predicting the future is a hopeless, thankless task, with ridicule to begin with and, all too often, scorn to end with.”

E se c’è un genere di lavoro che non mi piace è quello ingrato e senza speranza. C’è un solo modo per salvarmi da questa Kobayashi Maru: barare.

C’è un tipo di futuro che è già accaduto, e che mi permette di navigare in acque per me più tranquille: il futuro previsto, immaginato, disegnato e desiderato da generazioni precedenti alle nostre che, un po’ come facciamo noi,  caricavano il l’avvenire con i loro desideri e le loro paure.

E la chimica, di speranze ma anche di paure, ne ha sempre generate tante.

Niente dice futurologia come nuovi detergenti chimici, tute spaziali e la più totale incapacità di predire cambiamenti sociali. Pic Credits: TvTropes

Niente dice futurologia come nuovi detergenti chimici, tute spaziali e la più totale incapacità di predire cambiamenti sociali. Pic Credits: TvTropes

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Da dove viene l’HIV?

Oggi è il primo dicembre.  Il primo dicembre è la giornata mondiale contro l’AIDS.

E, sarà che io son fissato con la storia, ma trovo sempre bene vedere un problema, anche quando è un’epidemia virale nella sua prospettiva storica.

Quindi, esattamente, da dove viene l’HIV ?

Non è una cospirazione gigante dei padroni rettiliani/massoni/illuminati.
Non è neanche il  prodotto di un lavoro di bioingegneria bianca rovesciato contro i neri per mantenerli sotto controllo post-colonial/imperialista.

Fa specie dover fare queste precisazioni, ma c’è gente che ci crede.

Ci crede non solo perché la gente crede più o meno a qualsiasi cosa, non solo perché giornalai e pennivendoli hanno scritto qualsiasi cosa sull’HIV/AIDS, ma anche perché rispondere alla sopracitata domanda non è stato esattamente facile.

Ma adesso, dopo più 25 anni di ricerca, possiamo dire con certezza un po’ di cose sull’origine e la storia della peste del 20esimo secolo.

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Vescovi, Vampiri e Virus

Qualche giorno fa, avendo un po’ di tempo da perdere, ho preso tra le mani un bel manuale di metodi matematici  per la modellazione in biologia, e oltre a illustrazioni assolutamente imperdibili, come questa:

Ingegneria Biomedica Medievale

Un (per fortuna) ipotetico metodo rapido per estrarre una freccia da una ferita, ideato da un ingegnere biomedico ante-litteram.

L’autore ha trovato un modo di inserire nelle sue prefazioni alle varie trattazioni matematiche tutta una serie di aneddoti piuttosto interessanti. Uno in particolare riguardava un vescovo, che è anche un santo: Sant’Uberto, vescovo di Liegi.

Uberto era un simpatico vescovo dell’ottavo secolo. Andava in giro ad evangelizzare i pagani nelle Ardenne, finché ad un certo punto decise di fondare la diocesi di Liegi, diventare primo vescovo del posto, e morire lì, nella tranquillità del suo letto. E’ considerato un santo perché la leggenda vuole che Uberto, prima di vedere la luce, fosse un nobile che, come tutti i nobili di buona famiglia dell’ottavo secolo, amasse andare a caccia: e in una di queste battute ebbe la visione di un crocifisso tra le corna di un cervo, che gli intimava di abbandonare la sua vita dissoluta e convertirsi. In realtà la storia della conversione è un plagio assoluto, preso di peso dalla vita di Sant’Eustachio, ma tant’è: Uberto ha fondato una diocesi, bisognava trovare una scusa per santificarlo.

Della sua esimia vita non ci interessa molto in ogni caso: la parte interessante arriva quando Uberto viene riesumato.

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L’uomo che inventò la probabilità

Se foste stati per le strade di Roma, intorno al 1576, avreste forse potuto incontrare un uomo, vestito di cenci, camminare su e giù con passo irregolare per le strade della città, biasciando parole incomprensibili rivolte a nessuno in particolare. Chiedendo ad un indigeno, vi avrebbe detto che questi, un tempo, era stato un famoso medico e astrologo, fisiatra di grandi casate nobili, professore di medicina all’Università di Pavia.  Vi avrebbe anche detto che la sua famiglia era stata colpita da una serie di sciagure, e lui era caduto in disgrazia.

Forse avrebbe saputo anche dirvi il nome: Gerolamo Cardano.

Cardano era un uomo del ‘500, come tutti i suoi contemporanei. Credeva nel destino, nell’astrologia, nella divinazione; ma era anche un giocatore d’azzardo.  Cardano era nato per essere un giocatore d’azzardo.  La sua comprensione del gioco trascendeva la matematica del suo tempo. A dirla tutta, l’algebra era ancora nell’età della pietra all’inizio del sedicesimo secolo: non esisteva neppure l’uguale come segno matematico, e per la maggior parte delle applicazioni si usavano ancora i numeri romani. Gerolamo era un grande scommettitore perché lui sentiva il gioco, ancor prima di capirlo.

Nessuna persona con la testa sulle spalle avrebbe mai puntato un soldo su Gerolamo, da bambino. Era nato nel 1501,  quarto maschio, dalla madre Chiara, che evidentemente non aveva nessuna intenzione di metterlo al mondo, visto che appena scoperto di essere incinta tentò di abortire bevendo un intruglio a base di assenzio e orzo. Ripetutamente.

Intruglio che non face neanche il solletico al piccolo Gerolamo, ma lasciò la madre piena di problemi di stomaco e di odio per il figlio.

Gerolamo, inoltre, era un bastardo.

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