Archivio Categoria: Biologia - Pagina 2

L’insostenibile solitudine dei tripanosomi

È San Valentino, ma io e la mia ragazza da un paio di mesi siamo separati da un oceano e 6500 kilometri, quindi non si batte chiodo. Poteva andare peggio però. I tripanosomi (Trypanosoma brucei gambiense) non fan sesso da 10 mila anni, ma non van mica su facebook a lamentarsi.

Probabilmente non si lamenta perché è un protozoo flagellato, e ad essere microscopici si fa fatica a schiacciare le lettere sulla tastiera. Un po’ deve anche essere perché sto parassita è la causa della malattia del sonno, una di quelle malattie bastarde trasportate dalla mosca Tsetse, che ti consuma lentamente tra febbri alte, dolori di ogni genere, e (nonostante il nome) ti impedisce di dormire finché non muori. Cioè non è proprio il caso che faccia la povera vittima su FB.

Se hai accesso ai farmaci (cosa non scontata, considerando che è una di quelle malattie tropicali “neglette”) è molto probabile che la scampi però. La guarigione è lunghissima, ti lascia con danni permanenti, e devi monitorare che qualcuno di questi cosini non sia sopravvissuto per almeno due anni, ma la scampi. E parte del motivo per cui la scampi è che questo protozoo non fa sesso da 10mila anni, per cui il suo genoma non cambia, per cui i trattamenti non diventano obsoleti.
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I microbiomi non sono una novità

Ultimamente c’è un sacco di gente che si fa le seghe a due mani sul microbioma umano: ” Ohibò i batteri che hai nell’intestino determinano se ingrassi o meno ” “Ohibò il microbioma influenza se sviluppi allergie o meno ” e via di questo passo. Non passa una settimana senza che non esca qualche lancio stampa su qualche implicazione sulla salute dei microorganismi che vi vivono dentro/addosso.

Ma non è mica che il microbioma è un’idea nuova. Cioè, è un campo di ricerca nuovo perché prima era complicato studiarlo, ma al di là di quello, gli amici piantologi vegetali ste robe l’avevano già messe in conto negli anni 50, quando ha cominciato a diventare popolare il termine fillosfera, cioè le foglie e le altre parti visibili della pianta come habitat dei micro-organismi. I piantologi ci sono arrivati prima non solo perché sono più sgamati della media, ma perché già sapevano bene l’importanza delle comunità batteriche vicino alle radici delle piante, la rizosfera, han fatto 2+2 e si son dati pacche sulle spalle tra di loro.

Photocredits: La muffa grigia che se magna un grappolo d'uva, foto di Tom Maack via Wikimedia Commons, su licenza CC BY-SA 3.0

Photocredits: La muffa grigia che se magna un grappolo d’uva, foto di Tom Maack via Wikimedia Commons, su licenza CC BY-SA 3.0

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Questa non è una farfalla

Caligo Atreus e crisopidi che non sono farfalle

immagine composita dalla fig 1 del paper con crisopidi fossili e dalla foto di Caligo atreus di Lorenzo Magnis, rilasciata in licenza CC-BY-NC-SA https://www.flickr.com/photos/lorenzo-l-m/

Ceci n’est pas un papillion.

Cioè, un momento. Quella sulla sinistra sì, è una farfalla civetta. Ma i fossili sulla destra? Quelle non sono farfalle, sono cose farfallose 80 milioni di anni prima che esistessero le farfalle.

Confusi? Mannò, dai, è solo evoluzione convergente, anche se a livelli che sfiorano l’incredibile.

Circa 165 milioni di anni fa, nel giurassico, quei cosi sulla destra, crisopidi kalligrammatidi, svolazzavano in giro, impollinavano fiori e ciucciavano nettare. Ma i crisopidi non sono farfalle: il loro antenato comune più vicino viveva tipo 300 milioni di anni fa. Se googlate crisopidi, anche se il nome non vi dice niente, sono sicuro che li avete visti in giro nella vostra vita. 300 milioni di anni significa che sono due lignaggi evolutivi separati quanto Homo sapiens e il rospo comune.
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Sul Whiffy Wheat

Il “whiffy wheat”, il grano odoroso, doveva essere la prima pianta geneticamente modificata per rilasciare un feromone come forma di difesa. Il risultato delle prime prove su campo, condotte dall’Istituto di Rothamsted, il più antico centro di ricerca agronomica pubblico del mondo, è però negativo.
L’idea dietro il Whiffy Wheat è teoricamente semplice. Gli afidi del grano causano 120 milioni di sterline di danni ogni anno nel regno unito. La tecnica più efficiente per contenere questi danni è la lotta integrata, ovvero l’utilizzo di predatori naturali e insetti benefici per tenere lontano gli afidi, ma è difficilmente scalabile su scala industriale che si usa per coltivare il grano nella stragrande maggioranza dei casi. E quindi si usano montagne di insetticidi.

Quella tra insetti e piante è da sempre una storia di co-evoluzione; per questo motivo molte piante hanno “imparato” a manipolare segnali chimici per attrarre o repellere determinati insetti. In questo caso, i ricercatori hanno preso un gene dalla Menta piperita, che sintetizza un terpenoide, un composto aromatico che repelle diverse specie di afidi e attira vespe parassitoidi che depongono le loro uova negli afidi, uccidendoli. Si può, volendo, vederlo come una forma di sistema immunitario subappaltato tramite simbiosi.
I test in laboratorio sono stati molto positivi su tutte e tre le principali specie di afidi dannose, ma il risultato non è stato replicato in campo aperto, con nessuna differenza significativa di resistenza agli afidi tra il grano modificato e la versione commerciale originale.

Per quale motivo? Non è ancora del tutto chiaro, ma gli autori hanno un’ipotesi alquanto plausibile, che ha a che fare con il rilascio del feromone. Normalmente i feromoni e gli altri segnali chimici vengono rilasciati sottoforma di picco: gli afidi ne rilasciano molto quando sono attaccati da vespe parassitoidi, la menta li rilascia quando è danneggiata dagli afidi. Ma il Whiffy Wheat rilascia il feromone ad un livello basso ma costante; ed è probabile che dopo un breve periodo gli afidi si siano adattati a ignorare questo livello come fosse rumore di fondo. Per quanto sulla carta la tecnica sia molto promettente, e dovrebbe ridurre la probabilità di una rapida evoluzione di resistenza, questo specifico esperimento è da rivedere completamente.

Sono due le cose che, secondo me, escono come più interessanti da questo studio: la prima è la capacità degli afidi di abituarsi nel giro di una generazione al rumore di fondo. Non è esattamente un’evoluzione di una resistenza, che richiederebbe cambiamenti genetici e più tempo, ma una sorta di comportamento imparato semplicemente crescendo in un ambiente dove il feromone è costantemente presente.
La seconda è una considerazione di natura sociale. La ricerca in questione era totalmente pubblica: gestita da enti pubblici nel regno unito e finanziata con i soldi dei contribuenti. E molti attivisti anti-OGM stanno strumentalizzando questo risultato negativo (che di per sé non sarebbe un fallimento, perché sapere cosa non funziona è tanto importante quanto sapere cosa funziona) per attacare in toto l’idea dei finanziamenti pubblici alla ricerca sugli OGM. Esemplare in questo senso le dichiarazioni di Liz O’Neill, presidente di GM Freeze, una associazione inglese che aveva protestato negli ultimi 2 anni contro questo esperimento, alla BBC:

“The waste of over £1m of public funding on a trial confirms the simple fact that when GM tries to outwit nature, nature adapts in response.”

Questo, di per sé, non sarebbe particolarmente interessante: ogni scusa è sempre buona per tirare acqua al proprio mulino. Diventa però interessante quando alle sue dichiarazioni aggiungiamo questa piccola postilla, riportata su Nature:

” The protests did not disrupt the research, but making the site secure added around £1.8 million (US$2.8 million) to the study’s research cost of £732,000. “

Ovvero: la ricerca è costata 3 volte tanto per via dei tentati sabotaggi del campo da parte dello stesso gruppo che si lamenta del costo della ricerca.
Creare un problema e usare quel medesimo problema come argomentazione contro qualcosa a cui ci si oppone ideologicamente non è una cosa nuova, ma in questo caso è particolarmente sfacciato.
Un po’ come se ci si opponesse strenuamente alla ricerca pubblica sugli OGM perché non ci si fida delle ricerche promosse da grandi colossi commerciali.

ResearchBlogging.org Bruce TJ, Aradottir GI, Smart LE, Martin JL, Caulfield JC, Doherty A, Sparks CA, Woodcock CM, Birkett MA, Napier JA, Jones HD, & Pickett JA (2015). The first crop plant genetically engineered to release an insect pheromone for defence. Scientific reports, 5 PMID: 26108150

Perché i bradipi hanno nove vertebre cervicali ?

Le giraffe, come gli esseri umani, hanno 7 vertebre cervicali.

I mammiferi sono tutti praticamente uguali.

Questo fattoide, però, è trito e ritrito: l’avrete sicuramente sentito mille volte anche voi. Poteva forse impressionare qualcuno nei primi anni ’90, ma nell’epoca degli smartphone, dove mi basta sfiorare un touchscreen per aprire una pagina random di wikipedia per scoprire che Iterlak (o Iterdlak) è un villaggio della Groenlandia di 2 abitanti, non sorprende più nessuno. Ci sono annedoti ben più esoterici a portata di mano, in grado di spazzare via la cervicale da giraffa e rendervi l’anima della festa.

Ma, diciamo, per pura ipotesi, che ad una di queste feste dove va la gente cool che ama le giraffe, che qualcuno vi propini la solita storiella ” Ehi, ma sai che sotto quel collo lungo lungo… “.

Le opzioni a quel punto non sono molte. Potete fare un sorrisino di circostanza, fingendo di non averla proprio mai sentita questa prima eh, ma guarda un po’, per cortesia. Potete roteare gli occhi al cielo con sufficienza e fare un’espressione disgustata,  per poi allontanarvi senza dire una parola, per sottolineare la vostra saccente superiorità. Io farei così.

Ma alcune persone tengono alla propria vita sociale, ragion per cui la strategia più conveniente diventa dire: “Ehi, ma lo sai che i bradipi hanno NOVE vertebre cervicali ? ”

Dopodiché tirate fuori dal portafoglio la foto di scheletro di bradipo che portate sempre con voi per queste evenienze, mostrandola al vostro interlocutore. ” Visto ? ” Photocredits: Natural History Museum, London

La quasi totalità dei mammiferi ha sette vertebre cervicali, indipendentemente dalla lunghezza del collo: che tu sia un pipistrello o un leone marino,  sette ne hai, e sette devi usarne. È un limite ingegneristico abbastanza assurdo che non esiste in altri raggruppamenti animali: il lungo collo del cigno, ad esempio, ha tra le 22 e le 25 vertebre. E a fronte di questa variabilità intraspecifica, letteralmente migliaia di mammiferi sottostanno alla tirannia del sette biblico.

Ma non il bradipo.
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Il glutine è un po’ più complicato di quanto crediate.

Oggi ho visto due persone che se le davano (verbalmente) di santa ragione sull’intolleranza al glutine.

La mia naturale reazione è stata “Ohibò, questa gente ha bisogno di una profonda revisione della letteratura fatta da una persona non esattamente qualificata come me!”.

Al ché, ho avuto la pessima idea di chiedere ai miei cari amici e colleghi di Italia Unita per la Scienza le cose prima facie più assurde che avessero sentito dire sul glutine.

Due o tre travasi di bile dopo ho compilato una lista più o meno completa assurde che si dicono riguardo celiachia e intolleranza al glutine: ho acceso pubmed, ho iniziato a scavare nella letteratura scientifica, e ho scoperto che tutto è molto più complicato di quanto certa gente proclami, spesso per ragioni di marketing, come verità.

Partiamo da dove sono partito con le ricerche, su un tema che tanto per una volta non è una fintroversia ma un contenzioso anche nella comunità scientifica. L’intolleranza al glutine esiste?

Più o meno chiunque su tutto lo spettro scientifico è concorde nel dire che la celiachia esiste, è una malattia autoimmune, e colpisce all’incirca l’1% della popolazione. I sintomi della celiachia sono per lo più gastroenterici (diarrea, gonfiore, dolori addominali), ma è anche collegata ad anemie, carenze vitaminiche e tutta un’altra serie di problemi generali. La celiachia è abbastanza semplice da diagnosticare con un test del sangue e una biopsia dell’intestino.

Dove comincia ad esserci dissenso è sull’esistenza di una “intolleranza al glutine”, che sarebbe una reazione avversa al glutine i cui sintomi si manifestano anche in persone non celiache.  In ambito accademico la chiamano “Sensibilità Non-Celiaca al Glutine”, che è preferibile ad “intolleranza” perché è più specifico e non rischia di essere confuso con la Celiachia quando usato nel normale parlato. Li userò in maniera interscambiabile, riferendomi invece specificamente alla celiachia con il suo nome, quindi occhio quando leggete.

In ogni articolo sul glutine si pone il problema di mettere foto originali che non siano spighette di grano. Risolvo così: questa è la struttura cristallografica tridimensionale del complesso maggiore di istocompatibilità umano (La proteina che dice al sistema immunitario "Ehi questa qui è una cosa cattiva, attacca!") legata ad un pezzetto di glutine. Da RCSB Protein Data Bank, pubblico dominio

In ogni articolo sul glutine si pone il problema di mettere foto originali che non siano spighette di grano. Risolvo così: questa è la struttura cristallografica tridimensionale del complesso maggiore di istocompatibilità umano (La proteina che dice al sistema immunitario “Ehi questa qui è una cosa cattiva, attacca!”) legata ad un pezzetto di glutine. Da RCSB Protein Data Bank, pubblico dominio

Un sacco di gente dice di aver sintomi gastrointestinali gravi che se ne vanno quando cominciano diete senza glutine, ma il più delle volte nessun test scientifico riesce a trovare alcun problema nel loro intestino: in questo caso, acclarato che non sia un caso di celiachia non diagnosticata, definiamo il misterioso problema come sensibilità non celiaca al glutine.

Studi più recenti cominciano a mettere in discussione risultati pregressi che negavano l’esistenza della sensibilità non celiaca al glutine. Il primo studio convincente che ho trovato in merito è del 2011: Biesiekierski e colleghi pubblicano uno studio randomizzato in doppio cieco sul tema, e tutti sanno quanto mi piacciono gli studi randomizzati in doppio cieco. Nella ricerca in questione, pazienti con la sindrome del colon irritabile che sostenevano che i propri sintomi miglioravano quando non consumavano glutine, sono stati tutti messi a seguire una dieta completamente priva di glutine: a metà, presi a caso, veniva anche somministrata una pillola di glutine, agli altri un placebo. E a quanto pare hanno trovato che i pazienti a cui casualmente finiva il glutine mostravano molti più sintomi avversi di quelli a cui veniva dato il placebo ( p= 0.0001 !). Tuttavia, non manifestavano nessuno dei soliti marker immunologici, o segnali nelle biopsie, solitamente collegati alla celiachia.
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Nella tela della selezione di gruppo

Intorno al 1960 l’evoluzione aveva trionfato. Forse anche grazie alla rivoluzione culturale, tolti pochi baluardi come la bible belt del sud degli USA per ragioni più politiche che intellettuali, la teoria proposta appena un secolo prima da Darwin si era definitivamente cristallizzata nella Sintesi Moderna non solo negli ambienti intellettuali, ma anche nei programmi scolastici. Si era arrivati, 20 anni dopo il libro omonimo di Julian Huxley, ad avere un sistema completo e integrato che metteva insieme Darwin, Mendel, selezione naturale, genetica di popolazione e deriva genetica. Le principali novità teoriche erano più vecchie, degli anni trenta e quaranta, ma erano finalmente passate attraverso il setaccio che separa le torri d’avorio dalla cultura popolare.

Il problema è che quando si passa attraverso un setaccio, si perde sempre qualcosa. E tra le cose che rimasero al di sopra della maglia, e che invece sono tornate di moda nell’ultimo periodo, c’è la selezione di gruppo, che ultimamente è tornata alla ribalta (purché per ultimamente intendiate “negli ultimi trent’anni” e per ribalta intendiate “Vecchi barbosi si scannano sulla validità del concetto”).

Facciamo però un passo indietro, e partiamo dall’inizio invece che in media res. E come spesso succede in questo campo, per partire dall’inizio bisogna andare dal barbuto per eccellenza: Carletto Darwin.

La teoria dell’evoluzione darwiniana originale, quella rivoluzionaria dell’origine delle specie, è inquadrata in termini di individui. E’ l’insetto che si nasconde meglio che si riproduce di più e trasmette le sue capacità mimetiche ai figli: è un singolo specifico insetto (Prendiamoci confidenza, chiamiamola Genoveffa) che trasmette il tratto alla prole. I figli di Genoveffa hanno un vantaggio locale perché sopravvivono meglio di tutti gli altri insetti non-genoveffini con cui hanno un ambiente condiviso. Quello che la selezione naturale “vede” è Genoveffa e la sua prole individualmente per decidere se sono mimetizzati bene o no.

Se teniamo questo livello di zoom, tratti che aiutano altri individui non sono localmente vantaggiosi. Genoveffa decide, invece di deporre uova, di aiutare a crescere i figli dei vicini: per quanto l’azione sia per il bene del gruppo di insetti che vivono in uno stesso luogo, a livello individuale è localmente svantaggiosa, perché non fare figli significa che il tratto “aiutiamo gli altri” di Genoveffa muore con lei.
L’evoluzione di tratti vantaggiosi per il gruppo ma svantaggiosi per l’individuo sono un problema teorico non semplice per la teoria dell’Evoluzione, al punto che è una di quelle cose su cui i creazionisti si buttano alla disperata ricerca di buchi. Darwin, che di sicuro era più sveglio di me, si rese subito conto del problema quando si trovò a doverlo affrontare parlando di morale umana ne “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”. Darwin scrive (parafraso leggermente per non dover citare due pagine intere) che per quanto essere più “morali” e “altruisti” non conferisca alcun vantaggio a ciascun individuo e ai suoi figli rispetto ai membri della sua stessa tribù, dà un grande vantaggio al suo gruppo rispetto ad altre tribù. Una tribù in cui la gente si sacrifica per il bene comune perché piena di empatia coraggio e obbedienza sostituirà una tribù di stronzi egoisti, e anche questa è selezione naturale.

Darwin, insomma, non aveva problemi a dire: “Sì, beh, guardiamo l’individuo e la lotta per la sua sopravvivenza, però quando serve possiamo anche guardare la lotta tra gruppi e la loro sopravvivenza”. David Sloan Wilson, che è il principale teorico moderno in favore di questa idea, la chiama “selezione multilivello”.

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Hasta i Vittoriani siempre

A volte ricevo mail su articoli che ho pubblicato qui. Il più delle volte, sono mail totalmente e completamente folli, come quel tizio che voleva convincermi che nei cromosomi c’è la prova della divinità della Bibbia, visto che in Genesi c’è scritto che Eva è stata creata togliendo una costola ad Adamo e il cromosoma Y ha un braccio in meno del cromosoma X.

A volte sono cose che mi lasciano semplicemente perplesso: mail vuote che hanno come oggetto solo “Re:” e nel testo solo un link. Nel caso specifico, questo link.

Più o meno un anno fa scrissi un blogpost in reazione ad un paper, popolarissimo nella stampa generalista, che sosteneva che i Vittoriani erano più intelligenti di noi e col tempo stiamo diventando tutti scemi. A quanto pare la gente che vuole fare del passato imperiale inglese un mondo ideale non manca: ed ecco che il link qua sopra vorrebbe persuadermi che l’età Vittoriana era l’età d’oro della salute umana, in cui la speranza di vita era superiore a quella moderna, in cui nessuno assumeva alcool o tabacco, il cibo industrializzato non aveva rovinato la nostra salute, e le malattie degenerative non esistevano.

In pratica, in barba a WHO, vegetariani vari e 200 anni di scienza della nutrizione, la dieta ideale esiste ed è più o meno quello che mangiava Darwin.

E, giusto per dovere di cronaca, partiamo con il dire che sono profondamente pregiudizievole contro questo tipo di argomentazioni ancora prima di leggerle nel merito. Perché, per quanto supporre che il presente sia l’ultima parola sul progresso e il benessere umano sia arrogante e opinabile, tutte queste affermazioni che vogliono indorare il passato come fosse un mito arcadico mi fanno veramente cadere le braccia. Negli ultimi 50 anni la medicina ha visto la comparsa di vaccini per la polmonite, per le meningiti, per le epatiti, per il morbillo e per l’HPV; RM, PET, TAC e altre sigle diagnostiche improponibili; chirurgia laser, chirurgia robot, telechirurgia, chirurgia estetica e liposuzione; centinaia di farmaci tra cui fluoxetina, paroxetina e mirtazapina, per cui ho particolare affetto; abbiamo avuto il tempo di inventare e far perdere di efficacia per colpa di uso sconsiderato una dozzina di antibiotici; cuori artificiali, coclea artificiali e arti artificiali così efficaci che se provi ad usarli per competere alle olimpiadi alla gente viene il serio dubbio che ti avvantaggino; occhi artificiali e fegati artificiali sono lì lì dietro l’angolo. Abbiamo un posto dove puoi accedere da qualsiasi parte nel mondo e avere accesso ad una versione approssimativa di tutto il sapere umano, dai fossili di generi di lemuri estinti a strani formaggi polacchi.

Ma, a quanto pare, quando lo stato dell’arte della medicina era un corpetto coi magneti per far crescere le tette e l’arsenico era sicuro e onnipresente, i vittoriani (che giustamente erano più intelligenti di noi) avevano trovato lo stile di vita e la dieta perfetta per una vita senza malanni.

Ora, io posso capire che a leggere Ugo Bardi alla gente venga il male di vivere, e che spesso queste affermazioni pro-saggezza-millenaria-si-stava-meglio-quando-si-stava-peggio siano più che altro motivate da comprensibile furia contro lo status quo che da un genuino credere che sotto la regina Vittoria la gente stesse alla grande; ma vedere scritto in letteratura scientifica, che tra il 1850 e il 1870 ” a generation grew up with probably the best standards of health ever enjoyed by a modern state. ”  mi fa quasi rivalutare la costola di Adamo.

Messo in chiaro che sono più pregiudizievole di un membro del Ku Klux Klan a Lampedusa, andiamo a vedere quali sono le argomentazioni e le prove che Clayton e Rowbotham portano nel loro articolo pubblicato sull’International Journal Of Environmental Research And Public Health (Impact Factor: 1.99).

Quello che vogliono sostenere, nello specifico, è che:

We argue in this paper, using a range of historical evidence, which Britain and its world-dominating empire were supported by a workforce, an army and a navy comprised of individuals who were healthier, fitter and stronger than we are today. They were almost entirely free of the degenerative diseases which maim and kill so many of us, and although it is commonly stated that this is because they all died young, the reverse is true; public records reveal that they lived as long – or longer – than we do in the 21st century. These findings are remarkable, as this brief period of great good health predates not only the public health movement but also the great 20th century medical advances in surgery, infection control and drugs,

 

Che, tradotto in breve per la mia mamma, significa che l’Impero Britannico aveva una forza lavoro, un esercito e una marina più in salute, più forte e più atletica di quanto non siamo noi moderni, in cui le malattie degenerative sostanzialmente non esistevano, e che vivevano tanto a lungo, se non più a lungo di noi, nonostante spesso si dica il contrario, il tutto ben prima dell’invenzione non solo della medicina pubblica, ma anche degli antisettici e dei primi farmaci.

Una affermazione sorprendente, e, direbbe qualcuno, straordinaria. Su quale evidenze si basa?
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Tutto causa il cancro (Il bias dei cappelli bianchi)

Avete mai notato come le sezioni salute della maggior parte dei giornali (e blog) siano ormai intente nell’impresa titanica  di dividere ogni singolo alimento e ingrediente in cosa fa venire il cancro e cosa no?

E, non fraintendetemi, capisco il principio che c’è dietro. Il cancro è probabilmente una delle cose più terrificanti per la maggior parte delle persone, e sei vuoi leggere, o beccarti il click, o sei genuinamente interessato a morire il più tardi possibile e vivere nel mentre restando il più in salute possibile, ecco che la nutrizione diventa sproporzionatamente importante.

Così, su nelle torri eburnee è stata inventata l’epidemiologia nutrizionale, una disciplina legittima che si trasforma in circa un migliaio di pubblicazioni scientifiche l’anno, che, apparentemente, si trasformano in un migliaio di articoli pop che senza la benché minima nuance si trasformano in articoli tipo “Il cibo x fa venire il cancro” e “l’ingrediente y protegge dalle malattie cardiache”, etc. E di conseguenza non c’è da meravigliarsi se i consumatori sono confusi sotto questo bombardamento di informazioni, e vanno o in panico per ogni nuovo “rivoluzionario studio” o ad un certo punto diventano scettici e cominciano a sbattersi le palle.

A questo si può aggiungere che in Italia non serve quasi nessuna qualifica specifica per farsi chiamare Nutrizionista; secondo l’Ordine dei Biologi, basta essere iscritti all’albo per poter potersi definire tale; il che significa che sebbene io mi occupi di evoluzione e genetica di popolazione domani potrei mettere “Dott.  Biologo Nutrizionista” forte dei 3 crediti scarsi di alimentazione umana nella mia carriera accademica, e nessuno potrebbe legalmente dirmi niente. Il fatto di ottenere prima una specifica qualifica in ambito di alimentazione è semplicemente un consiglio o una raccomandazione dell’ordine. Questo non significa che i biologi nutrizionisti (o i dietologi, a cui si applicano più o meno le stesse regole, con l’aggravante che il termine non è legalmente protetto) siano necessariamente profittatori incompetenti e senza scrupoli, ma, ad esempio l’Associazione Nazionale Dietisti ha recentemente pubblicato un report, in cui esprime preoccupazione  per  ” […] l’eterogeneità e la numerosità degli accessi (ai master in nutrizione, ndr), aperti contemporaneamente a molteplici tipologie di laureati con provenienze formative e ambiti professionali molto diversi tra loro, e molti dei quali senza alcuna competenza di base in ambito nutrizionale e sanitario “. E per quanto improvvisarsi senza il benché minimo di qualifiche sia più o meno il tema conduttore di questo blog, farlo per profitto sparlando di nutrizione penso sia come minimo poco etico; e anche quando viene fatto in buona o buonissima fede e non per mero guadagno, rischia di perpetuare  perniciosi miti da una supposta posizione di autorità.

(N.B: Non sono assolutamente sicuro che sia ancora così da quando esistono le lauree specialistiche in biologia della nutrizione, ma lo era appena 4-5 anni fa e quelle lauree già esistevano, quindi se dovessi sbagliarmi non c’è bisogno di divorarmi nei commenti: al massimo quello che sto dicendo è out-of-date. se così fosse, fatemi sapere)

E ovviamente, questa cacofonia di consigli e questa iper-medicalizzazione della dieta crea una nuova enorme nicchia per ciarlatani e pseudoscienziati di ogni tipo per approfittarsi di chi vorrebbe solo stare meglio (o essere più magro).

Breve parentesi metodologica su come funzionano gli studi epidemiologici sulla nutrizione: se già sapete come funziona, e siete familiari con termini come studi longitudinali o meta analisi, skippate con gusto la prossima parte.

Un gattino puccioso segna l’inizio e la fine della parte skippabile dai lettori “avanzati”. Photocredits: ” <3KawaiiCloud<3 ” via Flickr

Un gattino puccioso segna l’inizio e la fine della parte skippabile dai lettori “avanzati”.

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Perché esistono così tanti fiori ?

Arriva San Valentino, e come spesso succede, orde di amanti razziano campi e fioristi alla ricerca dell’organo riproduttore più adatto da regalare alla propria/o bella/o.  Nel mondo occidentale, la scelta ricade tipicamente sulla rosa rossa, che in questi giorni viene pagata a peso d’oro, ma la scelta potrebbe essere, almeno in teoria, ben più varia. Si stima che esistano circa 350 mila specie di angiosperme, cioè piante con fiore, al mondo.

Certo, potete regalare alla vostra morosa un mazzo di rose, ma quanto sareste più cool regalando un fiore di  Hydnora africana ?

Hydnora è un genere di piante parassite. Quello che vedete sporgere, tipo mano a tenaglia di un lego, è il fiore; intorno, nere, sono le radici marcescenti della pianta a cui il fiore sta lentamente succhiando la vita. Una perfetta descrizione della vita di coppia.

Hydnora è un genere di piante parassite. Quello che vedete sporgere, tipo mano a tenaglia di un lego, è il fiore; intorno, nere, sono le radici marcescenti della pianta a cui il fiore sta lentamente succhiando la vita. Una perfetta descrizione della vita di coppia. Photocredits: D.L. Nickren, Southern Illinois University

Perché esistono così tanti fiori? Beh, l’idea di base è semplice: la teoria dell’evoluzione, già dai tempi di Darwin, prevede che la pianta, non potendosi muovere, scelga un il particolare impollinatore da attirare perché possa trasportare il suo polline ad un altro fiore. Più il fiore è specifico e strano, più attirerà una specifica e strana specie di impollinatore, ed eviterà il rischio di ricevere polline di specie con cui non ha intenzione di incrociarsi. E’ il cambiamento da un impollinatore all’altro che causa i più massicci cambiamenti nella morfologia e nella struttura del fiore, che si sforza di isolarsi riproduttivamente dai suoi cugini più stretti.

” Hey, è proprio una bella ipotesi. Sarebbe anche bello se avessi qualche prova a sostegno, mate. ” ( Non so perché, ma quando mi immagino lo scettico di turno che viene a rompere le uova nel paniere ha un marcato accento Cockney )

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