Archivio Categoria: Biologia

Felci, cromosomi e fossili viventi

Le felci dominavano la terra durante il tardo devoniano, circa 350 milioni di anni fa. Erano antenate lontane di quelle che ancora si trovano più o meno in ogni angolo della terra: la maggior parte delle famiglie odierne di felci compare solo 150 milioni di anni fa, nel Cretaceo, quando i dinosaursi se la spassavano. Per cui le felci sono antiche, antichissime, ma quasi nessuno tira fuori il classico luogo comune “fossili viventi”.

Ora, un lettore, (Andrea, che ringrazio), vedendo le mie condivisioni di fossili improbabili ma presumibilmente non sapendo quanto mi sta sul cazzo il termine “fossili viventi”, mi ha linkato un articolo del 2014 con un ritrovamento semplicemente allucinante.

Un team di scienziati ha ritrovato, nell’odierna svezia, dei fossili di felci risalenti circa a 180 milioni di ani fa. In uno di quelle combinazioni che escono dai sogni bagnati dei paleontologi, questa felce è rimasta intrappolata in un deposito di brine idrotermali (praticamente acqua salata piena di minerali) e poi completamente ricoperta da cenere vulcanica. Visto la peculiare forma di fossilizzazione, per ragioni sassologiche che sfuggono alla mia comprensione nel fossile sono rimaste una montagna di dettagli. Quanti dettagli? Beh lo potete vedere in foto: non solo si vedono le cellule, non solo si vedono i nuclei nelle cellule, ma si vedono i cromosomi nei nuclei di cellule in vari stadi durante la mitosi. Una di quelle botte di culo che è difficile spiegare in parole, perché hai ancora la mascella slogata da quanto ti si è aperta la bocca la prima volta che vedi un fossile del genere.

Uno dei "fossili viventi" sulla destra, e l'immagine 1 dal paper con la microscopia del fossile

Il fossile sulla sinistra, l’immagine D in particolare è roba che mi manda fuori di testa, e uno dei “fossili viventi” sulla destra

Ecco, usando tecniche di microscopia avanzata, i ricercatori hanno potuto confrontare la felce fossile con le specie moderne che gli somigliano di più, e hanno scoperto che ha lo stesso numero di cromosomi e la stessa dimensione nucleare di una felce moderna abbastanza comune, Osmundastrum cinnamomeum, a destra nella fotina. Ergo, sbam, sta felce è rimasta uguale a quando c’erano i dinosauri 180 milioni di anni fa, è un “fossile vivente”. Ma anche no.

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Quante calorie assumo se mangio un essere umano?

Mangiare un essere umano maschio adulto, viscere escluse (solo muscolo), fornisce grossomodo 32376 calorie.
Se siete comunisti invece, la carne di un bambino di 5 anni vale circa 3233 calorie, che è molto più conveniente di quella di un infante, che è invece solo 662 calorie. Utili se volete fare una dieta ipocalorica.

Vabbé, insomma: sappiamo piuttosto bene da reperti archeologici sparsi in girò più o meno in tutto il mondo che la paleo dieta dei nostri antenati conteneva, ehm, altri nostri antenati. Fino anche a tempi più recenti di 10 mila anni fa, quando eravamo più organizzati e li si cucinava prima di mangiarli.

Perché però ci si dava al cannibalismo è una questione parecchio controversa. Era roba rituale? Era perché la carne umana è proprio buona? Si ammazzava il vicino in tempi di carestia e di disperazione?

Bene, continuamo a non saperlo (almeno non con certezza), ma uno studio divertente è uscito su Scientific Reports che ha stimato i contributi nutrizionali degli esseri umani per vedere se ai nostri amici cannibali conveniva.

Un femore umano con segni di denti umani ritrovato in Spagna, risalente a circa 10mila anni fa. GNAM!

Eh, insomma: gli esseri umani sono animali come gli altri anche a livello di contenuto calorico se paragonati a mammiferi più o meno delle nostre stesse dimensioni. E sì, una tribu di venticinque persone poteva forse sfamarsi per un giorno intero con un singolo umano ben pasciuto, ma sappiamo che i nostri antenati in quel periodo cacciavano robe ben più grosse, grasse e facili da ammazzare, come mammuttoni o bradipi terricoli giganti, con cui ci si sfamava per giorni o settimane.

Per cui l’idea di un cannibalismo nutrizionale, escluse forse forse le situazioni di carestia più estreme, è forse da scartare. Certo, lo studio ha le sue incertezze: le stime si basano solo sulle composizioni chimiche di sapiens maschi di varia età. Magari una Neanderthal femmina giovane sarebbe un pasto ideale e non lo sappiamo.

E poi, oh, de gustibus non disputandum.

Paper di riferimento (OA):
Assessing the calorific significance of episodes of human cannibalism in the Palaeolithic, James Cole
http://www.nature.com/articles/srep44707

Fotina da: “Funerary practices or food delicatessen? Human remains with anthropic marks from the Western Mediterranean Mesolithic”

http://www.sciencedirect.com/…/article/pii/S0278416516301702

Ho sentito che ti piacciono i parassiti fossili, quindi ho messo un parassita fossile dentro il tuo parassita fossile

La fossilizzazione in ambra è una cosa piuttosto rara. Perché la resina passi dal dominio dei piantologi a quello dei sassologi servono condizioni tali per cui sotto pressione e temperatura invece che degradarsi la resina si indurisca in copale e poi ambra.

Di tutti i pezzi d’ambra fossile, solo una piccola frazione ha dentro insetti. Un insetto deve rimanere intrappolato nell’ambra, e deve succedere tutto quello di cui sopra. Per cui solo una piccola frazione degli insetti in-resinati restano fossili, anche se la maggior parte degli insetti fossili degli ultimi 100 milioni di anni li abbiamo beccati tramite resina, visto che in generale le cose a 8 zampe si fossilizzano piuttosto male. (Protip: la zecca non è un insetto, è un aracnide)

Perché una specie ematofaga si fossilizzi in un pezzo d’ambra con nella sua panciozza il sangue di una vittima ci vuole una serie di coincidenze notevoli, ma non è totalmente impossibile. Solo impossibile abbastanza perché fare un Jurassic Park venga veramente veramente scomodo.

amblyomma picture

Ma il fossile in foto va oltre questo limite di improbabilità e ce ne aggiunge un altro: è una zecca del genere Amblyomma, fossilizzata in ambra di 15-20 milioni di anni quasi certamente dopo essere stata spulciata durante un pasto di sangue da una scimmia (le freccette puntano ai segni delle dita dello spulciamento), che ha al suo interno globuli rossi fossili di primate, all’interno dei quali ci sono vari stadi vitali di un parassita unicellulare fossile.

Fossilception! Negli eritrociti tirati fuori dall’addome dalla zecca fossile si riescono a vedere piuttosto bene dei piroplasmi, cioè creaturine unicellulari a forma di pera che, in maniera vagamente simile alla malaria, causano svariate sventure, tipo la Babesiosi, che c’è sia umana che bovina che equina.

I globuli rossi fossili al microscopio. Le frecce puntano ai piroplasmi dentro le cellule. Nella fotina nell’angolo come Babesia microti appare in un globulo rosso moderno.

Sapevamo già da studi di genetica molecolare che ci portavamo dietro questi antipatici parassiti almeno dal tardo mesozoico, ma hey, ora abbiamo pure un fossile improbabile a darci un limite superiore di vecchiezza.

Photocredits e Paper di riferimento (Open Access!):

Fossilized Mammalian Erythrocytes Associated With a Tick Reveal Ancient Piroplasms
George Poinar, Jr
J Med Entomol tjw247. DOI: https://doi.org/10.1093/jme/tjw247

https://academic.oup.com/…/Fossilized-Mammalian-Erythrocyte…

Di Duffy, evoluzione umana e malaria

La malaria è probabilmente il più acerrimo nemico che l’umanità abbia mai incontrato. Circa mezzo milione di persone al mondo, soprattutto bambini, muoiono ogni anno per la malaria, e grossomodo 250 milioni di casi.
Che è un netto miglioramento anche solo rispetto a 10 anni fa, quando il numero complessivo di infetti era quasi 1 miliardo.

Tenendo conto di ciò, specialmente per quanto riguarda la mortalità infantile, non è particolarmente soprendente l’idea che il genoma umano sia stato in qualche modo scolpito dall’evoluzione in risposta alla presenza di malaria.

L’esempio classico sono alcune malattie genetiche, anche gravi, che si sono diffuse comunque nella popolazione per via dei loro effetti secondari.
Anemia falciforme? Protegge dalla malaria.
Alfa-talassemia? Protegge dalla malaria.
Mutazioni della glucosio-6-fosfato deidrogenasi? Proteggono dalla malaria.

E questi sono gli esempi più lampanti, perché sono associati a malattie, ma tantissima nella variabilità genetica di tutto quello che riguarda l’emoglobina e le cellule del sangue è collegata per dritto o per rovescio alla malaria.

Tra queste c’è la glicoproteina FY, altrimenti nota come l’antigene Duffy (il nome del paziente in cui è stato isolata per la prima volta. Come per gli antigeni A B 0 del vostro gruppo sanguigno, la glicoproteina FY è una roba che sporge dalla membrane dei globuli rossi. E proprio come i gruppi sanguigni più familiare, di FY ci sono tre versioni: FY*A, presente principalmente in Asia e in Europa, FY*B, presente anche in alcune popolazioni del sud dell’Africa, e FY*0, che semplicemente significa che il globulo rosso sto recettore che sporge non ce l’ha, ed è la versione che hanno il 99% delle popolazioni africane, come da immaginetta.

Grafico che mostra la distribuzione degli alleli Duffy nel mondo, e uno striscio al microscopio con P.vivax

Il grafico della distribuzione dei vari alleli e Plasmodium vivax dentro dei globuli rossi in uno striscio al microscopio. Il primo dal paper, il secondo public domain dal CDC. Clicca per aprire e ingigantosire


Il tipo più comune di malaria è quello causato da Plasmodium vivax, una creaturina unicellulare. Ci sono almeno 5 altri Plasmodium che causano malaria, tra cui il più pericoloso è probabilmente falciparum, e il meno grave nonostante il nome è Plasmodium malarie. Ad ogni modo: il passaggio chiave nella vita di sto parassita è infilarsi nei globuli rossi umani dove si moltiplica vertiginosamente in maniera asessuata finché il globulo rosso non esplode, causando le famose altissime febbri periodiche associate con la malaria (le terzane e quartane, cioè ogni 3 o 4 giorni quando un’infornata di plasmodi fa esplodere i rispettivi).

Il plasmodium ha un po’ di modi per entrare nel globulo rosso, ma fa più fatica ad entrare se non c’è la proteina Duffy che sporge. A volte dà resistenza completa, a volte riduce severamente la gravità dei sintomi. Il che significa che è più probabile che chi abbia questa variante sopravviva. Il che significa che dovrebbe essere favorita dalla selezione naturale.

Quanto favorita? Beh, grazie ad un nuovo studio di genetica di popolazione, sappiamo che l’antenato comune di tutti quelli che hanno la mutazione FY*0 viveva circa 45 mila anni fa. Come tutte le mutazioni, all’inizio era soltanto una mutazione genetica rara e casuale, presente in solo una manciata di individui. Ma, ad un certo punto, gli individui con sta mutazione hanno cominciato ad incontrare sempre più spesso Plasmodium vivax. Nel giro di appena 8000 anni, la mutazione si è diffusa a macchia d’olio, finché non è diventata la versione più comune in africa.

Di tutte quelle che conosciamo questa è la regione del genoma umano sotto più grande pressione selettiva nella nostra storia evolutiva. Avere la versione FY*0 invece che FY*B del gene è la mutazione del genoma umano che la selezione naturale ha favorito più fortemente e velocemente.

Ma non è comunque stato sufficiente per cantare vittoria contro questo acerrimo nemico. Oggi Plasmodium vivax, almeno se confrontato con falciparum, dà una forma relativamente poco grave di malaria, ma, come gli esseri umani, anche lui continua ad evolversi. E in vari luoghi del mondo, tra cui il Madagascar, il Sudan, e l’Etiopia, stanno cominciando ad apparire varianti P.vivax che sono in grado di colonizzare anche i globuli rossi senza Duffy. Il che significa che milioni di persone che ora sono geneticamente protette almeno da questa versione della malaria, potrebbero essere nel giro di pochi anni di nuovo a rischio.

Bisogna correre per rimanere nello stesso posto.

Paper di riferimento:
Population genetic analysis of the DARC locus (Duffy) reveals adaptation from standing variation associated with malaria resistance in humans, McManus et al
http://dx.doi.org/10.1371/journal.pgen.1006560(Open access)

Review consigliata per approfondire tutte ste menate dell’effetto della malaria sul genoma umano:
How Malaria Has Affected the Human Genome and What Human Genetics Can Teach Us about Malaria
http://dx.doi.org/10.1086/432519 (Open access)

Tutte le statistiche recenti più complete sulla malaria, incidenza, morbilità endemicità dall’OMS:
http://www.who.int/malaria/publications/world-malaria-report-2015/en/ (i dati del 2016 sono ancora parziali)

Il mulo di Fairchild e il sesso nelle piante

Durante il diciassettesimo secolo, i giardini inglesi cominciarono a riempirsi di bastardi, muli, mostri, canaglie, freaks e altre stranezze assortite. Naturalisti e giardinieri di ogni tipo erano disposti a pagare bei soldoni per queste nuove piante che sembravano miscugli di altre piante segnate negli erbari. Ma erano i filosofi naturali che in particolare erano ossessionati da queste stramberie.

Nella prima metà del 1600 Nehemiah “Nel tempo libero ho inventato l’anatomia vegetale” Grew aveva proposto la sconvolgente e controversa idea che le piante avessero due sessi. Rubacchiando dagli appunti del grande microscopista italiano Marcello Malpighi, teorizzò che gli stami fossero gli organi maschili dei fiori, e che il polline era lo sperma maschile. Fu un ligio osservatore, ma non si sporcò mai le mani a dimostrarlo: ci volle un medico tedesco, Rudolf Jakob Camerarus, per dimostrare in una dozzina di piante differenti che sì, per fare i semi le piante dovevano fare sesso. Di fonte a queste scoperte, gente come John “ho inventato il concetto biologico di specie” Ray e Carl “tienimi la birra che devo inventare la tassonomia” Linneo cominciarono a classificare le piante esaminando gli organi riproduttivi e quali si potevano incrociare.

Ma un sacco di piante si rifiutavano di comportarsi bene e lasciarsi classificare. Da cui, la pletora di aggettivi infami con cui venivano coperti. Alcuni nella prima metà del 1700, stavano cominciando a tirare in ballo concetti allucinanti ed eretici, come la trasmutazione delle specie (gasp!) o addirittura l’evoluzione (stragasp!).

Prima però che si diffondessero certe idee balzane, il mistero di questi bastardi fu risolto da Richard Bradley, professore di botanica a Cambridge, e dal modesto giardiniere e fiorista Thomas Fairchild.

Thomas Fairchild, sulla sinistra in un ritratto, e Nathaniel Grew, sulla destra, da un’incisione a legno, entrambi autori ignoti. Già questo dà l’idea di chi dei due si sporcava le mani. Public Domain

Nel 1717, Fairchild aveva intenzionalmente incrociato il Garofano comune (Dianthus caryophyllus) e il Garofano dei poeti (Dianthus barbatus), due piante simili all’occhio di una persona qualsiasi, ma non ad una persona “Naturalmente incline al Genio” come si autodescriveva Bradley. Quello che nè uscì fu il primo ibrido artificiale che conosciamo, il “mulo di Fairchild “, di cui è sopravvissuto questo esempio nell’erbario dell’università di Oxford. Mulo, perché come il mulo, la pianta era sterile, e non faceva semi.

Per chi come me non è un piantologo e non ha in testa com’è il garofano comune figuriamoci quello dei poeti:
A sinistra catyophyllus, a destra barbatus, foto di Noordzee23 e Hitromilanese via wikimedia commons, su licenza CC BY-SA 4.0

Uno dei due muli di Fairchild sopravvissuti, quello dell’Università di Oxford. L’altro lo ha il museo di Storia Naturale di Londra, e sono leggermente diversi, probabilmente perché Fairchild fece più incroci tra più genitori diversi per trovare nuovi fiori da vendere. Photocredits: Oxford University

In un sol colpo, questo confermava che le piante facevano sesso, che la definizione biologica di specie funziona, e che non c’è nessuna trasmutazione o nuove specie naturali sulla terra, solo rimescolamento di quello che c’è già, stai trà arcivescovo! Dai, in 1 su 3 ci avevano preso.

Oggi gli ibridi di prima generazione, sterili o meno che siano, sono la spina dorsale dell’agricultura, dell’orticultura e del miglioramento vegetale. E sono tutte nate da un mulo.

Photocredits: Oxford University
Bibliografia: History of Botanical Science: An Account of the Development of Botany, Alan G. Morton

La colonizzazione aborigena dell’Australia e il nomadismo sedentario

Una delle questioni più dibattute riguardo la diffusione di Homo sapiens sulla terra riguarda l’Australia: quando e come ci sono arrivati i nostri antenati? Come è stata colonizzata?

Ieri, su Nature, è stato pubblicato uno studio molto interessante che, tramite combinazione di dati archeologici e DNA mitocondriale, ricostruisce proprio questa straordinaria storia dell’uomo.

Okay, prima di tutto, che roba è il DNA mitocondriale? In (quasi) tutte le vostre cellule, oltre al nucleo cellulare con il vostro DNA, ci sono i mitocondri, degli organellini fagiolosi che la cellula usa per “produrre energia”. Questo organello ha il suo genoma personale nel suo DNA personale, che codifica per una manciata dei suoi geni (alcuni sono nel nostro genoma). Siccome il DNA mitocondriale viene passato solo da madre a figlio (perché nello zigote ci sono i mitocondri che c’erano nella cellula uovo, ma lo spermatozoo vomita dentro l’uovo il DNA e quasi null’altro), si può usare il DNA mitocondriale per tracciare le genealogie su archi di tempo enormi.

Un fagioloso mitocondrio al microscopio elettronico. I pallini neri sono oro legato al DNA del mitocondrio. Puccioso! Di Francisco J Iborra1 , Hiroshi Kimura2 and Peter R Cook – The functional organization of mitochondrial genomes in human cells, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9085139

Ad esempio, si può andare in giro per le comunità aborigene dell’Australia, convincerle a farsi fare un prelievo di sangue, e analizzare quando hanno un antenato in comune, e da quali gruppi sono discesi gli altri. Mettendo insieme questi dati genetici, che dicono che l’ultima antenata femmina da cui discendono tutti gli aborigeni australiani è vissuta circa 47 mila anni fa, e le datazioni dei più antichi reperti archeologici australiani, salta fuori che l’Australia è stata colonizata per la prima volta da un singolo gruppo di persone circa 50 mila anni fa. Che di per sé, è abbastanza figo.

In realtà, è più complicato di un semplice prelievo di sangue. Perché, da bravi stronzi, quando sono arrivati gli europei,  le popolazioni di Aborigeni sono state costrette a trasferirsi, bimbi praticamente rapiti e mischiati tra loro in scuole di stato, e altre cose carine del genere. Gli aborigeni le chiamano “Stolen Generations”, le generazioni rubate. Fortunatamente, grazie al lavoro di gente come Norman Tindale, qui in una foto del 27 con un gruppo di aborigeni, che andava in giro a intervistare per studi antropologiche tribù varie e teneva campioni di capelli di chi intervistava, abbiamo potuto recuperare la distribuzione più o meno originale di chi ha lo stesso mtDNA. Photocredits: Herbert Hale, South Australian Museum Archive Collection

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Piante carnivore e convergenza evolutiva

Cephalotus follicularis è una pucciosissima piantina carnivora dell’Australia. É una cugina abbastanza lontana di altri generi di piante carnivore, e ha la peculiarità di produrre sia foglioline normali noiose e fototosintetiche, sia l’ascidio, quella caraffa piena di morte dove vengono intrappolati e lentamente digeriti gli insetti per prendere il loro preziosissimo azoto.

Uno stile di vita carnivoro si è evoluto indipendentemente in famiglie di pianti differenti, anche poco imparentate. Le somiglianze tra piante carnivore sono il risultato di convergenza evolutiva, non di eredità comune: non c’è stato un antenato comune che si è evoluto per digerire con insetti, ma diversi generi di pianta sono arrivati per vie diverse a questo stile di vita, che richiede queste forme simili.

CEphalotus follicularis e il filogramma delle principali piante carnivore con ascidio

Photocredits: immagine 2a dal paper in bibliografia e fotografia di Dom1234 via DeviantArt

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Una quantità ragionevole di domande e risposte su CRISPR-Cas9

*a meno che non siate biologi/biotecnologi, in tal caso è sta roba non è neanche vagamente abbastanza.

Ci sono già un milione di articoli divulgativi su sto tema, fatti più o meno bene; volevo però un archivio con qualcosa che sia che salti fuori un quindicenne interessato che uno che fa la magistrale di biotecnologie, posso copiargli parti diverse di sto articolo, e qualcosa ci capisce.

Ragion per cui la forma è in botta & risposta, potete vedere quello che vi interessa di più saltando qui e là. Se cliccate sulla domanda, si apre la tendina sotto con la risposta.

NB: Work in progress. Ci sono tante altre domande che conto di aggiungere qui (Tipo, roba su cos’è un gene drive, qualcosa sulla regolamentazione, qualcosa su uso somatico vs embrionale, le PGM con CRISPR, una breve storia delle scoperte rilevanti che non sia scritta da uno che deve vincere un processo sulla parternità e ha giganteschi conflitti di interesse in merito, e anche altre cose, ma volevo qualcosa di scritto oggi con una bibliografia per la live su link2universe. L’altro lato positivo è che così effettivamente posso fare crowdsourcing delle domande).
Ma insomma, cos'è sto CRISPR?

 

CRISPR (si legge crisper) o meglio, CRISPR-Cas9, è una nuova rivoluzionaria tecnica di ingegneria genetica che, utilizzando pezzi presi dal sistema immunitario dei batteri, permette di tagliare qualsiasi pezzo di qualsiasi genoma di qualsiasi organismo con una precisione superiore a qualsiasi altra tecnica mai scoperta. Si può usare in vitro, in cellule, in vivo, su tutto dai virus alle piante all’uomo. Costa pure poco, e la combinazione di ste due ne ha già fatto, a 5 anni dalla sua scoperta, una delle tecniche più rivoluzionarie nella storia della biotecnologia.

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Giocando a carte con la Regina Rossa

Per il Darwin Day 2017, il Museo di Civico di Storia Naturale di Milano ha deciso, visto il successo delle collaborazioni negli anni precedenti, di affidare uno dei laboratori a Italia Unita X la Scienza. Fin qui, tutto bene. Se non fosse che IUXS ha poi deciso di affidare quei poveri liceali al sottoscritto.
Questa è una spiegazione espansiva del razionale e delle regole del “gioco educativo” del laboratorio, che è largamente basato su questa pubblicazione.

Giocando a carte con la Regina Rossa

Ci sono, francamente, un botto di cose sbagliate in come la maggior parte dei libri di testo per i licei trattano la teoria dell’evoluzione, e come generalmente viene insegnata. Al di là del solito “troppo poco” che tutti gli specialisti reclamano per la propria materia (Più italiano! Più inglese! Più matematica!) il problema è che la teoria dell’evoluzione è terribilmente complicata, ma seduttivamente semplice. Mentre c’è il terrore dell’algebra difficilissima c’è molto più pressapochismo su come si insegna l’evoluzione e i suoi processi; pressapochismo che, alla lunga, genera un sacco di confusione.

Due delle concezioni erronee più comuni sono l’idea che l’evoluzione è teleologica verso un miglioramento, cioè che in qualche modo esistano specie “più evolute” e “meno evolute”/che l’evoluzione ha una direzione complessiva, e l’idea che l’evoluzione sia sempre geologicamente lenta.

Queste due convinzioni vengono spazzate via quando si comincia a pensare a certi fenomeni come co-evoluzione. Quando si tratta di co-evoluzione, specialmente tra un parassita è un ospite, si può vedere come è il costante rapporto reciproco che influenza la direzione e la velocità dell’evoluzione, che, per di più, non si ferma mai. Da cui: l’ipotesi della regina rossa.

Ma insomma sta “Ipotesi della Regina Rossa” che è?

A essere fiscali e fiscalissimi il termine ” Ipotesi della Regina Rossa ” si riferisce a due idee, seppur strettamente correlate. L’idea originale viene da Leigh Van Valen che, nel 1973, propose una “nuova legge” per l’evoluzione. In brevissimo, l’idea era che quando abbiamo due specie che si coevolvono strettamente (es. un parassita e un ospite), il cambiamento improvviso in una specie può causare improvvisamente l’estinzione dell’altra, e tale probabilità di estinzione è più o meno indipendente da quanto tempo esistono le due specie.
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Le Vestiges e l’origine delle pseudoscienze

In 1844, Robert Chambers, un autore ed editore scozzese, pubblicò un libro di storia naturale, Vestiges of The Natural History Of Creation (tradotto in italiano in tiratura assai limitata come Storia Naturale della Creazione) in forma totalmente anonima.

Il frontespizio della prima edizione

Il frontespizio della prima edizione

Nel libro, Chambers sostiene che tutti gli organismi, inclusi gli esseri umani, sono il risultato di un lungo, lento processo di sviluppo da materia inorganica verso forme primitive e via via più complesse. Nella sua opera Chambers ricicla pezzi da ogni sorta di fonte, dalla nascente geologia al tradizionale folklore britannico, passando per i filosofi naturali illuministi. Da Kant e Laplace ad esempio prende in prestito l’ipotesi delle nebulose, sostenendo che l’universo intero si era condensato da semplice gas; descrive come la condensa sui vetri sgocciolando forma strutture indistinguibili dalle felci; narra di come riesce a far nascere insetti da scintille elettriche, e di come gli esseri umani non sono la forma finale di questo processo di, ehm, evoluzione, ma che una futura “razza superiore” potrebbe sostituirci. Il libro, anche grazie ad una scrittura considerata brillante, fu un grande successo editoriale e di pubblico, ma detiene anche un interessante primato: è uno dei primi libri nella storia ad essere descritto con il termine pseudoscienza.

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