Archivio Categoria: Spiegoni

Una quantità ragionevole di domande e risposte su CRISPR-Cas9

*a meno che non siate biologi/biotecnologi, in tal caso è sta roba non è neanche vagamente abbastanza.

Ci sono già un milione di articoli divulgativi su sto tema, fatti più o meno bene; volevo però un archivio con qualcosa che sia che salti fuori un quindicenne interessato che uno che fa la magistrale di biotecnologie, posso copiargli parti diverse di sto articolo, e qualcosa ci capisce.

Ragion per cui la forma è in botta & risposta, potete vedere quello che vi interessa di più saltando qui e là. Se cliccate sulla domanda, si apre la tendina sotto con la risposta.

NB: Work in progress. Ci sono tante altre domande che conto di aggiungere qui (Tipo, roba su cos’è un gene drive, qualcosa sulla regolamentazione, qualcosa su uso somatico vs embrionale, le PGM con CRISPR, una breve storia delle scoperte rilevanti che non sia scritta da uno che deve vincere un processo sulla parternità e ha giganteschi conflitti di interesse in merito, e anche altre cose, ma volevo qualcosa di scritto oggi con una bibliografia per la live su link2universe. L’altro lato positivo è che così effettivamente posso fare crowdsourcing delle domande).
Ma insomma, cos'è sto CRISPR?

 

CRISPR (si legge crisper) o meglio, CRISPR-Cas9, è una nuova rivoluzionaria tecnica di ingegneria genetica che, utilizzando pezzi presi dal sistema immunitario dei batteri, permette di tagliare qualsiasi pezzo di qualsiasi genoma di qualsiasi organismo con una precisione superiore a qualsiasi altra tecnica mai scoperta. Si può usare in vitro, in cellule, in vivo, su tutto dai virus alle piante all’uomo. Costa pure poco, e la combinazione di ste due ne ha già fatto, a 5 anni dalla sua scoperta, una delle tecniche più rivoluzionarie nella storia della biotecnologia.

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Come comunicare la scienza efficacemente – Un bigino

Se il vostro buon proposito per il 2017 è imparare a fare comunicazione scientifica un pochetto meglio, mi chiedo cosa ci facciate qui: ci sono poche persone che hanno meno da insegnare di me in merito. Per fortuna io non sono in cattedra a sto giro.

Lo scorso dicembre, l’Accademia Nazionale delle Scienze Americana ha pubblicato un libello maneggevole di 127 pagine, una via di mezzo tra una guida su come comunicare la scienza in maniera efficace e una serie di obiettivi per chi si occupa di ricerca proprio in quell’ambito. Da lì il titolo, “Communicating Science Effectively: A Research Agenda”. (Potete scaricare aggratisse il preprint come guest, basta un email)

Questo post sarà una versione in italiano e un recap del sopracitato pamphlet, con il sottoscritto che per una volta stringerà i denti tenendo al minimo opinioni non richieste (le riconoscete perché sono in corsivo). Quando posso, i link bibliografici sono in open access o a pre-print, ma purtroppo non tutto è accessibile senza credenziali universitarie. Siccome sto riassunto è comunque voluminoso, se non volete la scomodità del browser potete scaricare una versione in pdf fatta maluccio qui.

Capitolo 1: Usare la Scienza per migliorare la Comunicazione della Scienza

La maggior parte della divulgazione scientifica si basa sull’assunto: “beh, se comunichiamo bene, il pubblico capirà meglio le questioni in cui la scienza ha voce in capitolo e avrà un atteggiamento più scientifico nell’affrontare i problemi”. Questo assunto è puramente un assunto: non ci sono prove che quello che è vero per altri tipi di comunicazioni sia trasferibile alla comunicazione scientifica, specialmente quando si tratta di temi controversi, e la scienza della comunicazione della scienza è roba nuova ed emergente e frammentata. L’assunto è vero o falso? Boh, non lo sappiamo.

Quell’assunto però in realtà nasconde che sotto il titolo “Comunicare la Scienza” stanno un sacco di possibili obiettivi prossimali e finali diversi, ad esempio:

  • Condividere le novità e l’entusiasmo per la scienza, aka il metodo Cheerleader progressista
  • Convincere il pubblico che la scienza è un modo utile di comprendere e navigare il complesso mondo moderno, aka “se ci pensi bene lo scientismo è una buona ideologia”
  • Aumentare la comprensione della scienza e delle conoscenze base per prendere specifiche decisioni, aka il metodo Bertrand Russell “di fronte a qualsiasi problema o nuova filosofia guarda solo ed esclusivamente ai fatti”
  • Influenzare opinioni, decisioni politiche e comportamenti di modo che siano in accordo con le evidenze scientifiche, aka “ma guarda che non lo dico io, lo dice la Scienza ™”
  • Convincere a partecipare alla discussione scientifica gruppi normalmente distanti per trovare soluzioni condivise a problemi collettivi aka un transumanista, un creazionista e un anarco-primitivista si mettono a fare un fishbowl su CRISPR

Qualunque sia il fine ultimo, la comunicazione tra la scienza e il pubblico può ovviamente portare a controversie. A tal proposito è importante quindi rendersi conto che non tutte le controversie scientifiche sono indesiderabili; siccome non siamo vulcaniani, nessuna decisione è mai genuinamente esclusivamente scientifica e se si vuole una scienza sana e la fiducia del pubblico è necessario essere disposti a negoziare, discutere di questioni di valore, fare trade-offs, menate varie. Di come parlare al pubblico quando ci sono controversie pre-esistenti ne parliamo poi nel capitolo 3. Per ora basti sapere che una delle poche cose che son chiare riguardo la scienza della comunicazione della scienza è che quando le cose NON sono ancora controverse la comunicazione scientifica è più efficace se gli scienziati discutono alla pari con il pubblico.

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Nella tela della selezione di gruppo

Intorno al 1960 l’evoluzione aveva trionfato. Forse anche grazie alla rivoluzione culturale, tolti pochi baluardi come la bible belt del sud degli USA per ragioni più politiche che intellettuali, la teoria proposta appena un secolo prima da Darwin si era definitivamente cristallizzata nella Sintesi Moderna non solo negli ambienti intellettuali, ma anche nei programmi scolastici. Si era arrivati, 20 anni dopo il libro omonimo di Julian Huxley, ad avere un sistema completo e integrato che metteva insieme Darwin, Mendel, selezione naturale, genetica di popolazione e deriva genetica. Le principali novità teoriche erano più vecchie, degli anni trenta e quaranta, ma erano finalmente passate attraverso il setaccio che separa le torri d’avorio dalla cultura popolare.

Il problema è che quando si passa attraverso un setaccio, si perde sempre qualcosa. E tra le cose che rimasero al di sopra della maglia, e che invece sono tornate di moda nell’ultimo periodo, c’è la selezione di gruppo, che ultimamente è tornata alla ribalta (purché per ultimamente intendiate “negli ultimi trent’anni” e per ribalta intendiate “Vecchi barbosi si scannano sulla validità del concetto”).

Facciamo però un passo indietro, e partiamo dall’inizio invece che in media res. E come spesso succede in questo campo, per partire dall’inizio bisogna andare dal barbuto per eccellenza: Carletto Darwin.

La teoria dell’evoluzione darwiniana originale, quella rivoluzionaria dell’origine delle specie, è inquadrata in termini di individui. E’ l’insetto che si nasconde meglio che si riproduce di più e trasmette le sue capacità mimetiche ai figli: è un singolo specifico insetto (Prendiamoci confidenza, chiamiamola Genoveffa) che trasmette il tratto alla prole. I figli di Genoveffa hanno un vantaggio locale perché sopravvivono meglio di tutti gli altri insetti non-genoveffini con cui hanno un ambiente condiviso. Quello che la selezione naturale “vede” è Genoveffa e la sua prole individualmente per decidere se sono mimetizzati bene o no.

Se teniamo questo livello di zoom, tratti che aiutano altri individui non sono localmente vantaggiosi. Genoveffa decide, invece di deporre uova, di aiutare a crescere i figli dei vicini: per quanto l’azione sia per il bene del gruppo di insetti che vivono in uno stesso luogo, a livello individuale è localmente svantaggiosa, perché non fare figli significa che il tratto “aiutiamo gli altri” di Genoveffa muore con lei.
L’evoluzione di tratti vantaggiosi per il gruppo ma svantaggiosi per l’individuo sono un problema teorico non semplice per la teoria dell’Evoluzione, al punto che è una di quelle cose su cui i creazionisti si buttano alla disperata ricerca di buchi. Darwin, che di sicuro era più sveglio di me, si rese subito conto del problema quando si trovò a doverlo affrontare parlando di morale umana ne “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”. Darwin scrive (parafraso leggermente per non dover citare due pagine intere) che per quanto essere più “morali” e “altruisti” non conferisca alcun vantaggio a ciascun individuo e ai suoi figli rispetto ai membri della sua stessa tribù, dà un grande vantaggio al suo gruppo rispetto ad altre tribù. Una tribù in cui la gente si sacrifica per il bene comune perché piena di empatia coraggio e obbedienza sostituirà una tribù di stronzi egoisti, e anche questa è selezione naturale.

Darwin, insomma, non aveva problemi a dire: “Sì, beh, guardiamo l’individuo e la lotta per la sua sopravvivenza, però quando serve possiamo anche guardare la lotta tra gruppi e la loro sopravvivenza”. David Sloan Wilson, che è il principale teorico moderno in favore di questa idea, la chiama “selezione multilivello”.

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Sferoidi oblati, triangoli e orologi: la misura della terra né piatta né tonda

Recentemente su Italia Unita Per La Scienza è uscito un post in due parti (Prima e Seconda) sul mito della terra piatta nelle ere. Per una fortuita coincidenza, ho iniziato da poco a leggere il Ciclo Barocco di Neal Stephenson, una mostruosità da 3000 e rotte pagine di romanzo storico sulle origini della scienza illuminista scritto da un famoso autore di fantascienza; una lettura leggera sotto l’ombrellone.

Che c’entra? C’entra perché (Spoilers?) uno dei personaggi del romanzo, pre-Newton, utilizza un pendolo per dimostrare che la forza di gravità diminuisce allontanandosi dal centro della terra. Il collegamento resta oscuro (mancano un po’ di passaggi) ma ho fatto l’associazione di idee con il post di IxS visto che è per merito di un pendolo che si è passati dal considerare la terra una sfera al più accurato sferoide oblato. Ergo, prima che mi dimentichi del tutto come si fa a scrivere visto che son passati mesi dall’ultimo post, uno spiegone su come sappiamo che la terra non solo non è piatta, ma non è neanche una sfera.

Partiamo dall’ultima parte del trittico del titolo: gli orologi. Intorno al quattordicesimo secolo, in Italia, nei campanili, cominciano ad apparire orologi con scappamento a verga. Lo scappamento è, per farla semplice, il meccanismo che determina ogni quanto l’orologio ticchetta; lo scappamento a verga ha una corona coi denti a seghetto e una verga che, con due palette, blocca la rotazione della corona in passi fissi della durata di un tic.  Il problema intrinseco di questo tipo di meccanismo è che la regolarità del ritmo dipende moltissimo dall’attrito del sistema: se i denti della corona si consumano, o una paletta impiega anche una frazione di secondo in più del dovuto a spostarsi, o la verga non è ben lubrificata, ecco che subito cominciano i casini e l’orologio perde rapidamente di precisione.

Lo schema di uno scappamento a verga, da Henry Evers (1874), A Handbook of Applied Mechanics, William Collins & Sons, London, fig.58, p.153 Pubblico Dominio

Anche gli orologi ad acqua, l’altra alternativa popolare del periodo, che sfruttavano la regolarità del flusso dell’acqua attraverso un poro, hanno lo stesso problema: il flusso dell’acqua non è mica poi detto che sia così perfettamente regolare. E se hai orologi che scattano a intervalli irregolari, misurare il tempo è roba da pazzi. Galileo, che per i suoi esperimenti dovette accontentarsi degli orologi di questo tipo, sapeva che facevano acqua da tutte le parti (ehm). GG sapeva anche, ed era forse una delle prime persone nella storia dell’umanità a saperlo, che il moto oscillatorio regolare di un pendolo poteva essere la soluzione. Cosí, si impegnò a progettare uno dei primi orologi a pendolo del mondo. Sfortunatamente per lui il suo progetto non sarà realizzato se non parecchio dopo la sua morte, lasciando l’onore (e l’onere) di costruire la prima pendola funzionante a Huygens.
Christian Huygens sarebbe stato comunque uno dei più grandi fisici del suo tempo anche se, nel 1656, non avesse costruito uno strumento che quel tempo lo misurava. Il suo primo modello perdeva non più di un minuto al giorno; successive iterazioni portarono il ritardo al massimo a 10 secondi per die, una precisione senza precedenti. Parte del successo di Huygens dipese dal fatto che determinò matematicamente quanto dovesse essere lungo un pendolo perché una oscillazione completa durasse un secondo, nell’assoluta convinzione che questa lunghezza sarebbe stata una costante universale, e il pendolo avrebbe oscillato con il medesimo periodo ovunque.

C’era solo un piccolo problema: la sua costante non era veramente costante. Immenso miglioramento sui ticchettatori precedenti, di sicuro, ma non costante universale. Fu astronomo francese, Jean Richer, a far nascere i primi dubbi sull’universalità del pendolo.

Jean Richer fa le sue misurazioni in Guyana. Da un incisione di Sebastein Leclerc, pubblico dominio

Richer era a Cayenne con Cassini, il più famoso astronomo francese, per cercare di misurare precisamente il parallasse di marte. Il suo orologio a pendolo, fondamentale per la riuscita della misura, che funzionava perfettamente ed era sincrono a Parigi, aveva però perso più di due minuti rispetto alle pendole locali a Cayenne nel giro di sole 24 ore. “Ben strano“ pensò probabilmente Richer, che decise di pubblicare anche questo fattoide nel suo rapporto alla Franca Accademia delle Scienze, che prese la cosa terribilmente sul serio. Presto l’anomalia fu verificata da fonti indipendenti, e i due più importanti fisici del tempo, Huygens e Newton, si trovarono a competere per cercare di spiegare cosa non tornava.

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Tutto causa il cancro (Il bias dei cappelli bianchi)

Avete mai notato come le sezioni salute della maggior parte dei giornali (e blog) siano ormai intente nell’impresa titanica  di dividere ogni singolo alimento e ingrediente in cosa fa venire il cancro e cosa no?

E, non fraintendetemi, capisco il principio che c’è dietro. Il cancro è probabilmente una delle cose più terrificanti per la maggior parte delle persone, e sei vuoi leggere, o beccarti il click, o sei genuinamente interessato a morire il più tardi possibile e vivere nel mentre restando il più in salute possibile, ecco che la nutrizione diventa sproporzionatamente importante.

Così, su nelle torri eburnee è stata inventata l’epidemiologia nutrizionale, una disciplina legittima che si trasforma in circa un migliaio di pubblicazioni scientifiche l’anno, che, apparentemente, si trasformano in un migliaio di articoli pop che senza la benché minima nuance si trasformano in articoli tipo “Il cibo x fa venire il cancro” e “l’ingrediente y protegge dalle malattie cardiache”, etc. E di conseguenza non c’è da meravigliarsi se i consumatori sono confusi sotto questo bombardamento di informazioni, e vanno o in panico per ogni nuovo “rivoluzionario studio” o ad un certo punto diventano scettici e cominciano a sbattersi le palle.

A questo si può aggiungere che in Italia non serve quasi nessuna qualifica specifica per farsi chiamare Nutrizionista; secondo l’Ordine dei Biologi, basta essere iscritti all’albo per poter potersi definire tale; il che significa che sebbene io mi occupi di evoluzione e genetica di popolazione domani potrei mettere “Dott.  Biologo Nutrizionista” forte dei 3 crediti scarsi di alimentazione umana nella mia carriera accademica, e nessuno potrebbe legalmente dirmi niente. Il fatto di ottenere prima una specifica qualifica in ambito di alimentazione è semplicemente un consiglio o una raccomandazione dell’ordine. Questo non significa che i biologi nutrizionisti (o i dietologi, a cui si applicano più o meno le stesse regole, con l’aggravante che il termine non è legalmente protetto) siano necessariamente profittatori incompetenti e senza scrupoli, ma, ad esempio l’Associazione Nazionale Dietisti ha recentemente pubblicato un report, in cui esprime preoccupazione  per  ” […] l’eterogeneità e la numerosità degli accessi (ai master in nutrizione, ndr), aperti contemporaneamente a molteplici tipologie di laureati con provenienze formative e ambiti professionali molto diversi tra loro, e molti dei quali senza alcuna competenza di base in ambito nutrizionale e sanitario “. E per quanto improvvisarsi senza il benché minimo di qualifiche sia più o meno il tema conduttore di questo blog, farlo per profitto sparlando di nutrizione penso sia come minimo poco etico; e anche quando viene fatto in buona o buonissima fede e non per mero guadagno, rischia di perpetuare  perniciosi miti da una supposta posizione di autorità.

(N.B: Non sono assolutamente sicuro che sia ancora così da quando esistono le lauree specialistiche in biologia della nutrizione, ma lo era appena 4-5 anni fa e quelle lauree già esistevano, quindi se dovessi sbagliarmi non c’è bisogno di divorarmi nei commenti: al massimo quello che sto dicendo è out-of-date. se così fosse, fatemi sapere)

E ovviamente, questa cacofonia di consigli e questa iper-medicalizzazione della dieta crea una nuova enorme nicchia per ciarlatani e pseudoscienziati di ogni tipo per approfittarsi di chi vorrebbe solo stare meglio (o essere più magro).

Breve parentesi metodologica su come funzionano gli studi epidemiologici sulla nutrizione: se già sapete come funziona, e siete familiari con termini come studi longitudinali o meta analisi, skippate con gusto la prossima parte.

Un gattino puccioso segna l’inizio e la fine della parte skippabile dai lettori “avanzati”. Photocredits: ” <3KawaiiCloud<3 ” via Flickr

Un gattino puccioso segna l’inizio e la fine della parte skippabile dai lettori “avanzati”.

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Perché esistono così tanti fiori ?

Arriva San Valentino, e come spesso succede, orde di amanti razziano campi e fioristi alla ricerca dell’organo riproduttore più adatto da regalare alla propria/o bella/o.  Nel mondo occidentale, la scelta ricade tipicamente sulla rosa rossa, che in questi giorni viene pagata a peso d’oro, ma la scelta potrebbe essere, almeno in teoria, ben più varia. Si stima che esistano circa 350 mila specie di angiosperme, cioè piante con fiore, al mondo.

Certo, potete regalare alla vostra morosa un mazzo di rose, ma quanto sareste più cool regalando un fiore di  Hydnora africana ?

Hydnora è un genere di piante parassite. Quello che vedete sporgere, tipo mano a tenaglia di un lego, è il fiore; intorno, nere, sono le radici marcescenti della pianta a cui il fiore sta lentamente succhiando la vita. Una perfetta descrizione della vita di coppia.

Hydnora è un genere di piante parassite. Quello che vedete sporgere, tipo mano a tenaglia di un lego, è il fiore; intorno, nere, sono le radici marcescenti della pianta a cui il fiore sta lentamente succhiando la vita. Una perfetta descrizione della vita di coppia. Photocredits: D.L. Nickren, Southern Illinois University

Perché esistono così tanti fiori? Beh, l’idea di base è semplice: la teoria dell’evoluzione, già dai tempi di Darwin, prevede che la pianta, non potendosi muovere, scelga un il particolare impollinatore da attirare perché possa trasportare il suo polline ad un altro fiore. Più il fiore è specifico e strano, più attirerà una specifica e strana specie di impollinatore, ed eviterà il rischio di ricevere polline di specie con cui non ha intenzione di incrociarsi. E’ il cambiamento da un impollinatore all’altro che causa i più massicci cambiamenti nella morfologia e nella struttura del fiore, che si sforza di isolarsi riproduttivamente dai suoi cugini più stretti.

” Hey, è proprio una bella ipotesi. Sarebbe anche bello se avessi qualche prova a sostegno, mate. ” ( Non so perché, ma quando mi immagino lo scettico di turno che viene a rompere le uova nel paniere ha un marcato accento Cockney )

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Come sappiamo perché il cielo è blu

Una delle domande tipiche dello stereotipico bambino curioso, quello che esiste più come artificio retorico che come reale individuo, è ” Perché il cielo è blu ? “.

La risposta del genitore tipico che torna a casa dopo una tipica giornata di lavoro è ” Non fare domande stupide “.

La risposta esatta è, notoriamente, ” É per via lo scattering di Rayleigh combinato alla risposta fototipica dell’occhio umano”.

Ma la stragrande maggioranza delle persone che sono esistite nel corso della storia umana non avevano neanche per sbaglio una risposta credibile alla tipica domanda dei bimbi curiosi. Può darsi che ” Perché il cielo è blu ? ” sia una di quelle domande ataviche che ossessionava i nostri antenati, ma una delle prime persone a lasciarci scritte le sue elucubrazioni sul perché del colore del cielo è il solito Aristotele, una persona che mai si sottrasse dall’opinare su tutto l’opinabile.

Aristotele era estremamente affascinato dal cielo e specialmente dalla meteorologia, perché secondo lui era la disciplina in cui la perfetta regolarità delle sfere celesti si scontrava con il caos e l’imprevidibilità del mondo terrestre. Resosi conto di quanto fosse un campo incasinato, Aristotele decise di scrivere un intero libro sulla questione, la Metereologica, fondando, tanto per cambiare, una intera disciplina.

Leggendo Aristotele, però, dobbiamo stare attenti ad una peculiarità linguistica che spesso finisce per essere “Lost In Translation”. Quasi da nessuna parte nella letteratura greca il cielo (o il mare) viene descritto utilizzando l’aggettivo blu: famosamente, nell’Odissea Omero dice che Ulisse affronta un mare nero come il vino. Quello che viene perso nella traduzione è il fatto che per i greci la luminosità di un colore era molto più importante della tonalità. Così, il termine kyanos (da cui il moderno ciano, il blu delle stampanti), viene utilizzato alternativamente per descrivere il colore del ferro, i capelli di Ettore, degli smeraldi, degli iridi e, tra le altre cose, il cielo.

Platone, il maestro di Aristotele, aveva un’idea molto semplice come teoria del colore. Gli occhi di ciascuno di noi sparano raggi visivi in ogni direzione, che poi andavano a toccare meccanicamente il bersaglio, e rimandavano indietro la percezione sulla base delle particelle di cui erano composte: più chiaro se erano piccole, più scure se erano grandi, e diversamente colorate a seconda che contenessero diverse quantità di aria/acqua/terra/fuoco, perché la chimica era più facile una volta.

Sono anche pedanti uguali, lui e Ciclope.

Sono anche pedanti uguali, lui e Ciclope.

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Le api e il sesso (ma niente fiori)

Il caro Alberto mi scrive:

Cara Prosopopea,
visto che ami gli insetti e l’ape è un insetto figo volevo porti questo spunto di possibile articolo/spiegone: Ho scoperto oggi che il fuco nasce da un uovo non fecondato per cui ha un corredo aploide, diciamo n. Sua sorella futura regina ha un corredo diploide 2n (frutto dell’unione fra regina madre e vecchio fuco). Quindi se la vecchia regina si accoppiasse con suo figlio creerebbe un clone di se stessa?

Avendo promesso di risponderti, e avendo un po’ di ritardo rispetto a questa promessa, ho deciso di darti 2 risposte, un pochettino diverse, in mezzo ad un po’ di contesto e spiegoneria.

La prima risposta, quella breve, è no.

La seconda risposta è un pochettino più complicata, e la dividiamo in 3 parti: Quando, Perché e Come.

Negli esseri umani il sesso è determinato dalla presenza o l’assenza dei cromosomi X e Y, come certamente sapete. Gli imenotteri, il gruppo di insetti che include api, vespe e formiche funziona in maniera differente, ma ciò non toglie che un sacco di cose che sappiamo sulla determinazione del sesso, storicamente parlando, viene dagli insetti.

Partiamo quindi dal Quando. (Alberto caro, se non volevi il pippotto storico ti conveniva chiedere ad altri.)

Nel 1845 un prete cattolico, Johann Dzeirzon, si rende conto che se durante il volo nuziale l’ape regina resta vergine la sua progenie contiene solo maschi. Evidentemente era particolarmente recettivo all’idea di immacolata concezione. Può sembrare una osservazione da poco o poco interessante, ma tenete presente che si tratta del primo metodo di determinazione del sesso trovato empiricamente. Del resto, l’idea imperante all’epoca era ancora quella di Aristotele, secondo la quale il sesso del nascituro dipendeva dalla temperatura dello sperma paterno. L’idea è quasi giusta per certi rettili, ma veniva indiscriminatamente applicata a ogni animale, uomo incluso. Tieni anche presente che questa osservazione arriva almeno 50 anni prima della scoperta dei cromosomi sessuali, prima della scoperta dei cromosomi in generale, e prima che fosse chiaro in alcun senso il collegamento tra quegli strani bastoncelli che si coloravano e l’ eredità genetica.

Dzierzon in un ritratto del 1901. Questo padre dell’agricoltura moderna era un piantagrane non da poco, e per via del suo coinvolgimento in politica, del suo rifiuto dell’infallibilità papale e della sua scoperta della partenogenesi nelle api (che a quanto pare non piaceva alla chiesa) fu scomunicato nel 1873.

Dal momento che, come ho accennato altre volte, fissare i cromosomi su un vetrino era un bel casino perché ci volevano tante cellule in divisione, gli animali con un ciclo vitale veloce erano preferiti. Cosi’, mentre qualcuno si focalizzava sui girini di anfibi vari o vermi piatti, un biologo tedesco di nome Hermann Henking si mise nel 1880 a lavorare con le vespe. Con il suo primitivo microscopio ottico si rese conto che negli spermi di vespa ogni tanto ci sono 12 cromosomi invece di 11. Seguendo una antica tradizione,dal momento che non riusciva a capire bene che cosa fosse questo cromosoma estraneo, decise di battezzarlo fattore X. Il tuo cromosoma X si chiama X, caro Alberto, per merito (colpa?) delle vespe di Henking.

Il cromosoma X non è a forma di X più di qualsiasi altro cromosoma, per quanto un sacco di gente sia convinta che il nome venga dalla forma. Photocredits: Winona State University, winona.edu

Henking per la verità intuì subito che quel cromosoma extra poteva avere a che fare con il sesso, ma per confermare la sua idea si mise a caccia di un equivalente fattore X nei grilli. Purtroppo per lui, sebbene nel 20% delle specie animali la determinazione del sesso funziona come le vespe i grilli utilizzano un altro sistema, e la sua ricerca si rivelo’ infruttuosa.

Agli inizi del ‘900, però, la sua intuizione fu confermata e l’X trovato in molte altre specie, uomo e api incluse. Sapendo che tutte le api operaie erano femmine e sorelle, i maschi nascevano senza che la madre si accoppiasse, e che c’era di mezzo il fattore X, si dedusse infine che le api (e le vespe e le formiche) determinavano il loro sesso per aplodiploidia.

Mentre nell’essere umano, indipendentemente dal sesso, tutti hanno due copie dei  cromosomi non sessuali (altrimenti detti autosomi), nelle api hai bisogno di due copie di tutto per essere femmina, mentre se ne hai una sola sarai solo un fuco.

Il che da’ origine a tutta una serie di paradossi per chi e’ abituato ai nostri standard di genealogia. Un fuco non ha un padre (perché se lo avesse sarebbe femmina), ma ha un nonno (perché sua Nonna, la regina madre, si e’ dovuta accoppiare con un maschio per generare mamma), e a sua volta non avrà mai figli maschi (se si accoppia tutto quello che feconda diventerà femmina, e con le uova non fecondate, che diventano maschi, non avrà mai a che fare), ma potrà avere nipoti maschi.

Ma, nonostante ciò, caro Alberto, un fuco non è un clone di sua madre, ne del nonno. Un clone, come due gemelli omozigoti, ha esattamente lo stesso genoma della sua sorgente. Quando l’ape regina fa le sue uova, le fa comunque per meiosi, e durante questa divisione i cromosomi si ricombinano e mischiano con il crossing over. Quindi un fuco sarà un po’ sua madre e un po’ suo nonno, ma mai un clone dei due.

Questo è l’endofallo del fuco, rivoltato come un guanto da un bravo apicoltore che ne vuol cogliere lo sperma ben indicato nella foto. Non c’entra con il discorso al momento ma ci tenevo che lo vedessi, caro Alberto. Photocredits: UC Davis Department of Entomology

Per rispondere specificamente alla tua domanda, se la regina madre si accoppia con suo figlio, maschio aploide, succede questo.
Il gamete maschile, aploide, contiene i geni della regina madre, ma ricombinati tra le due copie (che vengono da sua mamma e da suo nonno) quando la regina madre ha fatto per meiosi l’uova del fuco futuro marito.
L’uovo della regina contiene anch’esso i geni della regina madre, ma ricombinati anch’essi non solo tra loro per meiosi, ma anche con i geni del fuco, che i realtà sono i geni di mamma e nonna.
Se la cosa va avanti per tante generazioni diventa un problema, come al solito negli incroci tra consanguinei, ma le varie ricombinazioni omologhe impediscono che si arrivi ad un clone.  (Ti farà però piacer sapere che ci sono specie in cui può avverarsi il tuo scenario, con generazione di cloni: la madre deve essere però aploide. Succede, ad esempio, in certi afidi)

Anzi, a dirla tutta, l’ape regina è più imparentata con le sue sorelle che con le sue figlie , e qui si passa al perchè il sesso delle api funziona cosi, e ciò addirittura si collega al perché le api hanno una regina e una gerarchia tutta strana.

Darwin nell’Origine delle Specie scrive una di quelle cose che ai Creazionisti piace citare a sproposito fuori dal contesto:

I […] confine myself to one special difficulty, which atfirst appeared to me insuperable, and actually fatal to my whole theory. I allude to the neuters or sterile females in insect-communities:  for these neuters often differ widely in instinct and in structure from both the males and fertile females, and yet, from being sterile, they cannot propagate their kind.

Mi limito ad una particolare difficoltà, che all’inizio mi sembrava insuperabile, e a dire il vero fatale per la mia intera teoria. Alludo alle formiche operaie o sterili: poiché queste sono differenti nella struttura sia dai maschi che dalle femmine fertili, eppure, essendo sterili, non possono propagare i loro caratteri.

” Ohibo’ ! Le api distruggono la Teoria dell’evoluzione ” dice a questo punto il creazionista sprovveduto, dimenticandosi “”‘misteriosamente”””  di leggere i paragrafi successivi, in cui Darwin propone la sua soluzione, di cui metto un estratto piccino picciò considerato che Carletto è un poco verboso:

It will indeed be thought that I have an overweening confidence in the principle of natural selection, when I do not admit that such wonderful and well established facts at once annihilate my theory. In the simpler case of neuter insects all of one caste or of the same kind, which have been rendered by natural selection, as I believe to be quite possible, different from the fertile males and females, in this case, we may safely conclude from the analogy of ordinary variations, that each successive, slight, profitable modification did not probably at first appear in all the individual neuters in the same nest, but in a few alone; and that by the long-continued selection of the fertile parents which produced most neuters with the
profitable modification, all the neuters ultimately came to have the desired character.

Si penserà che ho una fiducia smisurata nel principio della selezione naturale vedendo che mi rifiuto di ammettere che tali meravigliosi e ben noti fatti distruggono completamente la mia teoria. Nel caso più semplice di insetti sterili della stessa casta o dello stesso tipo, che devono essere stati resi differenti dai maschi e dalle femmine fertili, come io credo, dalla selezione naturale, possiamo dire per analogia con gli altri tipi di variazioni che ciascuna modifica successiva, leggermente favorevole non è apparsa in tutti gli individui sterili in un singolo nido, ma solo in pochi; e per lunga e continua selezione dei genitori fertili che producevano più figli sterili con le modificazioni profittevoli, tutti gli sterili alla fine hanno sviluppato il carattere desiderato.

(Capitolo 7, Istinto)

Darwin in realtà, come spesso succede, si sbaglia nei dettagli, ma l’intuizione giusta di fondo c’è.

Le api operaie non sono sterili, e anzi ogni tanto depositano di nascosto qualche uovo. Per fortuna, però, il servizio di sicurezza interno funziona quasi sempre perfettamente, la larva viene cannibalizzata e la femmina uccisa per il suo crimine. Per il bene di tutti.

Le api sono animali eusociali: cioè formano vere società con gerarchie, caste, generazioni che convivono tra loro e altruismo.

Altruismo che funziona ed esiste perché i geni delle api sono egoisti.

L’idea si basa sulla teoria della Fitness inclusiva di W.D Hamilton, resa celebre da Dawkins nel libro che ho namedroppato prima.

La fitness, in gergo evolutivo, e’ la misura ideale di quanto un organismo è adatto al suo ambiente. siccome questa è una cosa difficile da misurare, anche perché include un sacco di idee abbastanza astratte, come surrogato per stimare la fitness si guarda a quanta prole ha una coppia. Se hai piu’ figli che sopravvivono meglio e competono con piu’ successo significa che i tuoi geni saranno sparsi in giro di piu’, cioè, in un certo senso, sei piu’ adatto al tuo ambiente.

Se guardiamo a questa idea pensando agli individui, però, non ha senso quello che fanno le api. Perché io, ape operaia, dovrei sopportare il fatto che le altre mi cannibalizzino i figli, mentre la regina fa uova ovunque?  Non sarebbe meglio una rivoluzione operaia che permetta alle sorelle di diventare proletarie?

La ragione per cui la risposta è no sta nell’aplodiploidia, nei maschi senza padre di cui abbiamo parlato prima, ma il segreto sta nel guardare la situazione come se fossimo geni che vogliono dominare il mondo.

Tu, caro Alberto, condividi circa il 50% dei geni con i tuoi genitori e con i tuoi eventuali fratelli e sorelle. Ma tu sei diploide.

L’ape regina, come tua madre, passa il 50% dei geni alle sue figlie (l’altra metà sarà del fuco). Ma, dal momento che la mamma della regina e’ diploide, ma il papà ha solo la metà dei cromosomi, condivide con le sue sorelle il 75% dei geni. Cioè, a dirla in un altro modo, è piu’ imparentata con le sorelle che con le figlie.

Diciamo ora che sei un gene egoista. A te non frega nulla degli altri geni, o dei desideri di maternità dell’ape operaia: vuoi solo diffonderti il piu’ possibile nella popolazione, vuoi essere in tutte le generazioni future.

Hai due strategie. Se sei egoista ma un po’ scemo, allora cercherai di costringere il tuo organismo a fare piu’ figlie possibili. Ogni volta hai il 50% di probabilità che una copia di te ci sia nel nuovo individuo.

Se invece sei piu’ furbo, sfrutterai il fatto che c’è già il 75% di probabilità che una tua copia sia nelle tue sorelle, e quindi, per conquistare il mondo il tuo piano sarà di far fare piu’ figli possibili a tua madre, e impedire che tua sorella faccia dei nipotini .

Questo piano diabolico massimizza la Fitness Inclusiva, cioè non solo il tuo egocentrico ed individuale successo riproduttivo, ma anche il successo riproduttivo degli altri che condividono gli stessi geni. Dall’egoistica voglia di autopropagazione dei geni nasce un sistema in cui, altruisticamente, le api dedicano la loro vita al supporto della famiglia.

Ad esempio cannibalizzando le larve nei momenti di scarsità di cibo. Ah, il cannibalismo, pilastro della civiltà.

Come avrai già intuito, caro Alberto, questo sistema può evolversi  a due condizioni. La prima è che la mamma regina non metta le corna al papà. E, nella maggior parte delle specie, l’ape regina durante il suo volo nuziale non solo si accoppia con un solo fuco, ma lo sperma di cui fa incetta viene conservato n organi appositi per tutta la vita, garantendo l’egual grado di parentela di tutte le api operaie.
L’altra condizione è che i maschi siano prodotti solo per partenogenesi e non possano sabotare l’equilibrio 75%-50% di geni in comune.

Il che è un po’ più un problema.

Ti devo fare una confessione, caro Alberto. Prima, quando ti dicevo che i maschi sono aploidi, non ti ho mentito, ma ho fatto qualcosa di necessario per quanto riprovevole: ho semplificato le cose. Perché per quanto questa sia la risposta un po’ piu’ complicata di quella breve, la realtà è ancora un po’ più complicata.

Quando ho parlato dell’aplodiploidia ho momentaneamente glissato sul come. Perché avere la metà dei cromosomi ti fa diventare maschio? In fondo hai tutto quello che serve per fare una femmina, solo che in singola invece che in duplice copia. Perché non ci dovrebbero essere maschi diploidi?

Ci sono maschi diploidi. Saltano fuori, ogni tanto, nelle linee pure degli apicoltori. Far incrociare di continuo gente strettamente imparentata fa sempre saltare fuori roba interessante.

Il maschio diploide salta fuori da un uovo fertilizzato, il che significa che ha un papà, oltre che una mamma. Avrà una copia di ciascun cromosoma dalla regina, e una dal fuco.Contando semplicemente i cromosomi dovrebbe essere una femmina, ma abbiamo un maschio fatto e finito con un endofallo che aspetta solo di essere rivoltato. I cromosomi ci hanno tradito: non sono direttamente loro a decidere il sesso. Siam caduti in una trappola, dando per scontato che le due cose erano l’una causa dell’altro, quando invece la situazione era un po’ più complicata. Dal momento che la comparsa di maschi diploidi era legata all’endogamia, i ricercatori intuirono che c’era di mezzo uno specifico che locus poteva essere in due stati, e, a seconda della sua condizione, determinava il sesso.
La dominanza e la recessività, in questo caso, non c’entrano. Quello che conta è l’eterozigosi o l’omozigosi, ossia avere due o differenti copie uguali su i due cromosomi omologhi. L’ipotesi era semplice: se sei un maschio, hai soltanto una copia del gene, e quindi sei per forza omozigote, e ti svilupperai in un maschio. Un uovo fecondato, invece, ha due copie del gene determinante il sesso: se sono differenti, diventi una femminuccia. Se sono uguali, diventi un maschietto. Sempre che non muori prima. Perché, non a caso, avere due copie del gene identiche è embrioletale per lo sfortunato maschio in fieri, a meno che non ci sia una qualche mutazione che mascheri l’effetto. In quel caso, può nascere un maschio diploide. Che, poco dopo la nascita, sarà cannibalizzato dalle altre operaie. Come si evolvono questi meccanismi molecolari e come cambiano nel tempo è una questione interessante, che però terremo per un’altra volta visto che questo articolo è già abbastanza massiccio.

La stretta somiglianza genetica fra generazioni a cui fai riferimento nella tua domanda, caro Alberto, è il collante che ha permesso l’evoluzione particolare della società delle api. E’ difficile mettersi nei panni dei geni egoisti che promuovono l’altruismo, ma la cosa bella è come una volta indossati quegli occhiali tutto comincia ad essere più chiaro, e i pezzi del puzzle ad incastrarsi. Non perfettamente, certo, perché ci sono ancora vagonate di roba da scoprire sull’evoluzione dell’eusocialità, ma abbastanza perché il cervello faccia “click”, quel click che dà il gusto di capire le cose.

Tranne il cannibalismo. Il cannibalismo proprio non lo capisco.

Brown SJ (2003). Entomological contributions to genetics: studies on insect germ cells linked genes to chromosomes and chromosomes to mendelian inheritance. Archives of insect biochemistry and physiology, 53 (3), 115-8 PMID: 12811764

Mackensen O (1951). Viability and Sex Determination in the Honey Bee (Apis Mellifera L.). Genetics, 36 (5), 500-9 PMID: 17247362

Come la genetica quasi ammazzò Darwin

Oggi a pranzo è saltato fuori un discorso particolare. Stavo avvertendo altri biologi della conferenza di mercoledì di Massimo Pigliucci con lo stesso distacco emotivo con cui una dodicenne parla di un imminente concerto di Justin Beiber, con tanto di squee e polso accelerato. Sebbene la platea mi fosse favorevole, almeno rispetto allo standard delle persone su cui vomito saccenza, il messaggio non mi sembrava accolto con particolare entusiasmo. Più che altro perché gli infedeli in questione non sembravano sapere chi fosse Pigliucci.

Quel gran figo di Massimo Pigliucci. Vi avviso, tutte le foto nell’articolo resto dell’articolo riguardano biologi, funzioni matematiche o insetti.

“Ma dai, è uno di quelli della sintesi estesa!” Esclamo, con quel tono che sembra voler dire “la tua ignoranza è sconvolgente”, ma che in realtà vuol sottointendere “ti compatisco”. Perché mi piace farmi amica la gente.

Così sto saccentando spiegando qua e là che cosa vuol dire sintesi estesa, quando una brillante osservazione arriva da uno dei miei interlocutori: “sintesi estesa” è, a guardarlo bene, un ossimoro. E non ci avevo mai fatto caso, una di quelle cose che si nascondono in
piena vista.

Ovviamente ossimoro non lo è poi di fatto, perché sintesi estesa si rifà nel nome alla ben più famosa sintesi moderna, quel famoso neodarwinismo degli anni 40… come sintesi di che? Non avete fatto un esame di storia della biologia? Come no? Ah invece tu si e comunque non hai idea di cosa sto parlando? Beh ma la insegnano proprio a cazzo…

In realtà sto millantando, perché non sono neanche eccessivamente sicuro di quello che sto per dire, ma se non trovo una risposta plausibile al “sintesi de che?”, Ci faccio una pessima figura.

Via, spariamola. “Eh, la sintesi moderna perché mette insieme Darwinismo e Mendel, perché non so se lo sai, ma fino agli anni venti molta gente era convinta che Mendel confutasse Darwin, la sintesi moderna ha riconciliato le due cose. ”

” Che cosa che cosa? ” occhi sgranati e sopracciglia aggrottate. ” come dovrebbe fare Mendel a confutare Darwin? “. Phew, li hai dirottati su un argomento di cui sai la risposta con certezza. E giù di prosopopea.

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Darwin e la vivisezione

Oggi è il Darwin Day, l’annuale festa dedicata a Carletto Darwin, e cercavo qualcosa di interessante da scrivere a proposito per celebrarlo in qualche modo, pur avendo bucato paurosamente le scadenze del Carnevale della Biodiversità. Fortunosamente, anche per colpa della questione dibattito scienza – movimento5stelle – e casini vari, sono andato a riscoprire un po’ il ruolo che Darwin ha avuto nella discussione del benessere animale, della ricerca scientifica e dell’antivivisezionismo suo contemporaneo.

Partiamo con una precisazione importante: ai tempi di Darwin, il termine vivisezione non era, come lo è impropriamente oggi, sinonimo di tutti i tipi di sperimentazione animale, ma indicava soltanto la vivisezione etimologicamente propria (cioè il tagliare effettivamente gli animali vivi, più che altro per studiarne la fisiologia) e la “tossicologia” (che metto tra virgolette perché era ancora nella sua infanzia, e per molti versi era una disciplina molto più chimica che biologica). Darwin stesso spesso insiste per l’uso del termine sperimentazione animale in maniera distinta da vivisezione, e visto che è il suo compleanno non gli si può certo fare un torto.

Se usassimo la più vasta definizione moderna, Darwin, che di sua mano aveva effettivamente sperimentato sui piccioni, sarebbe probabilmente da includere nei ranghi dei vivisezionisti; ma fare un ragionamento del genere non solo è sciocco perché non tiene conto del contesto storico, ma anche perché Darwin, quasi più di ogni altro, ha insistito affinché ci fosse una legislazione sulla sperimentazione, e, per certi versi, ha fondato l’interesse scientifico per per il benessere animale.

Prima di Darwin la questione più simile oggetto di dibattito era se gli animali avessero un anima oppure no; altri, in tempi più temporalmente vicini all’Origine delle specie, si interrogavano se gli animali potessero soffrire, sull’onda di Bentham; ma si trattava per lo più di dispute vuote, che arrivavano alle orecchie di chi stava nelle torri d’avorio e pochi altri.

Raramente si andava a toccare la questione del diritto dell’uomo di sfruttare gli altri animali: per il mondo vittoriano c’era, come diceva Giovanni Paolo II duecento anni dopo, un “salto ontologico”, una distinzione profonda tra l’essere animale e l’essere uomo. L’origine delle specie mostra che questo distinguo è una fregnaccia. Intanto ancora all’inizio del 1800 per le strade londinesi si giocava al cock-throw, in barba alla moderna sensibilità animalista.

Il “nobile” sport del cock-throw consisteva nel legare un gallo ad un palo, e lanciargli contro degli speciali bastoni fino ad ammazzarlo. Era considerato la versione più adatta ai bambini dei più comuni e più diffusi combattimenti tra galli. Pratiche di questo genere andarono avanti fino al 1840. La stampa qui sopra raffigurata è del 1820.  Photocredits: Wikicommons

All’inizio l’antivivisezionismo aveva motivazioni del tutto avulse al darwinismo. Ad esempio, i primi a proibire il già cock-throw nel 1660 erano stati i puritani: non per qualche particolare interesse nei confronti degli animali, ma perché questa pratica portava spesso a risse e dispute tra giocatori e tifosi. Dopo la seconda metà dell’800 oltre a Bentham e agli utilitaristi una nuova categoria si aggiungeva agli antivivisezionisti: le femministe, che spesso dicevano di essere più vicine nello spirito agli animali che agli uomini, e sentivano la violazione dei corpi animali come il risultato della stessa patriarchia che le opprimeva, tanto che, ai tempi di Darwin, femminismo e animalismo erano quasi sinonimi. Charles conosceva bene questo movimento anche perché una delle sue figlie, Etty Darwin, era in prima fila. Ma l’opinione pubblica andava cambiando, tanto che anche Darwin decise di far sentire la sua voce, per quanto avesse sempre rifuggito ogni forma di impegno pubblico e lasciasse le discussioni sull’evoluzione al suo “bulldog”, TH Huxley . Darwin in generale disprezzava ogni forma di crudeltà, tanto nei confronti dell’uomo quanto nei confronti dell’animale. Suo figlio Francis racconta come il padre fosse perseguitato dai ricordi degli schiavisti con cui aveva avuto a che vedere in Brasile, e come intervenisse contro le inutili crudeltà sugli animali:

The remembrance of screams, or other sounds heard in Brazil, when he was powerless to interfere with what he believed to be the torture of a slave, haunted him for years, especially at night. In smaller matters, where he could interfere, he did so vigorously. He returned one day from his walk pale and faint from having seen a horse ill-used, and from the agitation of violently remonstrating with the man. On another occasion he saw a horse-breaker teaching his son to ride, the little boy was frightened and the man was rough; my father stopped, and jumping out of the carriage reproved the man in no measured terms.

Del resto, una delle ragioni che portarono Darwin a perdere la fede era l’insensatezza della violenza in natura, non riconducibile ad un piano divino:

I cannot persuade myself that a beneficent and omnipotent God would have designedly created parasitic wasps with the express intention of their feeding within the living bodies of Caterpillars.

Non è però corretto sostenere che Darwin fosse una specie di attivista per i diritti degli animali ante-litteram: quello a cui più di tutto Darwin era interessato era una riduzione della sofferenza. Scrivendo allo zoologo di Oxford Ray Lankaster nel 1871, in richiesta della sua opinione sulla vivisezione, Darwin rispondeva:

You ask about my opinion on vivisection. I quite agree that it is justifiable for real investigations on physiology; but not for mere damnable and detestable curiosity. It is a subject which makes me sick with horror, so I will not say another word about it, else I shall not sleep to-night.

Come la stragrande maggioranza della comunità scientifica moderna, Darwin era convinto che la vivisezione e la ricerca animale fossero una attività vitale per lo sviluppo della scienza medica e della fisiologia, ma con rispetto dell’animale e minimizzando ogni forma di dolore inutile. Per questo, quando nel 1874 scoppiò il caso vivisezione nel Regno Unito, Darwin entrò in campo. Il 13 agosto del 1874 Eugene Magnan, un fisiologo francese, con quattro colleghi britannici, aveva partecipato ad una dimostrazione fisiologica agghiacciante sull’effetto dell’assenzio sul sistema nervoso centrale. Dei cani venivano immobilizzati e l’alcool iniettato direttamente in arterie precedentemente incise, mentre gli animali erano pienamente coscienti. Il direttore del Royal College of Surgeons in Irlanda, Thomas Joliffe Tufnell, che era presente, tentò di interrompere la crudele dimostrazione, ma la questione fu messa ai voti, e la procedura andò avanti. Tufnell, adirato, riportò la storia nel British Medical Journal, allora come oggi una delle più importanti testate mediche al mondo, e i fisiologi furono rapidamente messi alla gogna pubblica e portati a processo per via di questo abuso. O almeno, quelli inglesi: Magnan era già scappato in Francia al momento del processo. La questione entrò così nei salotti vittoriani, e gli antivivisezionisti poterono sfruttare il favore dell’opinione pubblica per partire alla carica. In cima alla lista c’era Frances Power Cobbe, una scrittrice femminista e animalista, che, anche tramite Etty, convinse Darwin a collaborare con la neofondata National Anti-Vivisection Society. Darwin era però preoccupato dai dettagli dell’ ” Act to amend the Law relating to Cruelty to Animals”, la legge che Cobbe, con l’appoggio di alcuni membri del parlamento, aveva iniziato ad abbozzare. In una lettera a sua figlia del 4 gennaio 1875 scrive a cuore aperto:

Your letter has led me to think over vivisection for some hours, and I will jot down my conclusions, which will appear very unsatisfactory to you. I have long thought physiology one of the greatest of sciences, sure sooner, or more probably later, greatly to benefit mankind; but, judging from all other sciences, the benefits will accrue only indirectly in the search for abstract truth. It is certain that physiology can progress only by experiments on living animals. Therefore the proposal to limit research to points of which we can now see the bearings in regard to health, etc., I look at as puerile. […] I would gladly punish severely any one who operated on an animal not rendered insensible, if the experiment made this possible; but here again I do not see that a magistrate or jury could possibly determine such a point. Therefore I conclude, if (as is likely) some experiments have been tried too often, or anaesthetics have not been used when they could have been, the cure must be in the improvement of humanitarian feelings. […] If stringent laws are passed, and this is likely, seeing how unscientific the House of Commons is, and that the gentlemen of England are humane, as long as their sports are not considered, which entailed a hundred or thousand-fold more suffering than the experiments of physiologists–if such laws are passed, the result will assuredly be that physiology, which has been until within the last few years at a standstill in England, will languish or quite cease.

Che fare, dunque ? Come assicurarsi che la legislazione potesse essere scritta in maniera sensata, tale da tutelare sia gli animali che il progresso scientifico, senza che nessuno dei due fosse vittima dell’ipocrisia vittoriana ? Darwin, insieme a suo genero Robert Litchfield, scrisse un nuovo e diverso disegno di legge, la “Playfair bill”,  dal nome del Dr. Lyon Playfair, che la propose effettivamente in Parlamento. Questa nuova bozza aveva almeno un paio di differenze importanti dalla proposta originale: non solo l’anestesia era richiesta in ogni occasione in cui fosse possibile, ma la vivisezione a fini dimostrativi, nelle scuole veniva completamente abolita. Cobbe non faceva questo genere di distinzione tra esperimento nuovo e semplice dimostrazione, e avrebbe condannato ogni forma di sperimentazione animale. La legge seguiva in maniera ragionevole le guidelines elaborate dalla British Society For The Advancement of Science (BAAS): Darwin scrisse ad Huxley che non solo le trovava il miglior compromesso possibile, ma anche la soluzione più umana. L’anno successivo, il 1876, vide il passare alla storia del  ” Cruelty To Animals Act “, su cui molto pesava la mano spirituale di Darwin, e che rimase la principale normativa in tema per quasi 110 anni. Per Cobbe questo non era tuttavia abbastanza. I due ebbero una piccola diatriba tramite lettere sul Times: la medesima questione della vivisezione stava nascendo in Svezia, e il Professor Homlgren, di Upsala, chiedeva pubblicamente un’opinione a Darwin. Questi, nella lettera pubblica, scrisse:

I have all my life been a strong advocate for humanity to animals, and have done what I could in my writings to enforce this duty. Several years ago, when the agitation against physiologists commenced in England, it was asserted that inhumanity was here practised and useless suffering caused to animals; and I was led to think that it might be advisable to have an Act of Parliament on the subject. […] On the other hand I know that physiology cannot possibly progress except by means of experiments on living animals, and I feel the deepest conviction that he who retards the progress of physiology commits a crime against mankind. Any one who remembers, as I can, the state of this science half a century ago must admit that it has made immense progress, and it is now progressing at an ever-increasing rate.

Darwin aveva già perso fiducia nei confronti di Frances Cobbe quando quest’ultima aveva editato senza il suo permesso una sua lettera prima della pubblicazione. Intanto il movimento antivivisezionista si aggiungevano nuove voci. Darwin ebbe senza dubbio una grande influenza in ciò: come facile esempio basta riportare le parole di Thomas Hardy che, nel 1909, scriveva:

 the practice of vivisection which might have been defended while the belief ruled that men and animals are essentially different, has been left by that discovery (la selezione naturale, ndr) without any logical argument in its favour

Ma la gran parte dei nuovi oppositori tra la fine dell’800 e gli inizi del 900 non avevano molto di darwinista, e neppure molto di scientifico. In primis, c’erano i socialisti, che vedevano gli scienziati come un elité e la scienza come strumento di oppressione governativa; dall’altro lato, stava nascendo un rigurgito anti-scienza, alimentato dalle sperimentazioni sull’uomo (e sugli animali) dell’inoculazione inventata da Pasteur, che veniva dipinto dall’opinione pubblica come una specie di Frankenstein. Nel 1883, ad esempio, quando il governo Francese premiò Pasteur per il suo lavoro, fu lanciata di rimando una campagna internazionale che eguagliava vaccinazione e vivisezione e che, tra le altre cose, diceva che

” […] science does not recognize in the great discoveries of M.Pasteur anything but the tissue of a dogmatic conception more likely to ruin than to enrich the country that would adopt them. ” 

Fortunatamente, queste campagne, più che scoraggiare la vivisezione, finirono per pubblicizzare l’inoculazione e le scoperte di Pasteur ancora maggiormente, permettendo le prime vaccinazioni di massa. Sfortunatamente, hanno finito per polarizzare ancora di più gli animi. Molti fattori sono entrati in gioco nel miglioramento delle condizioni degli animali e nella rivendicazioni dei loro diritti nella storia; è un peccato che l’impegno di un grande della storia come Darwin venga dimenticato.

Feller DA (2009). Dog fight: Darwin as animal advocate in the antivivisection controversy of 1875. Studies in history and philosophy of biological and biomedical sciences, 40 (4), 265-71 PMID: 19917485

Darwin, C (1881). Mr. Darwin on Vivisection Nature, 23 (599), 583-583 DOI: 10.1038/023583a0