Il doodle di google di oggi è dedicato al medico e biochimico ungherese Albert Szent-Györgyi.
Vediamo se riesco a dirigere un po’ di traffico qui, parlando un poco della vitamina C, e il meno possibile di Szent-Györgyi (copincollare ogni volta la ö nel suo nome è alquanto fastidioso.)
Fare il marinaio nelle epoche delle grandi navigazioni faceva schifo. Se prima del quattrocento le navi si allontanavano di rado dalla costa, adesso la tecnologia rendeva possibile lunghi viaggi oceanici, anche e soprattutto grazie a navi più grandi.
Navi più grandi significava più equipaggio per gestire vele più complicate, e più carichi, più acqua, più cibo. Quindi più persone, meno spazio, più malattie infettive, più scabbia, più pidocchi, e una dieta agghiacciante.
In mare è difficile tenere le cose al riparo dell’umidità. L’unica sostanza che rendeva impermeabile lo scafo era la pece, che non è proprio il massimo dell’efficienza. Di conseguenza, la dieta quotidiana era composta quasi esclusivamente da carne salata e gallette. Le gallette erano utili perché scarsamente attaccabili dalle muffe: il lato negativo è che le muffe non le attaccavano perché facevano schifo anche a loro. Le gallette erano dure come il marmo, tanto che quando venivano infestate dalle larve di varie specie di corculionidi era una cosa buona, in quanto le rendevano più morbide e facili da mangiare.
In più, in mare, non si poteva accedere il fuoco, se non in caso di bonaccia assoluta. Il che significava che la carne non poteva essere fatta bollire e sterilizzare, e lo stesso era vero per le gallette, sia con ospiti che da sole. Le provviste che si caricavano prima della traversata oceanica non duravano a lungo; giacché dopo un mesetto dalla partenza, la vita dei marinai, che già faceva schifo, peggiorava ulteriormente.
Dapprima, stanchezza e debolezza, poca voglia di lavorare, una situazione già di per sé non apprezzabile in alto mare. Poi, le gambe e le braccia cominciavano a gonfiarsi e a diventare pesanti e dolenti. Poi cominciava a sgorgare sangue. Dal naso, dalla bocca, anche da altri sfinteri; le gengive si rammollivano, i denti cadevano, e lentamente, inesorabilmente e orribilmente, sopraggiungeva la morte per complicazioni varie.
C’era un motivo per la leva obbligatoria in marina.
Una volta coscritti, però, c’era ancora un modo di salvarvi: finire al comando dell’ammiraglio Cook.
James Cook fu uno dei primi capitani a capire l’importanza dei cibi antiscorbutici, dell’igiene e della dieta nei lunghi viaggi in mare. Prima di diventare un ufficiale di marina aveva servito per nove anni come marinaio semplice, e aveva quindi imparato a temere lo scorbuto. Cook era un uomo di intelletto e un bravo cartografo, ragion per cui la Royal Society gli affido il comando della nave Endeavour, col compito di tracciare le carte nautiche degli oceani australi e compiere osservazioni naturalistiche varie.
Cook costrinse il suo equipaggio a pratiche insolite per la seconda metà del settecento, anche se lapalissiane agli occhi moderni. Innanzitutto insisteva perché la nave restasse pulita anche negli alloggi, e non solo sui ponti; i ponti stessi, i vestiti e i materassi venivano regolarmente lavati e disinfestati con il fumo; la dieta doveva contenere tutta la frutta e la verdura fresca che si potesse trovare, e quando non era disponibile, crauti acidi. Per convincere i suoi marinai, abituati a formaggio, gallette e birra e non certo a piatti “esotici” come i crauti acidi, mise dapprima questo piatto a disposizione dei soli ufficiali; nel giro di una settimana, l’equipagio richiese a gran voce che venisse concesso anche a loro. La psicologia inversa funzionava anche ai tempi di Cook.
Cook sarà anche stato ossessionato da dieta e pulizia, ma non perse mai nessun uomo a causa dello scorbuto, tanto che la Royal Society alla fine lo premio con la medaglia Copley, la sua massima onorificenza, non per le sue considerevoli imprese nautiche, tra cui la scoperta della Hawaii e della Grande Barriera Corallina, ma per aver sconfitto lo scorbuto in una così lungo viaggio oceanico.
L’ammiraglio aveva dispiegato un potente alleato in battaglia: l’acido ascorbico.
La vitamina C è, almeno negli esseri umani, letteralmente un elemento vitale (vitamina viene da ammina e vitale, anche se solo le vitamine del gruppo B contengono azoto) della dieta: da qualche parte nel corso dell’evoluzione abbiamo perso per strada l’enzima per la gulonolattone ossidasi, necessario per sintetizzare l’acido ascorbico, che è invece naturalmente prodotto dalla maggior parte degli altri mammiferi.
Nonostante il doodle di google metta l’immagine di arance, e la vitamina C sia presente in grande quantità negli agrumi, il principio antiscorbutico, ovvero l’acido ascorbico, fu per la prima volta realmente compresa grazie a qualcosa di completamente diverso: la paprika.
E non sorprende che a farlo, a questo punto, sia stato un ungherese.
Albert Szent-Györgyi era un medico ed un biochimico, e lavorando a Cambridge, pensò di aver isolato un nuovo ormone simile allo zucchero, a cui, con una certa verve comica, voleva dare il nome di ignosio ( zucchero ignoto, perché sapeva fosse simile ad uno zucchero, ma la struttura precisa era, appunto, ignota) . Il Biochemical Journal però non condivideva il suo senso dell’umorismo, e Szent-Györgyi finì per battezzare la sostanza con il più scientifico nome di acido esuronico.
L’acido esuronico era però, almeno in un certo senso, ancora ignosio; oltre al fatto che contenesse 6 atomi di carbonio (donde il prefisso esa) poco era chiaro della sua struttura. Ma, benedetto dalla sua nazionalità, Szent-Györgyi scoprì che la paprika ungherese era ricchissima di vitamina c, e, cosa più importante, non conteneva zuccheri o altre molecole che rendessero difficile isolarla, come negli agrumi. In una settimana riuscì a isolare un chilo di cristalli di vitamina C pura, e fu possibile la scoperta della struttura di quello che a questo punto, fu ribattezzato acido ascorbico. Il biochimico ungherese fu premiato con il nobel per la medicina per le sue ricerche sulla vitamina C, e il collega Haworth, che si occupò di determinarne in maniera cristallografica la struttura una volta isolata la molecola, vinse il nobel per la chimica.
La vitamina C, in un certo senso, ha plasmato la storia. Cook non avrebbe potuto compiere la sua impresa senza i suoi frutti antiscorbutici. La marina inglese dopo un altro mezzo secolo, cominciò a somministrare obbligatoriamente succo di limone ai suoi marinai, sconfiggendo l’unico nemico che gli poteva tenere testa in mare, lo scorbuto, riuscendo ad imporre la loro influenza nel pacifico meridionale pur essendoci arrivati anni dopo i portoghesi e gli olandesi.
Un’altra impresa storica è stata, almeno in parte, influenzata da questa piccola molecola.
Roald Amundsen è stato probabilmente uno dei più tosti esseri umani mai esistiti sulla faccia della terra. Amundsen fu ispirato sin da ragazzo da un’altro grande esploratore (e un altro inarrestabile della storia umana), Fridjtov Nansen, e decise di dedicare la sua vita all’esplorazione. I norvegesi funzionano così.
Amundsen fu un grande navigatore: fu membro della prima spedizione attraverso il passaggio a Nord Ovest, lo stretto di Bering, e lì imparò un quantitativo spropositato di tecniche di sopravvivenza artica. Quindi, non contento di aver compiuto una delle imprese più assurde della storia dell’uomo, dal momento che il suo idolo Nansen aveva tentato invano di raggiungere il polo nord, prese la sua nave, l’indistruttibile Fram, pronto a battere il comandante di marina britannico Robert Falcon Scott in una corsa al polo sud.
Scott sarà pure stato capitano di marina, ma, nonostante fossero passato un secolo e mezzo dai tempi di Cook, ascriveva ancora l’erronea credenza che lo scorbuto fosse causato da carne guasta. Amundsen, avendo navigato in territorio polare, essendosi fatto amico gli inuit, ed avendo sterminato nella sua vita un quantitativo notevole di foche, sapeva invece che la loro carne, e specialmente il loro cervello e i loro reni, erano ricche di vitamina C. Inoltre, Amundsen non si fece mai nessun problema a mangiare i suoi cani da slitta, anch’essi forniti del simpatico enzima gulonolattone ossidasi, e quindi dell’acido ascorbico.
Amundsen si fece quindi il suo viaggio di ritorno dal polo senza dover affrontare alcuna malattia o incidente.
Scott, invece, oltre alla decisamente poco saggia scelta di viaggiare con pony invece che con cani da slitta (era un nobile, non poteva certo sporcarsi le mani), fu anche sfortunato, rimanendo bloccato nel viaggio di ritorno da un’ondata di maltempo. Ben presto lui e suoi uomini cominciarono a sviluppare sintomi di scorbuto.
A meno di diciotto chilometri da un deposito di combustibile, Scott collassò al suolo, stremato. Non avrebbe mai più rivisto la sua patria.
Né un’arancia.
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