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Sopravvivere all’olocausto fa bene alla salute

Qualche giorno fa, in occasione dell’anniversario del bombardamento di Hiroshima, il sempre bravo Gianluigi Filippelli ha scritto un interessante articolo dal provocatorio titolo ” I salutari effetti della bomba atomica “. La conclusione della review riportata da Filippelli però la riporto, in due righe, anche qui:

The evidence presented indicates that acute, low dose irradiation induced lifetime health benefits for Japanese survivors of atomic bombs. (…) The flash exposure for those in Hiroshima and Nagasaki was equivalent to a radiation vaccination. That suggests an important concept. These data indicate that acute exposure to low dose irradiation is adequate, with or without chronic exposures, to provide lifetime health benefits.(1)

Cioè, se ignoriamo per un momento tutti gli ovvissimi effetti collaterali immediati delle bombe, incredibilmente i sopravvissuti hanno tratto dei benefici per la loro salute. Che è una cosa apparentemente fuori dal mondo, roba che se non avendo i risultati alla mano la reazione spontanea di una persona normale sarebbe ribaltare il tavolo ed andarsene.

Ma, siccome io non sono normale, ho deciso di prendere quella di Dropsea come una sfida a trovare qualcosa di più inaspettatamente benefico per la salute. E come il titolo sopra dice, nella maniera più infiammatoria che mi venisse in mente: sopravvivere all’olocausto fa bene alla salute.

E’ la conclusione di questo paper che trovate in libero accesso su PLOS ONE, dall’eloquente titolo ” Against All Odds: Genocidal Trauma Is Associated with Longer Life-Expectancy of The Survivors “. E’ un risultato interessante anche perché dubito che i ricercatori, due dei quali sono di origine ebraica, e finanziati da associazioni come il ” Center for Advanced Holocaust Studies”, lo ” United States Holocaust Memorial Museum “, si aspettassero questo risultato.

Gli autori inizialmente si rifanno ad una grande meta analisi, con più di 12 mila partecipanti, che mostra come coloro che sono sopravvissuti all’Olocausto mostrano molti sintomi da stress post-traumatico (ma và?) ma nessun generale deterioramento delle capacità cognitive o della salute fisica. La meta analisi in questione non aveva però raccolto alcun tipos di dati sulla sopravvivenza e la speranza di vita, e quindi gli autori si son lanciati in questa impresa.

Se avete letto il mio precedente articolo sull’intelligenza dei vittoriani e il selection bias e ne avete colto la morale (sbagliando il campionamento tutto il resto non è attendibile), vi sarà chiaro che la difficoltà più grande per questo studio sia effettivamente trovare un gruppo di persone il più simile possibile a chi ha sofferto per l’olocausto, senza però aver dovuto sottostare ad un genocidio. Non solo: per quanto l’olocausto degli ebrei possa essere considerato un evento di stress acuto confrontato con la vita intera di una persona, bisogna che la vita prima e dopo l’olocausto, dei due gruppi che vai a comparare fosse il più simile possibile, per evitare altri fattori confondenti.

Per costruire i due gruppi, quindi, i ricercatori hanno considerato gli ebrei emigrati dalla Polonia in Israele subito prima dell’Olocausto (dal 1919 al 1939), e quelli emigrati in Israele, di origini polacche, subito dopo l’olocausto (Dal 1945 al 1950). Il gruppo di controllo non è perfetto, chiaramente, perché si possono immaginare obiezioni per cui i due gruppi non sono comparabili, ma vista la questione è difficile fare meglio di così: il background genetico è più o meno lo stesso, l’ambiente di vita dopo l’olocausto è più o meno lo stesso, e usando i dati del censimento si sono stratificati i campioni in base alle condizioni socioeconomiche, per evitare effetti falsati dal confrontare un gruppo ricco con un gruppo di poveri, e in classi di età.

Precisazione importante: sopravvissuti all’olocausto NON SIGNIFICA sopravvissuti all’internamento in un campo di concentramento: il gruppo dei sopravvissuti include non solo coloro che sono stati liberati dai campi di prigionia, ma anche chi era nascosto in conventi o altrove.

” Ma allora è una stronzata! ” direte voi impulsivamente: in realtà, è effettivamente una procedura che ha un senso visto che si vuole misurare l’effetto dello stress. Come ho detto prima,  ci sono studi precedenti su campioni enormi che ci dicono che l’effetto sul lungo periodo delle deprivazioni dei campi di prigionia sono abbastanza piccoli; quello che gli autori vogliono misurare è l’effetto del trauma psicologico del genocidio sulla speranza di vita.

In ogni caso, l’effetto finale trovato è talmente grande che sinceramente sarei sorpreso se fosse solo un artefatto statistico:  analizzando in totale 55220 uomini e donne, salta fuori che i sopravvissuti all’olocausto sopravvivono 6.5 mesi più a lungo di quelli che l’olocausto l’hanno evitato stando in Israele. L’effetto è ancora più grande per gli uomini, per i quali la speranza di vita aumenta in media di 14 mesi, o addirittura diciotto se nel 1940 erano tra i 16 e i 20 anni. E’ un risultato assurdo. Come lo spieghiamo ?

La mia prima idea, leggendo il paper, era comunque un effetto di selezione. Perché se è vero che gli autori hanno cercato disperatamente di abbinare i due gruppi, sopravvivere all’Olocausto non è una variabile casuale. Considerato lo stress, l’asperità, le difficoltà etc, non è difficile immaginare che le persone che sono sopravvissute siano quelle che già dall’inizio erano le più in salute, mentre i più deboli e malati non ce l’hanno fatta. Il gruppo di controllo, che non ha dovuto subire questo terribile esperimento di selezione artificiale, contiene anche gente che per ragioni genetiche o ambientali è generalmente meno in forma, e quindi abbassa la media. In realtà gli autori considerano brevemente questa possibilità, ma non è la spiegazione che ritengono più probabile:

An alternative interpretation would be differential mortality, meaning that those vulnerable to life-threatening conditions had an increased risk to die during the Holocaust. Holocaust survivors by definition survived severe trauma, and this may be related to their specific genetic, temperamental, physical, or psychological make-up that enabled them to survive during the Holocaust [12]–[15] and predisposed them to reach a relatively old age.”

Secondo gli autori del Paper, la spiegazione più probabile è ” L’effetto di crescita post traumatica “.

Such findings may highlight the resilience of survivors of severe trauma, even when they endured psychological, nutritional, and sanitary adversity, often with exposure to contaminating diseases without accessibility to health services. This may be considered an illustration of the so-called posttraumatic growth [9] that is observed to occur, for example, in soldiers having experienced combat-related trauma but finding greater meaning and satisfaction in their later lives because of those experiences.

Che darebbe ritrovata veridicità al proverbio ” Ciò che non mi uccide mi rende più forte ” (o quanto meno mi dà EXP)

Nelle parole di uno degli autori, il professor Sagi-Schwartz :
“The results of this research give us hope and teach us quite a bit about the resilience of the human spirit when faced with brutal and traumatic events”

Io, sarà che sono cinico, sono ancora abbastanza convinto che sia un effetto di selezione, ma l’effetto paradossale rimane: sopravvivere all’olocausto allunga la vita.

ResearchBlogging.org
Sagi-Schwartz A, Bakermans-Kranenburg MJ, Linn S, & van Ijzendoorn MH (2013). Against all odds: genocidal trauma is associated with longer life-expectancy of the survivors. PloS one, 8 (7) PMID: 23894427

L’intelligenza dei vittoriani (e il selection bias)

Hey, sono finalmente in ferie.

Il che significa che posso andare a prendere articoli scientifici vecchi di due mesi, sculacciarli perché contengono cattiva scienza con una gran dose di alterigia, e avere comunque tutto il tempo che mi serve per cancellare tutti i commenti che non dicono ” OMG MM ma quanto hai ragione? “.

Questo articolo pubblicato su “Intelligence” è finito perfino sulla stampa generalista ( es. su repubblica ) per via della sua conclusione che comunque piace ai nostri istinti nostalgici: stiamo diventando tutti più idioti. Ah, “ai miei tempi si leggeva… ora tutti a instupidirsi davanti a facebooke”. Secondo gli autori, la migliore educazione, la migliore alimentazioni, le migliore cure rispetto al passato non riescono comunque a mascherare il fatto che nel 1880 la gente era biologicamente più intelligente.

Perché secondo loro siamo diventati più scemi ? Perché c’è una correlazione inversa tra intelligenza e fertilità, per cui la gente più stupida fa più figli, e quindi presto saremo invasi da oceani di gente mentalmente sottosviluppata, alla faccia di quelli che credono che l’evoluzione sia un continuo trionfo verso il progresso. In pratica, la trama di Idiocracy.

Ci si aspetta questa diminuzione generale dell’intelligenza da quando ci si è resi conto del collegamento inverso tra intelligenza e fertilità, ma questo pattern si rifiuta di diventare palese: anzi, su ogni generazione bisogna rinormalizzare a 100 i test del QI, per colpa di quello che in gergo viene chiamato Effetto Flynn. Più o meno 5 punti di QI in più per generazione, effetto che viene normalmente spiegato con fattori sociali vari (migliore educazione, nutrizione, etc.) piuttosto che con un’evoluzione reale.

A prima vista lo studio, che si intitola ” Were the Victorians cleverer than us? The decline in general intelligence estimated from a meta-analysis of the slowing of simple reaction time ” sembra fatto bene. Ma solo a prima vista.
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