Archivio Categoria: Spiegoni - Pagina 2

Lo Spiegone: l’Orologio Molecolare

Diciamo che vi svegliate un mattino con una pazza voglia di scoprire quando è vissuto l’ultimo antenato comune tra uomo e nudibranchi.

I nudibranchi sono creature molto carine ed esotiche, e alcuni ricordano terribilmente dei Pokemon.

Omg Nudibranch

Chromodoris geometrica in una foto accurratamente studiata per fingere che abbia un faccino puccioso. Photocredits: David Dubliet via NatGeo

Sfortunatamente, i nudibranchi sono molluschi. E le cose mollicce tendono a fossilizzarsi molto poco: tanto che non conosciamo fossili di nudibranchi adulti; tutto al più si può trovare qualcosa dello stato larvale, quando queste creaturine non hanno ancora perso la conchiglia.

“Va beh”, dite voi, determinati a trovare almeno una data approssimativa ” Passando da gruppi tassonomici più grandi il problema è meno grave, no ? Io sono un vertebrato, i nudibranchi sono molluschi e quindi invertebrati, posso andare a vedere più o meno quando questi due gruppi si sono separati. ”

Beh, sì e no. Per andare tanto indietro da trovare un antenato comune tra vertebrati e invertebrati bisogna andare… tanto indietro. Più di 600 milioni di anni, prima dell’esplosione del cambriano. E prima del cambriano tutto quello che c’era era molliccio e poco prono a fossilizzarsi, il che vi riporta punto e a capo.

Oh, se solo l’evoluzione fosse un processo regolare, misurabile, costante. Ma non c’è speranza di riuscire a trovare regolarità e costanza nell’evoluzione di qualsiasi arto o organo,dal cervello all’ultimo dei baffi: la selezione darwiniana agisce in maniera diversa tanto più o meno un tratto contribuisce alla sopravvivenza di un organismo. J.B.S Haldane, una volta, propose una misura di un tasso di evoluzione, il Darwin, che misurava cambiamenti proporzionali di generazione in generazione. Applicarlo ai fossili reali era però una tortura: non solo perché bisognava in qualche modo scoprire quante generazioni c’erano tra i fossili, ma anche perché i tassi risultanti passavano in tranquillità dai milliDarwin ai kiloDarwin senza soluzione di continuità. Una causa persa, insomma. O forse no.

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Apocalisse in salsa gamma

E’ un normale giovedì mattina. Al Polo Sud, nelle profondità della Terra ma soprattutto del ghiaccio, all’Ice Cube Neutrino Observatory, alcuni ricercatori annoiati seguono la routine, controllando i dati della notte precedente in cerca di qualche segnale interessante. Ancora nel dormiveglia, uno di loro nota qualcosa di strano. “Oh, ma avete visto l’ultimo set di dati? Si dev’essere fuso qualcosa: è completamente fuori scala!”, urla agli altri, ancora distanti, mentre un sottile fumo si alza e condensa dal suo caffè bollente. Le letture sono fuori da ogni norma. I neutrini sono particelle al limite dell’etereo, difficilissime da rivelare, eppure una pioggia improvvisa di questi fantasmi ha colpito i rivelatori.
Perfino i neutrini solari, che provengono dall’oggetto più luminoso e vicino nel cielo, vengono a malapena registrati dagli avanzatissimi strumenti nelle
profondità polari. “S’è spaccato tutto, qua”, esclama un altro scienziato, frustrato. Due ore dopo, i controlli tecnici non avrebbero notato nulla diirregolare negli strumenti.
Ma nessuno sopravvivrà
 fino a due ore dopo.

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Da dove viene l’HIV?

Oggi è il primo dicembre.  Il primo dicembre è la giornata mondiale contro l’AIDS.

E, sarà che io son fissato con la storia, ma trovo sempre bene vedere un problema, anche quando è un’epidemia virale nella sua prospettiva storica.

Quindi, esattamente, da dove viene l’HIV ?

Non è una cospirazione gigante dei padroni rettiliani/massoni/illuminati.
Non è neanche il  prodotto di un lavoro di bioingegneria bianca rovesciato contro i neri per mantenerli sotto controllo post-colonial/imperialista.

Fa specie dover fare queste precisazioni, ma c’è gente che ci crede.

Ci crede non solo perché la gente crede più o meno a qualsiasi cosa, non solo perché giornalai e pennivendoli hanno scritto qualsiasi cosa sull’HIV/AIDS, ma anche perché rispondere alla sopracitata domanda non è stato esattamente facile.

Ma adesso, dopo più 25 anni di ricerca, possiamo dire con certezza un po’ di cose sull’origine e la storia della peste del 20esimo secolo.

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Anassagora, Darwin e i neutrini: come sappiamo da quando brilla il sole

Secondo round di spiegone su come sappiamo le risposte a certe domande considerate “banali”; dopo ” da dove vengono i bambini “; Questa volta, c’è per voi  una breve storia di come siamo arrivati a capire perché, come, e da quando il sole ci illumina e riscalda.

Cominciamo dall’inizio. Gli antichi egizi pensavano che il sole fosse una palla di fuoco.  Il sole per loro era anche l’incarnazione di una divinità, e per questo motivo non si ponevano il problema di cosa lo alimentasse: una palla di fuoco si adattava alla loro esperienza quotidiana, la divinità pensava alla parte celeste, e bon, eran tranquilli così.

Nel quinto secolo d.C. , Anassagora, il filosofo greco, fece un’interessante osservazione. Trovò una roccia, una stella cadente, che si era appena schiantata. Era un grumo di metallo, ancora così caldo e bollente che arrivò alla conclusione che poteva soltanto venire dal sole. Di conseguenza, elaborò un ipotesi sempre traendo spunto dalla sua esperienza quotidiana: il sole deve essere un ferro arroventato.

Il ferro incandescente emette un sacco di luce. L’idea di Anassagora non era così folle, dopotutto.

Quest’idea restò la più diffusa nel mondo occidentale per quasi duemila anni, nonostante Anassagora fosse stato accusato di empietà e, conseguentemente, osteggiato. Aveva proposto, insieme alla sopracitata ipotesi del ferro arroventato, che il sole non fosse diverso dalle altre stelle, ma soltanto più vicino, il che non si sposava bene con le idee religiose del tempo.

Nel sistema tolemaico, con la terra al centro, il sole non era trattato come le altre stelle, ma più come un pianeta. Infatti, come gli altri pianeti, sembrava muoversi rispetto allo sfondo di stelle fisse.  Non c’era particolare riferimento al suo carburante o alla sua sostanza, dal momento che continuava a esistere la mentalità secondo la quale le cose del cielo e della terra fossero ben distinte. Per via del fatto che l’Almagesto, l’opera principale di Tolomeo, resterà il testo astronomico standard per un millennio e mezzo, la questione di cosa alimentava il sole non sarà ulteriormente eviscerata per un bel po’ di tempo.

Poi, nel 1700, arrivò uno dei miei naturalisti preferiti di sempre: Georges Louis Latrec, Compte di Buffon, meglio noto con il semplice titolo Buffon. Buffon aveva una conoscenza enciclopedica dell’anatomia comparata, e sapeva che tanti dei fossili che cominciavano ad essere notati sempre più frequentemente non potevano essere di specie attuali: nonostante quello che sosteneva la chiesa, le specie si estinguevano,e i fossili non potevano essere soltanto il risultato del diluvio universale.  Nel 1717 Buffon pubblica  le “ Les Epoques De La Nature “: stabilisce che il mondo ha circa 75000 anni, e distingue 7 età della terra, ciascuna distinguibile per la sua particolare fauna.

Buffon viene attaccato da ogni parte da teologi e letterati, per cui il mondo non ha più di 6000 anni: solo la sua amicizia con il Re lo protegge da gravi ripercussioni.  Sfortunatamente per i suoi avversari, Buffon era uno scrittore brillante e avvincente, accessibile a chiunque, e la divulgazione della scienza era il suo pallino: il suo libro successivo, l’Historie Naturelle, diventa rapidamente il libro più letto in Francia, un mega-best seller. Ah, l’Illuminismo. Bei tempi.

Improvvisamente Buffon, rifacendosi alla geologia, aveva decuplicato l’età della terra. Ma decuplicare l’età della terra, significava decuplicare l’età del sole:  e per mantenere un ferro rovente rovente, una fornace deve continuamente essere alimentata col carburante.  Che cosa poteva farlo funzionare così a lungo ? La domanda si faceva sempre più pressante.

Mezzo secolo dopo, con Lyell e Darwin, improvvisamente non si parla più di centinaia di migliaia di anni, ma di milioni: eppure niente nelle leggi della fisica conosciute al tempo poteva spiegare come il sole avesse bruciato così a lungo.

Nel 1850, John James Waterston, un giovane fisico scozzese che faceva rilievi geologici per le ferrovie, realizza, mentre sta sviluppando una teoria cinetica dei gas, che, in base alle equazioni sulle radiazioni termiche di Macedonio Melloni, nessun carburante chimico poteva alimentare il sole da più di diecimila anni.

Macedonio Melloni: fisico, rivoluzionario, patriota, persona con delle iniziali elegantissime.

Macedonio Melloni (nome EPICO) era un fisico italiano, che, quando non veniva cacciato in esilio perché membro di movimenti rivoluzionari e indipendentisti, lavorava sulle sorprendenti somiglianze tra la propagazione della luce e la propagazione del calore radiante.  Questo si propaga come la luce, con tanto di rifrazione e riflessione,  perché è luce infrarossa; MM, pur senza aver nessun background teorico che gli permettesse di arrivare alla conclusione moderna (la natura della luce era ancora largamente dibattuta) aveva sviluppato delle equazioni, che empiricamente, funzionavano piuttosto bene.

Waterston, però, confidava nelle prove dei naturalisti e della geologia: ci deve essere un’altra sorgente di energia per il sole. E l’unico candidato possibile ai tempi doveva essere la forza di gravità: forse, grazie alla sua grande massa, il sole poteva attirare e assorbire rocce come carburante.  L’idea sembrava brillante, ma una volta sottoposta al vaglio di calcoli più precisi basati su osservazioni astronomiche, si rese conto che non c’erano abbastanza meteore note nel sistema solare perché la differenza fosse rilevante. Se anche il sole avesse assorbito Mercurio e Venere, ciascuno dei pianeti avrebbe prolungato la sua vita di poco più di un secolo.

Ma, come ho accennato, Waterstone stava sviluppando una teoria cinetica dei gas.  Così tirò fuori un’altra idea brillante: sapeva per certo che un gas, compresso, aumenta di temperatura. Quindi, immaginò che il sole stesse collassando su se stesso, producendo calore di conseguenza. Convinto che la sua ipotesi potesse salvare la geologia, presentò la sua idea al convegno annuale della British Association for The Advancement Of Science nel 1853. Sfortunatamente per lui, non molti lo presero sul serio, e la sua teoria cinetica dei gas passò inosservata per almeno altri vent’anni. Ma nel pubblico c’era un certo William Thomson, meglio noto come Lord Kelvin, e Waterstone riuscì a far breccia nella sua mente.

William Thomson, altrimenti noto come Lord Kelvin, uno dei più grandi fisici della storia. Questo non gli impedirà di essere in torto marcio nella sua opposizione a Darwin.

Kelvin elaborò una teoria di come il sole potesse collassare su se stesso producendo il massimo calore possibile per il periodo più lungo possibile. Inizialmente, tirò fuori una stima di 100 milioni di anni,  che poi andò riducendo progressivamente col passare degli anni, un po’ per convinzione, un po’ per girare il coltello nella piaga dei naturalisti.

Darwin restò terrorizzato dalla stima di Thompson. Tolse ogni riferimento a possibili scale temporali nelle edizioni “ On The Origin Of The Species “, successive alla prima analisi di Thompson; e restò così inquietato da scrivere a Wallace, l’altro scopritore della selezione naturale, che la questione dell’età della terra era “ uno dei miei guai più gravi “.

Anni dopo, Lord Kelvin ridusse nuovamente l’età del sole: l’astro non poteva avere più di 25 milioni di anni, il che rendeva il conflitto tra l’evoluzione e la geologia da un lato, e la fisica dall’altro, ancora più marcato. Qualcuno doveva sbagliarsi, o quantomeno doveva aver  tralasciato qualcosa.

Una delle (tante) profezie sbagliate di Kelvin era che i raggi X si sarebbero rivelati una truffa, una frode. Cambiò idea successivamente, quando Roentgen, lo scopritore, gli fece una radiografia alla mano, ma in ogni caso non si rese conto che nelle radiazioni c’era la soluzione del paradosso dell’età del sole.

Lo capì Rutherford, l’uomo che per primo riuscì a identificare la struttura dell’atomo. Rutherford aveva identificato diversi tipi di radiazione atomica. La radiazione alfa era fatta di particelle, che si scoprì in seguito essere i nuclei di atomi di elio. L’osservazione fu fondamentale, perché spiegava come nei minerali che contenevano uranio spesso si trovavano tracce di questo gas nobile: era l’uranio stesso che li generava. E più venivano generate particelle alfa, più energia (e calore) venivano emesse. Con la scoperta del radio, che emette a tal punto da essere caldo al tatto, sembrava ormai ovvio che i calcoli di Lord Kelvin avevano ignorato qualcosa di importante.

Una volta realizzato che gli elementi radioattivi possono emettere energia continuamente, senza bisogno di ricevere carburante dall’esterno, gli astronomi si misero immediatamente cercare di capire se era possibile che il sole fosse radioattivo. William Wilson, nel 1903, calcolò che bastassero pochi grammi di radio per metro cubo di sole perché questi irradiasse tanta energia quanto ne arrivava sulla  terra.

Purtroppo, parafrasando T.H. Huxley , questa bellissima ipotesi verrà  annientata da un brutto dato di fatto.  Le prime spettroscopie del sole mostravano che non c’era traccia di radio nella sua composizione, ma la sua composizione era quasi esclusivamente costituita da elio, che, non a caso, prendeva il nome di Helios, il dio del sole.

Ernest Rutherford. ” Tutta la scienza è fisica o collezione di francobolli “, amava dire; e conseguentemente vinse il Nobel per la chimica nel 1908.

Niente radio, ma molto elio. Rutherford e gli altri sapevano che il decadimento radioattivo di certi elementi produceva particelle alfa, cioè nuclei di elio, ma di essi non vi era traccia nello spettro solare. Se l’elio era la “cenere” di una “combustione”, o il carburante era completamente nuovo, o il tipo di combustione era completamente nuovo.

Sir Arthur Eddington, professore di astronomia a Cambridge, fu uno dei primi a comprendere la teoria della relatività di Einstein, e la sua famosa “E=mc^2”, tanto da organizzare una spedizione sull’isola di Principe, in Africa, per osservare l’eclissi solare del 29 maggio 1919, dando una prima conferma empirica diretta della validità delle equazioni einsteiniane.

Nel 1920, Eddington riceve notizie dal suo collega Francis Aston, che lavorava nel Cavendish Laboratory, sempre a  Cambridge. Quest’ultimo aveva appena scoperto che l’atomo di elio pesa 1/120 meno di quanto dovrebbe pesare se fosse la semplice somma di quattro atomi di idrogeno.

Eddington ebbe immediatamente un’illuminazione su come funzionava la luce solare. Tutto quell’elio era la cenere di una nuova forma di combustione dell’idrogeno, il più semplice degli elementi! Ogni volta che quattro protoni si fondevano nel nucleo del sole, quel centoventesimo di massa extra diventava luce e calore solare, e dal momento che E=mc^2, e c^2 è un numero mooooooolto grande, il sole poteva avere centinaia di milioni, o addirittura miliardi di anni.

Eddington aveva avuto l’intuizione giusta, ma i dettagli non erano ancora ben chiari, e sebbene in apparenza il conflitto Darwin-Kelvin fosse rimosso, ancora non c’era una chiara idea dell’età del sole, e di come il combustibile venisse bruciato.

La soluzione, almeno teorica, arriverà solo vent’anni dopo, con Hans Bethe. A temperature di milioni di gradi, come nel centro del sole, gli atomi di idrogeno vengono sbriciolati nelle loro componenti più basilari: elettroni e protoni. Quando questi protoni si schiantano tra di loro, è possibile che avvenga una fusione nucleare. Ma due protoni che si scontrano non formano un atomo di elio: serve una reazione a catena, la così detta “catena pp” (dove pp sta per protone-protone).

Un diagramma della catena pp. La descrizione è nel testo; qui ci sono indicati anche i tempi medi di reazione. Beta+ sono i positroni espulsi, gamma i fotoni e nu (quella roba che sembra una v) i neutrini. Credits: http://csep10.phys.utk.edu/

Inizialmente, due protoni collidono e fondono insieme, creando un deuterone: un insieme instabile di un protone e un neutrone. La carica del protone che è diventato un neutrone viene conservata espellendo un positrone (che è l’antiparticella dell’elettrone, e, come tale, ha la stessa carica, ma positiva invece che negativa) e un neutrino. Il deuterone si trova affogato in una folla di protoni, e ne assorbe immediatamente uno, formando un nucleo di elio-3 (2 protoni e un neutrone). Infine, finalmente, due nuclei di elio 3 si fondono tra di loro, formando la forma stabile di elio, l’elio 4, con due protoni e due neutroni, e espellendo 2 protoni extra. Il risultato finale è che i quattro protoni iniziali sono arrivati ad essere un singolo atomo di elio quattro, emettendo energia sottoforma di positroni, fotoni e neutrini.

Con un colpo di genio, Bethe aveva finalmente trovato un processo nucleare teoricamente comprensibile al suo tempo, che potesse produrre la giusta quantità di calore, che potesse alimentare il sole per la giusta quantità di tempo, e che facesse tornare i conti sia ai fisici che ai geologi.

Tutto molto bello, ma anche niente di empirico: dov’era la prova che la catena pp era quello che realmente avveniva nel sole, e non semplicemente un’altra bella ipotesi in attesa di un brutale dato di fatto che l’annientasse ? C’era solo un modo per dimostrare empiricamente che questo era il processo giusto: trovare i neutrini che venivano emessi durante la catena di fusione.

Peccato che, nel 1939, il neutrino fosse una particella del tutto teorica, inventata da Pauli e Fermi circa 10 anni prima semplicemente per far quadrare i conti, e che, per via delle sue proprietà sfuggenti, era quasi impossibile da rilevare.

Quasi impossibile, nel dizionario dei fisici, significa molto interessante. Così, ebbe inizio una caccia alla particella inafferrabile, in un epopea che ricorda, almeno per certi versi, la moderna caccia ad un’altra particella teorizzata per decenni prima di essere (forse) rilevata sperimentalmente, il  dannato bosone di Higgs. La storia della caccia ai neutrini è avvincente e interessante di per sé, e la conservo per un futuro post; vi basti sapere che per quarant’anni le rilevazioni sono sempre state sempre più o meno inconcludenti, finché non è entrata in gioco la Big Science.

Alla fine degli anni ‘80, in Europa, con l’esperimento internazionale GALLEX (Gallium Experiment), un rilevatore contenente metà produzione annuale mondiale di Gallio, viene installato nelle profondità del Gran Sasso.  L’altra metà finisce in un altro rilevatore nelle profondità del caucaso, sponsorizzato da USA e Unione Sovietica, il SAGE (Soviet-American Gallium Experiment).

Nel 1997 vengono pubblicati i risultati degli esperimenti, che per la prima volta riescono a rilevare neutrini solari a bassa energia (nel mentre, dei neutrini erano già stati osservati negli anni 60, ma prodotti da reattori nucleari, non dal sole). Le rilevazioni dei due esperimenti si sposano perfettamente con i modelli previsti dalla catena pp. Per la prima volta nella storia dell’uomo,  avevamo una linea diretta con il nucleo del sole.

Voglio ripetervelo, perché non so se vi è chiaro: guardando degli scintillii su dei rilevatori nelle profondità della terra, possiamo vedere quello che succede nel nucleo del sole, e sapere con certezza perché e come che Darwin aveva ragione e Kelvin torto.

Queste sono le storie di fisica che preferisco: quelle che danno ragione ai biologi.

Taylor, K. (2001). Buffon, Desmarest and the ordering of geological events in epoques Geological Society, London, Special Publications, 190 (1), 39-49 DOI: 10.1144/GSL.SP.2001.190.01.04

Brush, S. (1957). The development of the kinetic theory of gases Annals of Science, 13 (4), 273-282 DOI: 10.1080/00033795700200151

Bethe, H. (1939). Energy Production in Stars Physical Review, 55 (1), 103-103 DOI: 10.1103/PhysRev.55.103

Lo Spiegone: Come sappiamo da dove vengono i bambini

Da dove vengono i bambini? Se non avete nessuna idea della risposta, fate una pausa nella lettura ora, e andate a fare quella chiaccherata di rito con il vostro genitore favorito; se nella vostra vita le cose funzionano come nei film, con larghe metafore di api/fiori e impollinazioni varie, dovreste nonostante tutto avere una migliore idea di come funziona la riproduzione umana della maggior parte delle persone per la maggior parte della storia dell’umanità.

In una vecchia foto di famiglia, babbo bradipo spiega la riproduzione sessuata.

Oh, non fraintendete: che i bimbi vengano dalla vagina della loro madre è un’informazione patrimonio dell’umanità dall’inizio della specie; come i bambini ci finiscano dentro, però, è tutta un’altra questione.

Strano ma vero, sappiamo dare una risposta decente alla domanda “da dove vengono i bambini?” da solo una manciata di secoli.

Magari siete lettori di una qualche setta di cristiani rinati, teocon repubblicani, o ciellini, e neppure riuscite ad immaginare l’atto della copula separato da un atto riproduttivo: sia come sia, sappiate che è ragionevole pensare che l’idea che il sesso sia la cosa che ficca i bambini nell’utero non ha più di una decina di migliaia di anni.

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Lo Spiegone: Il Morbo di Parkinson

Il morbo di Parkinson è una malattia di cui, in un certo senso fortunatamente, si sente parlare abbastanza spesso. Ma i giornalisti tante volte offuscano dietro paroloni le loro spiegazioni, e gli scienziati che con il Parkinson hanno a che fare ogni giorno tendono a dare certe cose fin troppo per scontate. Questo pezzo, se tutto va bene, dovrebbe essere comprensibile a chiunque, non perché banalizza, ma perché andrà un passo alla volta verso una migliore comprensione di come funziona il Parkinson. Quindi incamminiamoci che la strada è lunga.

Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa. Malattia neurodegenerativa è un termine che indica quella categoria di malattie che sono causate da una perdita di funzione dei neuroni, o dalla loro morte. Le altri celebri malattie neurodegenerative sono l’Alzeihmer e la SLA, ma questa è un’altra storia. E’ importante però il fatto che l’origine di queste malattie, la ragione ultima per cui si sviluppano sia, il più delle volte, ignota;  Tuttavia, sappiamo cosa fanno, e come lo fanno, e possiamo usare questo sapere per cercare qualche modo di combatterle. Sapere è potere.

Il morbo di Parkinson è il risultato della morte di neuroni dopaminergici in una parte del cervello detta sostanza nigra, che aiuta a controllare i sistemi motori. Quando abbastanza neuroni di questo tipo muoiono, il paziente sviluppa i tre classici sintomi, quelli che James Parkinson usò per definire la malattia che porta il suo nome: tremori, rigidità muscolare, e lentezza dei movimenti.

Ok, rallentiamo un attimo, che già “morte di neuroni dopaminergici della sostanza nigra “ può sembrare, per alcuni, una supercazzola.

Il neurone è la cellula di base del tessuto nervoso. In un cervello normale ci sono più o meno 20 miliardi di neuroni. Questi neuroni comunicano tra di loro per mezzo di segnali elettrici, e segnali chimici: fin qui, non dovrei aver detto nulla di nuovo. La dopamina è un neurotrasmettitore, ovvero una di quelle sostanze che i neuroni si scambiano tra nelle sinapsi per comunicare.

Una sinapsi è una struttura che permette ad un neurone di comunicare con un altro neurone, o altri tipi di cellule.

Uno schemino efficiente di tutte le parti di una sinapsi. Leggete il testo!

In questo schemino si vede una sinapsi chimica, ovvero una sinapsi che ha bisogno di un neurotrasmettitore (Come la dopamina) per far andare il suo segnale da una cellula all’altra, separate dallo spazio sinaptico. Perché mai le sinapsi hanno un buco in mezzo ? Non avrebbe più senso tenerle collegate invece di doversi inventare questi neurotrasmettitori ? In realtà, no: perché è proprio per via del fatto che le sinapsi chimiche hanno questa particolarità che il segnale si può propagare in una sola direzione e andare da uno specifico punto A, ad uno specifico punto B. In più, le sinapsi hanno un altro vantaggio importante: un impulso nervoso è, sostanzialmente, una scarica elettrica: uno Zzzzap che al massimo può solo svegliare il neurone vicino. Con una sinapsi, invece, a seconda della sostanza che viene rilasciata,  si può avere sia stimoli eccitatori che inibitori, e si può anche modulare, a seconda di quanto neurotrasmettitore di un tipo o dell’altro viene rilasciato, quanto eccitare o inibire il neurone vicino. E’ il massimo della regolabilità.

La dopamina, il neurotrasmettitore che citavo prima, è inibitorio: riduce la trasmissione di segnali.

Il neurotrasmettitore normalmente se ne sta tranquillo per i fatti suoi, in tante vescicole che si accumulano nella cellula prima dello spazio intersinaptico; le vescicole presinaptiche sono sacchettini di membrana cellulare, il neurone le costruisce, le riempie di neurotrasmettitore, e le stipa diligentemente a ridosso della parete, pronte a riversarsi verso l’esterno.

Quando arriva un impulso elettrico al neurone, si apre un canale nella sua membrana. Non è un canale qualsiasi, è un canale selettivo: lascia entrare solo e soltanto ioni calcio. Il calcio si lega ad alcune proteine che sono legate alle vescicole, e le “convince” a svuotarsi nello spazio intersinaptico. Dal momento che le vescicole sono, sostanzialmente, membrana cellulare, semplicemente si fondono e rovesciano il loro contenuto, cioè il neurotrasmettitore, nello spazio sinaptico.

A questo punto il neurotrasmettitore  può diffondere tranquillamente nello spazio: si muoverà fino a trovare un recettore sulla membrana del neurone bersaglio, la membrana postsinaptica. Cos’è un recettore ? Un recettore è una molecola che, in generale, cambia in qualche modo quando riceve il suo specifico trasmettitore, e questo tipo di cambiamento è il messaggio che arriva alla cellula bersaglio.

La dopamina usa un recettore di tipo metabotropico: in pratica, il suo recettore è una proteina che sporge per metà al di fuori del neurone, e per metà al suo interno. Quando la dopamina si lega, il recettore si modifica in vari modi, il che da il via ad una catena di reazioni che aumentano la concentrazione di determinate sostanze all’interno del neurone. Il neurone, in base a quanto e come cambiano queste concentrazioni, sa comportarsi di conseguenza.

All’inizio ho scritto “ morte di neuroni dopaminergici della sostanza nigra “. Un neurone dopaminergico è un neurone che costruisce la dopamina. La dopamina è un neurotrasmettitore che ha effetti importanti per il controllo del movimento. La sostanza nigra è una parte del cervello che si chiama così perché, facendo i vetrini per i microscopi usando sostanza in grado di colorare la dopamina, questa zona del cervello, molto ricca di vescicole piene di dopamina restava molto scura. E fu proprio il vedere nelle autopsie che i malati di Parkinson mancavano di questa zona scura a far sospettare che la malattia avesse qualcosa a che fare con la mancanza dopamina.

Uno spaccato che mostra la sostanza nigra E' uno dei gangli basali del cervello, anche se non è un ganglio. Sì, lo so, nomi a caso.

Semplificando parecchio, la causa dei sintomi del Parkinson è la morte dei neuroni di questa zona. Dei sintomi, bene inteso, perché la causa della sindrome in sé è generalmente ignota.

Perché la morte di questi neuroni della sostanza nigra causa questi sintomi ? Rubiamo uno schema da un libro per capirci.

Uno schema alquanto semplificato delle varie vie di collegamento coinvolte nel Parkinson. Leggete il testo che è meglio.

Lo schema semplifica la relazione tra alcune parti del cervello, ma non è complicato come sembra, perché dobbiamo puntare l’attenzione solo su alcuni punti in particolare per ora.  C’è la corteccia motoria, in alto, che è quella con cui vi muovete volontariamente. Bene. il segnale che vi dice di muovervi arriva alla corteccia motoria da altre zone del cervello, e usa come neurotrasmettitore il glutammato. La corteccia motoria è collegata al corpo striato, che fa da ponte verso la sostanza nigra. Il corpo striato è collegato per due vie alla sostanza nigra: una delle due è mediata da Dopamina, l’altra da Gaba, un altro neurotrasmettitore. Come fa capire l’eloquente segmento in mezzo, se il collegamento  mediato dalla dopamina,viene a mancare tra la sostanza nigra e il corpo striato, il risultato è il morbo di Parkinson.

La dopamina, come dicevamo prima, è inibitoria: se i neuroni  moriranno progressivamente, ci sarà sempre meno dopamina, e quindi sempre meno inibizione. Un grossissimo problema è che i sintomi del morbo di Parkinson si manifestano quando la mancanza di dopamina è molto importante, intorno all’80-90%. Se riuscissimo a fare screening di massa o a trovare un test diagnostico che ci permettesse di individuare rapidamente l’insorgere della malattia, potremmo davvero migliorare e di molto l’efficacia dei trattamenti.

Dopo tutto quello che ho detto, la soluzione sembra apparire spontanea: bisogna trovare il modo per impedire che manchi la dopamina nel collegamento tra sostanza nigra e zona striata. Bene, la proposta è giusta, ma come si fa ?

La soluzione ideale sarebbe impedire la morte dei neuroni dopaminergici. Il punto è che non sappiamo perché muoiono, e quindi dobbiamo puntare a cercare di compensare la mancanza di dopamina. Possiamo provare a dare direttamente dopamina al paziente: una specie di integratore per quello che il suo cervello non riesce a produrre da solo.

Salta però subito fuori una complicazione. Questa complicazione si chiama barriera ematoencefalica, e normalmente non è un problema, ma una cosa estremamente buona e utile: è una barriera fra la circolazione sanguigna (emato) e il cervello (encefalica! Mica diamo a caso i nomi alle cose.), che impedisce che sostanze dannose arrivino al cervello anche se sono nel sangue. Il punto è che fra le varie cose che blocca, oltre a quelle dannose, ci sono anche cose utili dal nostro punto di vista: antibiotici ad esempio, o, purtroppo, la dopamina.

Bisogna allora cercare qualcosa di diverso.

Il farmaco più usato per ovviare a questo problema è la Levo-DOPA. La Levo-DOPA è il precursore diretto della dopamina: una volta che entra in un neurone, questo composto deve subire un singolo passaggio chimico per diventare dopamina. E al contrario della dopamina riesce a passare la barriera ematoencefalica raggiungendo il cervello.

Una visualizzazione di come da un precursore, la tirosina, un amminoacido, vari enzimi vadano a modificare successivamente la molecola fino ad ottenere la dopamina. Il precursore immediatamente precedente alla dopamina, cerchiato in rosso, è la levodopa. I nomi sulle frecce sono i nomi degli enzimi che compiono le varie reazioni. La DOPA decarbossilasi, quella che compie l'ultimo step, è in realtà un enzima molto generico, e quindi viene indicato anche con il nome generico. Questo fatto non è del tutto da trascurare.

Notate come ho detto “il cervello” e non la “sostanza nigra”. Una volta passata la barriera, infatti,la Levo-DOPA diffonde in qualsiasi neurone trovi, non specificamente nei neuroni dopaminergici, in cui normalmente viene fabbricata. E quindi il vostro cervello si troverà a produrre dopamina anche dove non dovrebbe, specialmente dando fastidio ai neuroni che normalmente producono la serotonina, un altro neurotrasmettitori, causando un sacco di effetti collaterali. La serotonina, tra le altre cose, è uno dei neurotrasmettitori che regolano l’umore, e finisce per rendere aggressivi e provocare alterazione nel sonno nei malati.

In più,la Levo-DOPApassa la barriera ematoencefalica, ma in parte minima: circa il 90% del composto, se assunto per via orale, finisce in periferia, e causa altri effetti collaterali al sistema gastroenterico,  come nausea e vomito, e, peggio, nel sistema cardiovascolare, causando aritmie.

Però l’idea è promettente, e per fortuna, la scienza non ha gettato la spugna. Insieme alla Levo-DOPA, vengono somministrati allora composti in grado di bloccare la sua trasformazione in dopamina. Sembra insensato, ma solo perché non ho aggiunto una cosa: gli inibitori (che si chiamano carbidopa e benzerazide) non sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica, il che significa che eviteranno gli effetti collaterali periferici, e aumenteranno la percentuale di Levo-DOPA che non viene trasformata in giro ma riesce a entrare in quantità maggiore al cervello. In questo modo, si è potuto anche ridurre la quantità delle dosi che venivano somministrate, perché a parità di dose in entrata, una quantità maggiore di Levo-DOPA riesce ad arrivare al cervello. La dose efficace aumenta, senza dover aumentare la dose ingerita.

Altri farmaci, più recenti, sono inibitori COMT , bloccano cioè la Catecolo-O-Metiltransferasi, un enzima che  se non viene inibito, cerca di trasformare la Levo-DOPA in altri composti. Il principale tra questi è la 3-O-Metildopa, che compete con la Levo-DOPA stessa nel tentativo di entrare nel cervello, ostacolandone l’assorbimento. Utilizzando gli inibitori COMT, ancora una volta, si riesce a far sì che il cervello assorba una percentuale ancora più alta della Leva-DOPA che  viene somministrata.

Non tutti però rispondono allo stesso modo anche a questo trattamento, e non sempre la stessa dose ha lo stesso effetto su pazienti diversi.  In più, gli effetti della stessa dose sullo stesso paziente cambiano nel tempo. I neuroni che rispondono alla dopamina, infatti, cambiano le loro proprietà: siccome non ricevono più un flusso costante di, ma brevi raffiche, diventano ipersensibili alla dopamina. Il risultato è chela Levo-Dopafinirà per causare gli stessi sintomi della malattia: una persona che ha rigidità improvvisamente si troverà a fare movimenti ampi e involontari (In termini tecnici, diskinesia.)  In più, la progressione della malattia può portare a effetti del tipo on/off. Sempre più neuroni muoiono, e il cervello diventa meno abile a conservare la dopamina, progressivamente riducendo il tempo d’efficacia del farmaco. Nei casi peggiori, l’effetto può svanire anche nel giro di minuti.

A questo punto si può usare un’altra tecnica. Quando la degenerazione dei neuroni è talmente grande da non riuscire a produrre più dopamina a sufficienza, neppure con più materia prima, si può provare ad utilizzare farmaci che si sostituiscono, sul recettore post sinaptico, al normale neurotrasmettitore. Una molecola che si traversa abbastanza bene da dopamina di modo che il neurone post sinaptico creda di star ricevendo un segnale, anche se non è così. Ci sono molteplici farmaci in commercio che seguono questa strada, e sono quasi tutti derivati dall’ergot, un fungo parassita delle graminacee: quello, per capirci, che fa diventare la segale cornuta.  Anche questi farmaci non sono il massimo, purtroppo: aumentano di molto i rischi cardiaci per il paziente.

Per riuscire a sconfiggere il Parkinson, per riuscire a dare una vita migliore ai malati, abbiamo bisogno di capire di più. Sviscerare ogni piccolo dettaglio, analizzare ogni possibile strategia. E per farlo, l’unica cosa che abbiamo è la ricerca scientifica. Le millemila parole spese finora servono fondamentalmente come appello, appello e dimostrazione della potenza della comprensione.

Aiutiamo la ricerca scientifica.

“ Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire. E’ tempo di comprendere di più, per poter temere meno. “ – Marie Curie