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Lo Spiegone: Il Morbo di Parkinson

Il morbo di Parkinson è una malattia di cui, in un certo senso fortunatamente, si sente parlare abbastanza spesso. Ma i giornalisti tante volte offuscano dietro paroloni le loro spiegazioni, e gli scienziati che con il Parkinson hanno a che fare ogni giorno tendono a dare certe cose fin troppo per scontate. Questo pezzo, se tutto va bene, dovrebbe essere comprensibile a chiunque, non perché banalizza, ma perché andrà un passo alla volta verso una migliore comprensione di come funziona il Parkinson. Quindi incamminiamoci che la strada è lunga.

Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa. Malattia neurodegenerativa è un termine che indica quella categoria di malattie che sono causate da una perdita di funzione dei neuroni, o dalla loro morte. Le altri celebri malattie neurodegenerative sono l’Alzeihmer e la SLA, ma questa è un’altra storia. E’ importante però il fatto che l’origine di queste malattie, la ragione ultima per cui si sviluppano sia, il più delle volte, ignota;  Tuttavia, sappiamo cosa fanno, e come lo fanno, e possiamo usare questo sapere per cercare qualche modo di combatterle. Sapere è potere.

Il morbo di Parkinson è il risultato della morte di neuroni dopaminergici in una parte del cervello detta sostanza nigra, che aiuta a controllare i sistemi motori. Quando abbastanza neuroni di questo tipo muoiono, il paziente sviluppa i tre classici sintomi, quelli che James Parkinson usò per definire la malattia che porta il suo nome: tremori, rigidità muscolare, e lentezza dei movimenti.

Ok, rallentiamo un attimo, che già “morte di neuroni dopaminergici della sostanza nigra “ può sembrare, per alcuni, una supercazzola.

Il neurone è la cellula di base del tessuto nervoso. In un cervello normale ci sono più o meno 20 miliardi di neuroni. Questi neuroni comunicano tra di loro per mezzo di segnali elettrici, e segnali chimici: fin qui, non dovrei aver detto nulla di nuovo. La dopamina è un neurotrasmettitore, ovvero una di quelle sostanze che i neuroni si scambiano tra nelle sinapsi per comunicare.

Una sinapsi è una struttura che permette ad un neurone di comunicare con un altro neurone, o altri tipi di cellule.

Uno schemino efficiente di tutte le parti di una sinapsi. Leggete il testo!

In questo schemino si vede una sinapsi chimica, ovvero una sinapsi che ha bisogno di un neurotrasmettitore (Come la dopamina) per far andare il suo segnale da una cellula all’altra, separate dallo spazio sinaptico. Perché mai le sinapsi hanno un buco in mezzo ? Non avrebbe più senso tenerle collegate invece di doversi inventare questi neurotrasmettitori ? In realtà, no: perché è proprio per via del fatto che le sinapsi chimiche hanno questa particolarità che il segnale si può propagare in una sola direzione e andare da uno specifico punto A, ad uno specifico punto B. In più, le sinapsi hanno un altro vantaggio importante: un impulso nervoso è, sostanzialmente, una scarica elettrica: uno Zzzzap che al massimo può solo svegliare il neurone vicino. Con una sinapsi, invece, a seconda della sostanza che viene rilasciata,  si può avere sia stimoli eccitatori che inibitori, e si può anche modulare, a seconda di quanto neurotrasmettitore di un tipo o dell’altro viene rilasciato, quanto eccitare o inibire il neurone vicino. E’ il massimo della regolabilità.

La dopamina, il neurotrasmettitore che citavo prima, è inibitorio: riduce la trasmissione di segnali.

Il neurotrasmettitore normalmente se ne sta tranquillo per i fatti suoi, in tante vescicole che si accumulano nella cellula prima dello spazio intersinaptico; le vescicole presinaptiche sono sacchettini di membrana cellulare, il neurone le costruisce, le riempie di neurotrasmettitore, e le stipa diligentemente a ridosso della parete, pronte a riversarsi verso l’esterno.

Quando arriva un impulso elettrico al neurone, si apre un canale nella sua membrana. Non è un canale qualsiasi, è un canale selettivo: lascia entrare solo e soltanto ioni calcio. Il calcio si lega ad alcune proteine che sono legate alle vescicole, e le “convince” a svuotarsi nello spazio intersinaptico. Dal momento che le vescicole sono, sostanzialmente, membrana cellulare, semplicemente si fondono e rovesciano il loro contenuto, cioè il neurotrasmettitore, nello spazio sinaptico.

A questo punto il neurotrasmettitore  può diffondere tranquillamente nello spazio: si muoverà fino a trovare un recettore sulla membrana del neurone bersaglio, la membrana postsinaptica. Cos’è un recettore ? Un recettore è una molecola che, in generale, cambia in qualche modo quando riceve il suo specifico trasmettitore, e questo tipo di cambiamento è il messaggio che arriva alla cellula bersaglio.

La dopamina usa un recettore di tipo metabotropico: in pratica, il suo recettore è una proteina che sporge per metà al di fuori del neurone, e per metà al suo interno. Quando la dopamina si lega, il recettore si modifica in vari modi, il che da il via ad una catena di reazioni che aumentano la concentrazione di determinate sostanze all’interno del neurone. Il neurone, in base a quanto e come cambiano queste concentrazioni, sa comportarsi di conseguenza.

All’inizio ho scritto “ morte di neuroni dopaminergici della sostanza nigra “. Un neurone dopaminergico è un neurone che costruisce la dopamina. La dopamina è un neurotrasmettitore che ha effetti importanti per il controllo del movimento. La sostanza nigra è una parte del cervello che si chiama così perché, facendo i vetrini per i microscopi usando sostanza in grado di colorare la dopamina, questa zona del cervello, molto ricca di vescicole piene di dopamina restava molto scura. E fu proprio il vedere nelle autopsie che i malati di Parkinson mancavano di questa zona scura a far sospettare che la malattia avesse qualcosa a che fare con la mancanza dopamina.

Uno spaccato che mostra la sostanza nigra E' uno dei gangli basali del cervello, anche se non è un ganglio. Sì, lo so, nomi a caso.

Semplificando parecchio, la causa dei sintomi del Parkinson è la morte dei neuroni di questa zona. Dei sintomi, bene inteso, perché la causa della sindrome in sé è generalmente ignota.

Perché la morte di questi neuroni della sostanza nigra causa questi sintomi ? Rubiamo uno schema da un libro per capirci.

Uno schema alquanto semplificato delle varie vie di collegamento coinvolte nel Parkinson. Leggete il testo che è meglio.

Lo schema semplifica la relazione tra alcune parti del cervello, ma non è complicato come sembra, perché dobbiamo puntare l’attenzione solo su alcuni punti in particolare per ora.  C’è la corteccia motoria, in alto, che è quella con cui vi muovete volontariamente. Bene. il segnale che vi dice di muovervi arriva alla corteccia motoria da altre zone del cervello, e usa come neurotrasmettitore il glutammato. La corteccia motoria è collegata al corpo striato, che fa da ponte verso la sostanza nigra. Il corpo striato è collegato per due vie alla sostanza nigra: una delle due è mediata da Dopamina, l’altra da Gaba, un altro neurotrasmettitore. Come fa capire l’eloquente segmento in mezzo, se il collegamento  mediato dalla dopamina,viene a mancare tra la sostanza nigra e il corpo striato, il risultato è il morbo di Parkinson.

La dopamina, come dicevamo prima, è inibitoria: se i neuroni  moriranno progressivamente, ci sarà sempre meno dopamina, e quindi sempre meno inibizione. Un grossissimo problema è che i sintomi del morbo di Parkinson si manifestano quando la mancanza di dopamina è molto importante, intorno all’80-90%. Se riuscissimo a fare screening di massa o a trovare un test diagnostico che ci permettesse di individuare rapidamente l’insorgere della malattia, potremmo davvero migliorare e di molto l’efficacia dei trattamenti.

Dopo tutto quello che ho detto, la soluzione sembra apparire spontanea: bisogna trovare il modo per impedire che manchi la dopamina nel collegamento tra sostanza nigra e zona striata. Bene, la proposta è giusta, ma come si fa ?

La soluzione ideale sarebbe impedire la morte dei neuroni dopaminergici. Il punto è che non sappiamo perché muoiono, e quindi dobbiamo puntare a cercare di compensare la mancanza di dopamina. Possiamo provare a dare direttamente dopamina al paziente: una specie di integratore per quello che il suo cervello non riesce a produrre da solo.

Salta però subito fuori una complicazione. Questa complicazione si chiama barriera ematoencefalica, e normalmente non è un problema, ma una cosa estremamente buona e utile: è una barriera fra la circolazione sanguigna (emato) e il cervello (encefalica! Mica diamo a caso i nomi alle cose.), che impedisce che sostanze dannose arrivino al cervello anche se sono nel sangue. Il punto è che fra le varie cose che blocca, oltre a quelle dannose, ci sono anche cose utili dal nostro punto di vista: antibiotici ad esempio, o, purtroppo, la dopamina.

Bisogna allora cercare qualcosa di diverso.

Il farmaco più usato per ovviare a questo problema è la Levo-DOPA. La Levo-DOPA è il precursore diretto della dopamina: una volta che entra in un neurone, questo composto deve subire un singolo passaggio chimico per diventare dopamina. E al contrario della dopamina riesce a passare la barriera ematoencefalica raggiungendo il cervello.

Una visualizzazione di come da un precursore, la tirosina, un amminoacido, vari enzimi vadano a modificare successivamente la molecola fino ad ottenere la dopamina. Il precursore immediatamente precedente alla dopamina, cerchiato in rosso, è la levodopa. I nomi sulle frecce sono i nomi degli enzimi che compiono le varie reazioni. La DOPA decarbossilasi, quella che compie l'ultimo step, è in realtà un enzima molto generico, e quindi viene indicato anche con il nome generico. Questo fatto non è del tutto da trascurare.

Notate come ho detto “il cervello” e non la “sostanza nigra”. Una volta passata la barriera, infatti,la Levo-DOPA diffonde in qualsiasi neurone trovi, non specificamente nei neuroni dopaminergici, in cui normalmente viene fabbricata. E quindi il vostro cervello si troverà a produrre dopamina anche dove non dovrebbe, specialmente dando fastidio ai neuroni che normalmente producono la serotonina, un altro neurotrasmettitori, causando un sacco di effetti collaterali. La serotonina, tra le altre cose, è uno dei neurotrasmettitori che regolano l’umore, e finisce per rendere aggressivi e provocare alterazione nel sonno nei malati.

In più,la Levo-DOPApassa la barriera ematoencefalica, ma in parte minima: circa il 90% del composto, se assunto per via orale, finisce in periferia, e causa altri effetti collaterali al sistema gastroenterico,  come nausea e vomito, e, peggio, nel sistema cardiovascolare, causando aritmie.

Però l’idea è promettente, e per fortuna, la scienza non ha gettato la spugna. Insieme alla Levo-DOPA, vengono somministrati allora composti in grado di bloccare la sua trasformazione in dopamina. Sembra insensato, ma solo perché non ho aggiunto una cosa: gli inibitori (che si chiamano carbidopa e benzerazide) non sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica, il che significa che eviteranno gli effetti collaterali periferici, e aumenteranno la percentuale di Levo-DOPA che non viene trasformata in giro ma riesce a entrare in quantità maggiore al cervello. In questo modo, si è potuto anche ridurre la quantità delle dosi che venivano somministrate, perché a parità di dose in entrata, una quantità maggiore di Levo-DOPA riesce ad arrivare al cervello. La dose efficace aumenta, senza dover aumentare la dose ingerita.

Altri farmaci, più recenti, sono inibitori COMT , bloccano cioè la Catecolo-O-Metiltransferasi, un enzima che  se non viene inibito, cerca di trasformare la Levo-DOPA in altri composti. Il principale tra questi è la 3-O-Metildopa, che compete con la Levo-DOPA stessa nel tentativo di entrare nel cervello, ostacolandone l’assorbimento. Utilizzando gli inibitori COMT, ancora una volta, si riesce a far sì che il cervello assorba una percentuale ancora più alta della Leva-DOPA che  viene somministrata.

Non tutti però rispondono allo stesso modo anche a questo trattamento, e non sempre la stessa dose ha lo stesso effetto su pazienti diversi.  In più, gli effetti della stessa dose sullo stesso paziente cambiano nel tempo. I neuroni che rispondono alla dopamina, infatti, cambiano le loro proprietà: siccome non ricevono più un flusso costante di, ma brevi raffiche, diventano ipersensibili alla dopamina. Il risultato è chela Levo-Dopafinirà per causare gli stessi sintomi della malattia: una persona che ha rigidità improvvisamente si troverà a fare movimenti ampi e involontari (In termini tecnici, diskinesia.)  In più, la progressione della malattia può portare a effetti del tipo on/off. Sempre più neuroni muoiono, e il cervello diventa meno abile a conservare la dopamina, progressivamente riducendo il tempo d’efficacia del farmaco. Nei casi peggiori, l’effetto può svanire anche nel giro di minuti.

A questo punto si può usare un’altra tecnica. Quando la degenerazione dei neuroni è talmente grande da non riuscire a produrre più dopamina a sufficienza, neppure con più materia prima, si può provare ad utilizzare farmaci che si sostituiscono, sul recettore post sinaptico, al normale neurotrasmettitore. Una molecola che si traversa abbastanza bene da dopamina di modo che il neurone post sinaptico creda di star ricevendo un segnale, anche se non è così. Ci sono molteplici farmaci in commercio che seguono questa strada, e sono quasi tutti derivati dall’ergot, un fungo parassita delle graminacee: quello, per capirci, che fa diventare la segale cornuta.  Anche questi farmaci non sono il massimo, purtroppo: aumentano di molto i rischi cardiaci per il paziente.

Per riuscire a sconfiggere il Parkinson, per riuscire a dare una vita migliore ai malati, abbiamo bisogno di capire di più. Sviscerare ogni piccolo dettaglio, analizzare ogni possibile strategia. E per farlo, l’unica cosa che abbiamo è la ricerca scientifica. Le millemila parole spese finora servono fondamentalmente come appello, appello e dimostrazione della potenza della comprensione.

Aiutiamo la ricerca scientifica.

“ Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire. E’ tempo di comprendere di più, per poter temere meno. “ – Marie Curie

I pacifisti invisibili

I microbi sono malvagi.

Creature dall’inferno che devono essere sterminate.

Se un disinfettante non uccide il 99.99% dei batteri, non dà abbastanza soddisfazione.

I microbi sono il nemico invisibile. Invisibile e letale.

Massacriamoli a colpi di amuchina e etanolo 70%.

Dei batteri, mentre cospirano malvagiamente per conquistare con malvagità il vostro organismo.

In realtà, solo una percentuale infinitesima di microbi è patogena. Ci sono eucarioti parassiti, c’è qualche fungo che causa malanni, tipo il piede dell’atleta; ci sono amebe che causano dissenteria e altre patologie non troppo carine.

Ma la maggior parte dei microbi è innocua. E, a dirla tutta, ti vuole bene!

Vuole bene alle proteine mezze usate che butti via, vuole bene alla tua temperatura caldina di 36.6 °C, vuole bene alla tua alta umidità relativa, specialmente in bocca. Ci sono microbi terribili, vero, ma perché discriminarli indiscriminatamente quando solo una percentuale infinitesima è composta da progenie demoniaca? Non vorremo mica essere pieni di pregiudizi, no?

Anche perché poi ci vanno di mezzo gli innocenti. Innocenti come gli Archea.

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Vescovi, Vampiri e Virus

Qualche giorno fa, avendo un po’ di tempo da perdere, ho preso tra le mani un bel manuale di metodi matematici  per la modellazione in biologia, e oltre a illustrazioni assolutamente imperdibili, come questa:

Ingegneria Biomedica Medievale

Un (per fortuna) ipotetico metodo rapido per estrarre una freccia da una ferita, ideato da un ingegnere biomedico ante-litteram.

L’autore ha trovato un modo di inserire nelle sue prefazioni alle varie trattazioni matematiche tutta una serie di aneddoti piuttosto interessanti. Uno in particolare riguardava un vescovo, che è anche un santo: Sant’Uberto, vescovo di Liegi.

Uberto era un simpatico vescovo dell’ottavo secolo. Andava in giro ad evangelizzare i pagani nelle Ardenne, finché ad un certo punto decise di fondare la diocesi di Liegi, diventare primo vescovo del posto, e morire lì, nella tranquillità del suo letto. E’ considerato un santo perché la leggenda vuole che Uberto, prima di vedere la luce, fosse un nobile che, come tutti i nobili di buona famiglia dell’ottavo secolo, amasse andare a caccia: e in una di queste battute ebbe la visione di un crocifisso tra le corna di un cervo, che gli intimava di abbandonare la sua vita dissoluta e convertirsi. In realtà la storia della conversione è un plagio assoluto, preso di peso dalla vita di Sant’Eustachio, ma tant’è: Uberto ha fondato una diocesi, bisognava trovare una scusa per santificarlo.

Della sua esimia vita non ci interessa molto in ogni caso: la parte interessante arriva quando Uberto viene riesumato.

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Acidi, Ammiragli e Amundsen.

Il doodle di google di oggi è dedicato al medico e biochimico ungherese Albert Szent-Györgyi.

Vediamo se riesco a dirigere un po’ di traffico qui, parlando un poco della vitamina C, e il meno possibile di Szent-Györgyi (copincollare ogni volta la ö nel suo nome è alquanto fastidioso.)

Fare il marinaio nelle epoche delle grandi navigazioni faceva schifo. Se prima del quattrocento le navi si allontanavano di rado dalla costa, adesso la tecnologia rendeva possibile lunghi viaggi oceanici, anche e soprattutto grazie a navi più grandi.

Navi più grandi significava più equipaggio per gestire vele più complicate, e più carichi, più acqua, più cibo. Quindi più persone, meno spazio, più malattie infettive, più scabbia, più pidocchi, e una dieta agghiacciante.

In mare è difficile tenere le cose al riparo dell’umidità. L’unica sostanza che rendeva impermeabile lo scafo era la pece, che non è proprio il massimo dell’efficienza. Di conseguenza, la dieta quotidiana era composta quasi esclusivamente da carne salata e gallette. Le gallette erano utili perché  scarsamente attaccabili dalle muffe: il lato negativo è che le muffe non le attaccavano perché facevano schifo anche a loro. Le gallette erano dure come il marmo, tanto che quando venivano infestate dalle larve di varie specie di corculionidi era una cosa buona, in quanto le rendevano più morbide e facili da mangiare.

Larve di punteruolo rosso, un curculionide. Mangiare questi cose rendeva più buone le gallette. Gnam (?)

In più, in mare, non si poteva accedere il fuoco, se non in caso di bonaccia assoluta. Il che significava che la carne non poteva essere fatta bollire e sterilizzare, e lo stesso era vero per le gallette, sia con ospiti che da sole. Le provviste che si caricavano prima della traversata oceanica non duravano a lungo; giacché dopo un mesetto dalla partenza, la vita dei marinai, che già faceva schifo, peggiorava ulteriormente.

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Le zanzare e l’arte della guerra

Zanzare.

Tra tutte le creature sulla faccia della terra, non credo esista niente di più odiato, disprezzato, vituperato e deprecato delle zanzare.

Tutti odiano le zanzare.

Ed effettivamente hanno ben donde. Oltre all’imparagonabile fastidio che questi mefistofelici insetti infliggono sull’umanità nei mesi estivi, sono il vettore della malaria.
La malaria oggi è per lo più considerata una malattia tropicale, che poco tange le nostre moderne antisettiche società del nord del mondo. Ma al di là del fatto che questo è vero solo da una manciata di decenni, la malaria è probabilmente la singola malattia che ha ucciso il maggior numero di esseri umani in tutta la storia.
250 milioni di nuovi casi l’anno. Un’ecatombe.
E sì, la colpa non è della zanzara, ma del dannato plasmodium, un parassita tanto dell’insetto che dell’uomo.

Ma è molto più soddisfacente odiare le zanzare.

Anopheles gambiae, la zanzara della malaria. Maledetta.

Queste bestie abominevoli hanno un cervello di dimensione paragonabile ad un punto su questa pagina.

Eppure, sono macchine da guerra che farebbero orgoglioso Sun Tzu.
Non importa quanto spesse siano le vostre zanzariere, non importa quanto mefitici siano i vostri repellenti, non importa quanto bene siate nascosti, le dannate succhiasangue troveranno il modo di trovarvi, e assaggiarvi.

Come cazzo fanno ?!

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