Archivio Categoria: Scienza - Pagina 3

Sferoidi oblati, triangoli e orologi: la misura della terra né piatta né tonda

Recentemente su Italia Unita Per La Scienza è uscito un post in due parti (Prima e Seconda) sul mito della terra piatta nelle ere. Per una fortuita coincidenza, ho iniziato da poco a leggere il Ciclo Barocco di Neal Stephenson, una mostruosità da 3000 e rotte pagine di romanzo storico sulle origini della scienza illuminista scritto da un famoso autore di fantascienza; una lettura leggera sotto l’ombrellone.

Che c’entra? C’entra perché (Spoilers?) uno dei personaggi del romanzo, pre-Newton, utilizza un pendolo per dimostrare che la forza di gravità diminuisce allontanandosi dal centro della terra. Il collegamento resta oscuro (mancano un po’ di passaggi) ma ho fatto l’associazione di idee con il post di IxS visto che è per merito di un pendolo che si è passati dal considerare la terra una sfera al più accurato sferoide oblato. Ergo, prima che mi dimentichi del tutto come si fa a scrivere visto che son passati mesi dall’ultimo post, uno spiegone su come sappiamo che la terra non solo non è piatta, ma non è neanche una sfera.

Partiamo dall’ultima parte del trittico del titolo: gli orologi. Intorno al quattordicesimo secolo, in Italia, nei campanili, cominciano ad apparire orologi con scappamento a verga. Lo scappamento è, per farla semplice, il meccanismo che determina ogni quanto l’orologio ticchetta; lo scappamento a verga ha una corona coi denti a seghetto e una verga che, con due palette, blocca la rotazione della corona in passi fissi della durata di un tic.  Il problema intrinseco di questo tipo di meccanismo è che la regolarità del ritmo dipende moltissimo dall’attrito del sistema: se i denti della corona si consumano, o una paletta impiega anche una frazione di secondo in più del dovuto a spostarsi, o la verga non è ben lubrificata, ecco che subito cominciano i casini e l’orologio perde rapidamente di precisione.

Lo schema di uno scappamento a verga, da Henry Evers (1874), A Handbook of Applied Mechanics, William Collins & Sons, London, fig.58, p.153 Pubblico Dominio

Anche gli orologi ad acqua, l’altra alternativa popolare del periodo, che sfruttavano la regolarità del flusso dell’acqua attraverso un poro, hanno lo stesso problema: il flusso dell’acqua non è mica poi detto che sia così perfettamente regolare. E se hai orologi che scattano a intervalli irregolari, misurare il tempo è roba da pazzi. Galileo, che per i suoi esperimenti dovette accontentarsi degli orologi di questo tipo, sapeva che facevano acqua da tutte le parti (ehm). GG sapeva anche, ed era forse una delle prime persone nella storia dell’umanità a saperlo, che il moto oscillatorio regolare di un pendolo poteva essere la soluzione. Cosí, si impegnò a progettare uno dei primi orologi a pendolo del mondo. Sfortunatamente per lui il suo progetto non sarà realizzato se non parecchio dopo la sua morte, lasciando l’onore (e l’onere) di costruire la prima pendola funzionante a Huygens.
Christian Huygens sarebbe stato comunque uno dei più grandi fisici del suo tempo anche se, nel 1656, non avesse costruito uno strumento che quel tempo lo misurava. Il suo primo modello perdeva non più di un minuto al giorno; successive iterazioni portarono il ritardo al massimo a 10 secondi per die, una precisione senza precedenti. Parte del successo di Huygens dipese dal fatto che determinò matematicamente quanto dovesse essere lungo un pendolo perché una oscillazione completa durasse un secondo, nell’assoluta convinzione che questa lunghezza sarebbe stata una costante universale, e il pendolo avrebbe oscillato con il medesimo periodo ovunque.

C’era solo un piccolo problema: la sua costante non era veramente costante. Immenso miglioramento sui ticchettatori precedenti, di sicuro, ma non costante universale. Fu astronomo francese, Jean Richer, a far nascere i primi dubbi sull’universalità del pendolo.

Jean Richer fa le sue misurazioni in Guyana. Da un incisione di Sebastein Leclerc, pubblico dominio

Richer era a Cayenne con Cassini, il più famoso astronomo francese, per cercare di misurare precisamente il parallasse di marte. Il suo orologio a pendolo, fondamentale per la riuscita della misura, che funzionava perfettamente ed era sincrono a Parigi, aveva però perso più di due minuti rispetto alle pendole locali a Cayenne nel giro di sole 24 ore. “Ben strano“ pensò probabilmente Richer, che decise di pubblicare anche questo fattoide nel suo rapporto alla Franca Accademia delle Scienze, che prese la cosa terribilmente sul serio. Presto l’anomalia fu verificata da fonti indipendenti, e i due più importanti fisici del tempo, Huygens e Newton, si trovarono a competere per cercare di spiegare cosa non tornava.

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Tutto causa il cancro (Il bias dei cappelli bianchi)

Avete mai notato come le sezioni salute della maggior parte dei giornali (e blog) siano ormai intente nell’impresa titanica  di dividere ogni singolo alimento e ingrediente in cosa fa venire il cancro e cosa no?

E, non fraintendetemi, capisco il principio che c’è dietro. Il cancro è probabilmente una delle cose più terrificanti per la maggior parte delle persone, e sei vuoi leggere, o beccarti il click, o sei genuinamente interessato a morire il più tardi possibile e vivere nel mentre restando il più in salute possibile, ecco che la nutrizione diventa sproporzionatamente importante.

Così, su nelle torri eburnee è stata inventata l’epidemiologia nutrizionale, una disciplina legittima che si trasforma in circa un migliaio di pubblicazioni scientifiche l’anno, che, apparentemente, si trasformano in un migliaio di articoli pop che senza la benché minima nuance si trasformano in articoli tipo “Il cibo x fa venire il cancro” e “l’ingrediente y protegge dalle malattie cardiache”, etc. E di conseguenza non c’è da meravigliarsi se i consumatori sono confusi sotto questo bombardamento di informazioni, e vanno o in panico per ogni nuovo “rivoluzionario studio” o ad un certo punto diventano scettici e cominciano a sbattersi le palle.

A questo si può aggiungere che in Italia non serve quasi nessuna qualifica specifica per farsi chiamare Nutrizionista; secondo l’Ordine dei Biologi, basta essere iscritti all’albo per poter potersi definire tale; il che significa che sebbene io mi occupi di evoluzione e genetica di popolazione domani potrei mettere “Dott.  Biologo Nutrizionista” forte dei 3 crediti scarsi di alimentazione umana nella mia carriera accademica, e nessuno potrebbe legalmente dirmi niente. Il fatto di ottenere prima una specifica qualifica in ambito di alimentazione è semplicemente un consiglio o una raccomandazione dell’ordine. Questo non significa che i biologi nutrizionisti (o i dietologi, a cui si applicano più o meno le stesse regole, con l’aggravante che il termine non è legalmente protetto) siano necessariamente profittatori incompetenti e senza scrupoli, ma, ad esempio l’Associazione Nazionale Dietisti ha recentemente pubblicato un report, in cui esprime preoccupazione  per  ” […] l’eterogeneità e la numerosità degli accessi (ai master in nutrizione, ndr), aperti contemporaneamente a molteplici tipologie di laureati con provenienze formative e ambiti professionali molto diversi tra loro, e molti dei quali senza alcuna competenza di base in ambito nutrizionale e sanitario “. E per quanto improvvisarsi senza il benché minimo di qualifiche sia più o meno il tema conduttore di questo blog, farlo per profitto sparlando di nutrizione penso sia come minimo poco etico; e anche quando viene fatto in buona o buonissima fede e non per mero guadagno, rischia di perpetuare  perniciosi miti da una supposta posizione di autorità.

(N.B: Non sono assolutamente sicuro che sia ancora così da quando esistono le lauree specialistiche in biologia della nutrizione, ma lo era appena 4-5 anni fa e quelle lauree già esistevano, quindi se dovessi sbagliarmi non c’è bisogno di divorarmi nei commenti: al massimo quello che sto dicendo è out-of-date. se così fosse, fatemi sapere)

E ovviamente, questa cacofonia di consigli e questa iper-medicalizzazione della dieta crea una nuova enorme nicchia per ciarlatani e pseudoscienziati di ogni tipo per approfittarsi di chi vorrebbe solo stare meglio (o essere più magro).

Breve parentesi metodologica su come funzionano gli studi epidemiologici sulla nutrizione: se già sapete come funziona, e siete familiari con termini come studi longitudinali o meta analisi, skippate con gusto la prossima parte.

Un gattino puccioso segna l’inizio e la fine della parte skippabile dai lettori “avanzati”. Photocredits: ” <3KawaiiCloud<3 ” via Flickr

Un gattino puccioso segna l’inizio e la fine della parte skippabile dai lettori “avanzati”.

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Perché esistono così tanti fiori ?

Arriva San Valentino, e come spesso succede, orde di amanti razziano campi e fioristi alla ricerca dell’organo riproduttore più adatto da regalare alla propria/o bella/o.  Nel mondo occidentale, la scelta ricade tipicamente sulla rosa rossa, che in questi giorni viene pagata a peso d’oro, ma la scelta potrebbe essere, almeno in teoria, ben più varia. Si stima che esistano circa 350 mila specie di angiosperme, cioè piante con fiore, al mondo.

Certo, potete regalare alla vostra morosa un mazzo di rose, ma quanto sareste più cool regalando un fiore di  Hydnora africana ?

Hydnora è un genere di piante parassite. Quello che vedete sporgere, tipo mano a tenaglia di un lego, è il fiore; intorno, nere, sono le radici marcescenti della pianta a cui il fiore sta lentamente succhiando la vita. Una perfetta descrizione della vita di coppia.

Hydnora è un genere di piante parassite. Quello che vedete sporgere, tipo mano a tenaglia di un lego, è il fiore; intorno, nere, sono le radici marcescenti della pianta a cui il fiore sta lentamente succhiando la vita. Una perfetta descrizione della vita di coppia. Photocredits: D.L. Nickren, Southern Illinois University

Perché esistono così tanti fiori? Beh, l’idea di base è semplice: la teoria dell’evoluzione, già dai tempi di Darwin, prevede che la pianta, non potendosi muovere, scelga un il particolare impollinatore da attirare perché possa trasportare il suo polline ad un altro fiore. Più il fiore è specifico e strano, più attirerà una specifica e strana specie di impollinatore, ed eviterà il rischio di ricevere polline di specie con cui non ha intenzione di incrociarsi. E’ il cambiamento da un impollinatore all’altro che causa i più massicci cambiamenti nella morfologia e nella struttura del fiore, che si sforza di isolarsi riproduttivamente dai suoi cugini più stretti.

” Hey, è proprio una bella ipotesi. Sarebbe anche bello se avessi qualche prova a sostegno, mate. ” ( Non so perché, ma quando mi immagino lo scettico di turno che viene a rompere le uova nel paniere ha un marcato accento Cockney )

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Cosa hanno in comune api, squali, cacciatori raccoglitori e videogiocatori?

Seguono tutti i cammini di Levy (forse).

Ero tentato di chiudere il post così, dopo due-righe-due, ma poi la mia mamma ci sarebbe rimasta male che non gli spiegavo le cose. E questo articolo è ancora più ostico del normale da farle capire, visto che tira fuori i videogiochi (gasp!) e la matematica (stragasp!) oltre alla mia solita prosopopea.

E già normalmente la conversazione media con mia madre, parlando di quello che scrivo, va più o meno così:

” Oh, ho letto il tuo articolo!”
” Bene! Ti è piaciuto?”
” Si, tantissimo, però non ci ho capito niente.”

Che per uno che gioca a provare a far per finta il divulgatore è una pugnalata. Come dire a un rugbista ” oh sei bravo, ma se passi in avanti arrivi prima in meta, eh.”.  Ovviamente la colpa è solo e soltanto mia, che non mi so spiegare, e quindi per questo articolo moltiplicherò i miei sforzi.

Dunque, dicevamo, il cammino di Levy. Cos’è, e che c’entrano le varie bestie del titolo?

Le varie bestie del titolo hanno un problema: procacciarsi il cibo in un ambiente più o meno sconosciuto. Devono trovare dei fiori, o una preda o selvaggina, possibilmente con il massimo del guadagno e il minimo dello sforzo.

L’ ape esce dall’alveare e esplora un campo. Normalmente, usando il suo potente olfatto, trova indizi e indicazioni su dove dirigersi, ma stavolta non c’è nessuno stimolo particolarmente interessante. Che fare?  Si può muovere totalmente a caso, come un granello di polline sulla superficie dell’acqua. Qualsiasi direzione, va bene uguale, e quanto andare in ciascuna direzione segue una gaussiana: distanze particolarmente lunghe o particolarmente brevi saranno percorse meno spesso rispetto a distanze intermedie, più frequenti.

Augochloropsis metallica, una bellissima ape "del sudore". Si orienta con il suo ultra-sensibile olfatto, che però a volte la porta a seguire false tracce, come quando segue il sudore umano, da cui è stranamente attratta.

Augochloropsis metallica, una bellissima ape “del sudore”. Si orienta con il suo ultra-sensibile olfatto, che però a volte la porta a seguire false tracce, come quando segue il sudore umano, da cui è stranamente attratta. Photocredits: USGS

Ma andare totalmente a caso è la soluzione migliore?

Uno squalo, alla ricerca delle sue prede, segue una gran varietà di stimoli. Grazie a degli organi specifici, le ampolle di Lorenzin, gli squali sentono i campi elettromagnetici, come i Jedi sentono la Forza. Ma l’oceano è vasto e con la pesca selvaggia l’abbiamo praticamente desertificato: lo squalo deve vagare in lungo e in largo per cercare cibo. Andare a caso sarebbe proficuo?

Sì dà il caso che sia api che squali seguano una particolare strategia per muoversi in cerca di cibo: seguono il cammino di Levy, che, tecnicamente, è una traiettoria che invece di avere una distribuzione di probabilità gaussiana, è iperbolica e “heavy tailed”, con le code pesanti. Spacchettiamo che cosa vuol dire:

In matematica, quello che fanno le api e gli squali sopracitati, muoversi in direzioni casuali con passi di lunghezza variabile, si chiama passeggiata (o cammino) aleatoria (random walk in inglese). Ma non tutte le passeggiate casuali sono uguali: anche scegliendo la direzione completamente a caso, magari si preferisce fare passi (dove per passo si intende la distanza coperta prima di cambiare direzione) più lunghi o più brevi; oppure, non tutte le direzioni sono equamente probabili, ma si preferirà tendere in una direzione, come il carrello del supermercato con la ruota mezza rotta (che no, mamma, non è che lo prendi sempre tu, è che ti ricordi le volte in cui lo prendi e ti dimentichi quando va tutto bene).

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Come sappiamo perché il cielo è blu

Una delle domande tipiche dello stereotipico bambino curioso, quello che esiste più come artificio retorico che come reale individuo, è ” Perché il cielo è blu ? “.

La risposta del genitore tipico che torna a casa dopo una tipica giornata di lavoro è ” Non fare domande stupide “.

La risposta esatta è, notoriamente, ” É per via lo scattering di Rayleigh combinato alla risposta fototipica dell’occhio umano”.

Ma la stragrande maggioranza delle persone che sono esistite nel corso della storia umana non avevano neanche per sbaglio una risposta credibile alla tipica domanda dei bimbi curiosi. Può darsi che ” Perché il cielo è blu ? ” sia una di quelle domande ataviche che ossessionava i nostri antenati, ma una delle prime persone a lasciarci scritte le sue elucubrazioni sul perché del colore del cielo è il solito Aristotele, una persona che mai si sottrasse dall’opinare su tutto l’opinabile.

Aristotele era estremamente affascinato dal cielo e specialmente dalla meteorologia, perché secondo lui era la disciplina in cui la perfetta regolarità delle sfere celesti si scontrava con il caos e l’imprevidibilità del mondo terrestre. Resosi conto di quanto fosse un campo incasinato, Aristotele decise di scrivere un intero libro sulla questione, la Metereologica, fondando, tanto per cambiare, una intera disciplina.

Leggendo Aristotele, però, dobbiamo stare attenti ad una peculiarità linguistica che spesso finisce per essere “Lost In Translation”. Quasi da nessuna parte nella letteratura greca il cielo (o il mare) viene descritto utilizzando l’aggettivo blu: famosamente, nell’Odissea Omero dice che Ulisse affronta un mare nero come il vino. Quello che viene perso nella traduzione è il fatto che per i greci la luminosità di un colore era molto più importante della tonalità. Così, il termine kyanos (da cui il moderno ciano, il blu delle stampanti), viene utilizzato alternativamente per descrivere il colore del ferro, i capelli di Ettore, degli smeraldi, degli iridi e, tra le altre cose, il cielo.

Platone, il maestro di Aristotele, aveva un’idea molto semplice come teoria del colore. Gli occhi di ciascuno di noi sparano raggi visivi in ogni direzione, che poi andavano a toccare meccanicamente il bersaglio, e rimandavano indietro la percezione sulla base delle particelle di cui erano composte: più chiaro se erano piccole, più scure se erano grandi, e diversamente colorate a seconda che contenessero diverse quantità di aria/acqua/terra/fuoco, perché la chimica era più facile una volta.

Sono anche pedanti uguali, lui e Ciclope.

Sono anche pedanti uguali, lui e Ciclope.

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I giornali open access, la peer-review, l’editoria, e altre cose poco divertenti.

Avete mai provato a leggere un articolo scientifico ? Non quelli su Le Scienze o Focus o il blog di medbunker, proprio uno di quelli che gli addetti ai lavori chiamano “papers”, perché l’inglese è la lingua internazionale della scienza, e che io metto ogni tanto nei riferimenti bibliografici dei post del blog o della pagina di facebook ?

Facciamo un esperimento. Diciamo che volete controllare che io non abbia detto fregnacce nel mio vecchio articolo su cavoli e pesci che subappaltano il sistema immunitario. Andate alla fine dell’articolo, e trovate due riferimenti il primo punta a una pubblicazione scientifica che si chiama PloS One, l’altro ad un Journal (perché siamo international) un po’ più famoso, un certo Science.

Cliccate sul link che vi porta all’articolo di Science, e tutto quello che trovate è un paragrafo di testo.  Si  chiama abstract: è un riassuntino, asciutto asciutto, senza critiche ne senso, con il minimo indispensabile di informazioni per farvi sapere di che parla l’articolo intero. Però sotto vedete che c’è un link cliccabile con su scritto “Read Full Text”. E lo cliccate. E una bella mascherina vi salta fuori chiedendovi di fare login. Non siete iscritti a Science ? Facile, sborsate 150 dollaroni, e vi abbonate per un anno. Non vi frega niente di abbonarvi a Science ? Potete comprare il singolo articolo. Sono solo 20 dollari. Per 6 pagine. E, non è che lo pagate, ed è vostro: sarebbe il colmo. No, potete accedervi per un giorno soltanto.
Per fortuna è Science, e quindi la vostra biblioteca universitaria sicuramente paga l’editore perché voi, studenti, professori, ricercatori, possiate accedervi tramite Università.
Non siete universitari o accademici ? Eh, o trovate l’articolo per vie traverse usando la vostra abilità nel Google-fu, o dovete svuotarvi le tasche.

Il secondo link manda a PloS One. Un po’ scorati dall’esperienza precedente, cliccate lì. E, meraviglia, l’articolo c’è tutto, con tutti i grafici, i dati, la discussione, tutto scaricabile, senza sborsare un centesimo.

Qual’è la differenza ? Science è un Journal in abbonamento, PloS One è Open Access, a libero accesso. Non dovete avere niente più di una connessione internet per poterlo leggere. ” Bello! ” pensate. ” Dov’è la fregatura ? ”

Nel caso specifico, per voi che leggete la fregatura non c’è. PloS One è uno dei più rispettati giornali Open Access in assoluto: nella sua categoria, è l’equivalente di Science, e potete essere ragionevolmente certi che quello che c’è scritto nell’articolo sia passato attraverso la revisione paritaria o, per restare international, la ” Peer Review “.

E come funziona la Peer Review ?

Facciamo finta che io voglia pubblicare un articolo sul sistema immunitario degli invertebrati. Voglio dire che, checché ne dica il consenso generale della “scienza ufficiale”, gli invertebrati hanno un sistema immunitario adattativo, che si ricorda gli insulti precedenti, che può essere vaccinato. E’ una tesi controversa, perché ben poca gente, ad oggi, crede che ci sia questo tipo di immunità negli invertebrati. Ma io ho accumulato prove, riferimenti, fatto esperimenti, e voglio finalmente urlare alla comunità scientifica ” C’ho ragione io e voi non capite niente “.  Cambiare il consenso scientifico, di modo che cambi la pagina di wikipedia sull’evoluzione del sistema immunitario.

La Dafnia, o pulce d’acqua, è uno degli invertebrati su cui si fanno più studi per capire se questa immunità adattativa esiste o meno. Sì, non ho veramente idea di che immagini mettere in questo articolo, ma qualcosa devo pur mettere perché la pagina piombata è proprio brutta. Photocredits: Wikimedia Commons

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MERS-CoV, “La nuova SARS”, un anno dopo

Un anno dopo la comparsa della SARS sulla scena pubblica, con quel famoso comunicato della WHO nel 2003, il panico era ovunque, ma la nostra conoscenza del virus era cresciuta in maniera esponenziale. In poche settimane dall’identificazione del virus il suo genoma era stato sequenziato, la sua riserva in natura nota, la sua epidemiologia compresa, e i primi trattamenti efficaci diffusi. La SARS è stata una totale e assoluta vittoria della comunità scientifica, medica e logistica internazionale.

Il 20 settembre 2012, il Dr. Zaki rivela al mondo la morte di un uomo saudita, dovuta apparentemente a quello che sembrava essere un nuovo coronavirus, un lontano cugino della SARS. Ad oggi, abbiamo avuto oltre 130 casi, e 58 morti confermate.

Ad oggi stiamo parlando di una malattia infettiva emergente che uccide metà della gente che infetta, che è causata da un nuovo virus del quale non si conosce la riserva o l’ospite naturale, che si trasmette tra persone in un modo che non comprendiamo, un virus che sparso nell’ambiente rimane infettivo per chissà quanto, che ha già migrato tra nazioni, che potrebbe spargersi  in maniera asintomatica nel mondo e causare peggioramenti solo in concomitanza con altre malattie, e per il quale non esiste nessun vaccino o terapia antivirale che ha dimostrato di funzionare.

Siamo terribilmente, terribilmente in ritardo. Anche perché la malattia, al di là di pochi isolati casi (anche in Italia) sta colpendo principalmente i paesi del medio oriente, in particolare l’Arabia Saudita.

Arabia Saudita dove presto si riverseranno decine di milioni di pellegrini per l’Hajj. Se si volesse fare allarmismo, si potrebbe dire che è una bomba ad orologeria. Ma il paradosso è che siamo ancora ad un punto in cui non ne sappiamo abbastanza per quantificare il rischio. Che, nonostante la nostra incapacità di quantificarlo, esiste senza dubbio.

Dopo un anno dalla scoperta della SARS, erano già stati pubblicati più di un migliaio di articoli scientifici; ad oggi, Pubmed ne indicizza poco più di 200 sulla MERS-Cov.

Ma 200 articoli scientifici non sono pochi, e anche se grattano appena la superficie, possiamo usarli per cercare di capire quello che sappiamo, quello che sappiamo di non sapere, quello che non sappiamo di non sapere, e perché diavolo non siamo stati in grado di fare meglio in questo caso.

L’origine della specie

In analogia con la SARS, il virus che causa la Sindrome Respiratoria Medio-Orientale (Middle-Eastern Respiratory Syndrome, da cui MERS) è probabilmente una zoonosi, un virus trasmessoci da una qualche altra specie animale. I primi frammenti di genoma del virus ottenuti, una volta sequenziali, sono stati confrontanti con quelli di altri coronavirus noti, alla ricerca dell’origine del passaggio interspecifico del virus. Inizialmente, per pura comparazione di sequenza, il candidato ritenuto più probabile sembrava essere il pipistrello africano: il primo ceppo di MERS di cui si conosceva almeno parte del DNA, isolato da un paziente inglese, sembrava essere strettamente imparentato con un Coronavirus che colpisce i pipistrelli. Ma, tanto più che altri esperimenti si accumulavano lentamente, e tanti più i casi e le vittime aumentavano, l’idea di un passaggio diretto perdeva credito.  Nei casi sporadici di MERS, dove per sporadici si intende non direttamente collegati ad altre infezioni umane, concentrati per lo più in Arabia Saudita, sembra improbabile che la trasmissione sia causata da contatti coi pipistrelli africani visto che le specie di chirotteri interessate non sono certamente comuni in medio oriente, e generalmente i contatti tra esseri umani e pipistrelli sono piuttosto scarsi. Sin da quasi subito è dunque partita la caccia ad altro ospite intermedio, una riserva che facilitasse la zoonosi, la trasmissione del virus tra animale e uomo. Le ricerche di questo tipo sono ancora in corso, ma dopo aver considerato cani, gatti, pipistrelli, capre e babbuini, l’indiziato principale è il dromedario.

Sul Lancet Infectius Diseases, è stato pubblicato un articolo che, testando il sangue di svariate specie di bestiame provenienti da vari paesi medio orientali, alla ricerca di anticorpi specifici per questo nuovo virus. Tutti e 50 i dromedari testati, provenienti dall’Oman, hanno anticorpi con qualcosa di molto simile al MERS, abbastanza almeno da causare un falso positivo. Nell’uomo, i casi positivi ai test con gli anticorpi vengono considerati “probabili”, ma prima che il WHO si sbilanci richiede una serie di test più approfonditi, principalmente l’effettiva individuazione del DNA virale tramite PCR.

Questi dromedari sono animali “in pensione” da diverse scuderie dove vengono allevati per la corse. Il fatto che il 100% degli animali testati sia positivo non è molto probabilmente un caso.
I paesi più colpiti dalla MERS, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, producono e consumano una grande quantità di carne di camelidi vari, e gli autori sottolineano che molti di questi animali vengono anche importati dall’Africa, dove potenzialmente può essere avvenuto il primo salto di specie tra chirotteri e camelidi.

Non si può escludere che il virus sia solo simile alla MERS, e non effettivamente lo stesso che colpisce l’uomo, perché i virus non sono ancora stati effettivamente isolati da i cammelli, né si può escludere che esistano altre specie riserva, e che il virus passi facilmente da una specie all’altra, ma per quanto ne sappiamo, i dromedari sembrano essere la scommessa più sicura.

Da questo punto di vista, non è particolarmente rassicurante l’idea che durante i riti per l’Hajj in Arabia Saudita sia uso praticare la macellazione rituale di dromedari in pubblico come sacrificio religioso.

Per il compleanno del Virus, sul Lancet è stato pubblicata la più estesa indagine molecolare finora, cercando una sorta di albero genealogico delle trasmissioni nell’uomo per cercare di ricostruire gli eventi e individuare, se non il paziente zero, esattamente con cosa abbiamo a che fare. Il virus è stato isolato da un team congiunto Saudita-Britannico in 21 pazienti, riuscendo a sequenziare almeno 13 genomi completi. Confrontando queste nuove sequenze geniche, prestando attenzione alle mutazioni che questi virus accumulano molto velocemente passando da ospite ad ospite, si può indagare la storia naturale del virus (Per saper di più sulla filogenesi e gli orologi molecolari in generale, c’è questo articolo qui).

Combinando questi dati molecolari ai dati geografici, i ricercatori hanno fatto una scoperta inquietante. Uno dei virus sequenziati, isolato da un paziente a Riyadh il 23 Ottobre 2012 era su un ramo dell’albero genealogico completamente diverso da quello di un secondo virus isolato una settimana dopo, nella stessa città di Riyadh.

Questo significa che due ceppi di virus, discendenti da uno stesso antenato, stavano circolando nella città contemporaneamente, non visti, da abbastanza tempo per evolversi in due ceppi distinti. Un’infezione silenziosa, forse asintomatica, in corso almeno dal luglio 2011, più di un anno prima della prima individuazione della MERS.

Ipoteticamente, si potrebbe pensare che il passaggio tra riserva animale (diciamo il dromedario), sia avvenuto più di due anni fa, e poi ci sia stato un passaggio tra esseri umani, che ha spezzato l’albero in due rami, ma è molto improbabile: quando la sindrome si manifesta ha una mortalità troppo alta perché una cosa del genere possa passare inosservata.

L’alternativa è che il virus sia saltando continuamente tra animale e uomo, o magari addirittura da un ospite animale primario, a uno secondario, all’uomo. Questo spiegherebbe la divisione in ceppi e lignaggi distinti, e spiegherebbe come sia possibile la parentela tra un virus umano, uno di un cammello e un pipistrello su un altro continente.

Sono risultati contemporaneamente rassicuranti e terrificanti. Rassicuranti perché non esiste una catena ininterrotta di trasmissione da uomo a uomo, il che fa pensare, almeno preliminarmente, che questa sia difficile, o limitata a situazioni in cui le vittime sono pregressamente immunodepresse o indebolite. D’altro canto, è certo che il virus può trasmettersi da uomo a uomo, animale-animale e uomo-animale: il che significa che ha un sacco di occasioni perché possa mutare e diventare peggio, e se ciò avviene nella riserva animale, sulla quale abbiamo zero controllo in quanto non sappiamo con certezza quale sia, è un grosso, grosso problema.

 La selezione naturale ha bisogno di grosse popolazioni e molte generazioni perché una mutazione possa dominare sulle altre e diffondersi principalmente. Se un virus che infetta uno specifico individuo muta in una variante che aumenta la sua capacità di diffusione tra gli esseri umani, la probabilità che riesca a trasmettersi ad un altro essere umano, che possibilmente deve essere immunosoppresso, è molto bassa. Ma se esiste una popolazione di portatori sani, e specie animali che possono fornire nuove varianti continuamente, la probabilità che mutazioni vantaggiose si diffondano aumenta inesorabilmente. Quanto ? Non lo sappiamo, non ne sappiamo abbastanza.

L’origine di una pandemia? 

Per quanto i virus siano generalmente abbastanza fragili, sappiamo che nelle giuste condizioni ambientali molti possono rimanere integri e infettivi per ore, anche giorni al di fuori di un ospite. Le variabili che influenzano questa sopravvivenza possono essere molte, dalla temperatura, all’umidità, al pH. E’ uno dei motivi per cui l’influenza è stagionale.

Recentemente sono usciti i primi dati di ( su Eurosurveillance) sulla stabilità ambientale del coronavirus che causa la MERS, e non sono particolarmente rassicuranti. Il virus dell’influenza A, esposto su una superficie di acciaio o plastica, non sopravvive più di 4 ore, indipendentemente dalle altre condizioni ambientali.

MERS-CoV è in grado di sopravvivere 48 ore a 20 °C con il 40% di umidità sulle superficie, e anche in aerosol è resta molto stabile alle medesime condizioni, anche se diminuisce rapidamente all’aumentare dell’umidità relativa.

Il che significa che a condizioni di umidità e temperatura favorevoli, tipo, non so, quelle di un ospedale con l’aria condizionata, il virus può sopravvivere sulle superfici e nell’aria. Il che va a braccetto con l’alto numero di epidemie localizzate negli ospedali.

La WHO sta particolarmente attenta alle infezioni tra il personale sanitario, e la diffusione della malattia in questa categoria è considerata particolarmente preoccupante non solo perché sono più a contatto con persone immunodepresse e possono essere vettori, ma anche perché (almeno presumibilmente) seguono di routine tutta una serie di procedure per minimizzare i rischi di infezione, e se nonostante ciò diffondono la malattia non è un buon segno. Nell’epidemia di SARS del 2003, un quinto dei casi era costituito da personale ospedaliero.

Per ora i casi di questo tipo per il MERS-CoV sono limitati, ma è anche vero che il numero complessivo di infetti è molto minore: tre delle morti su 58 complessive attribuibili alla MERS hanno interessato personale sanitario, per un 5% di mortalità che è un dato preliminare ma non molto rassicurante.

La maggior parte dei casi finora confermati è in maschi più vecchi di 45 anni, mentre molti meno casi e nessuna morte è avvenuta tra i minori di 21 anni, che conferma l’idea che la MERS sia il risultato di un’infezione opportunistica.

In Italia, il caso finito sui giornali è stato quello di un quarantacinquenne giordano che ritornava in Toscana dopo un viaggio di 40 giorni nella sua patria nativa. Al ritorno presentava già sintomi influenzali con febbre e difficoltà respiratorie, ed è stato ospedalizzato il 28 Maggio 2013. Suo figlio, in Giordania, ha manifestato gli stessi sintomi, e anche la nipote, di appena un anno e mezzo, è risultata positiva al MERS-COV. Tra i contagiati da questo “vettore”, anche un collega di lavoro, con una incubazione apparente di 6 giorni. In tutti i casi, salvo il 45enne Giordano, le infezioni sembrano essere rimaste in un vicolo cieco, e tutti i contagiati di questo out break sono sopravvissuti. La trasmissione tra umani sembra difficile, e tendenzialmente non continua oltre individui che sono stati a stretto contatto con un caso confermato: la trasmissione sembra avvenire per via aerea tramite goccioline di dimensione superiore a 5 micron.

Se la trasmissione è per via aerea, perché le epidemie sono (per ora) limitate ? Non lo sappiamo, non con precisione. Ma ci sono indicazioni parziali da modelli animali.

L’unico modello sviluppato finora è il Macaco che, infettato con un il virus, sviluppa l’infezione nei tratti profondi del sistema respiratorio. I segnali clinici sono praticamente identici a quelli nell’uomo, e possiamo quindi essere ragionevolmente convinti che il MERS-COV abbia un tropismo per i pneumociti alveolari, il che può spiegare sia la limitata trasmissione umano-umano, sia la letalità dell’infezione.

Se il coronavirus non evolve, il rischio pandemia dovrebbe essere relativamente basso nei paesi occidentali, ma rischia comunque di colpire molto duramente le fasce già più deboli e svantaggiate della popolazione.

Ma una cura non c’è ?

E’ difficile trovare una terapia per qualcosa che non si sa bene come funzioni. Al limite dell’impossibile, oserei dire. Non esistono sul mercato antivirali efficaci contro i coronavirus, quindi l’unica terapia disponibile è di supporto al paziente (fluidi, ventilazione e perfino ECMO, antibiotici per infezioni secondari, etc.) . Ci sono però indicazioni per una combinazione di due farmaci antivirali (Interferone-alfa-2-b e ribavirin) che, dopo aver mostrato risultati promettenti in vitro, sono stati utilizzati nel macaco e hanno effettivamente mostrato una riduzione della replicazione del virus, e un miglioramento della condizione clinica. E’ una buona notizia, ma ci sono una serie di precisazioni da fare:

–       In primis, come già detto, il MERS-CoV si comporta per lo più come infezione opportunistica che colpisce individui immunosoppressi e/o deboli per altri motivi. I macachi utilizzati, come da normativa, sono individui giovani e sani a cui il virus è stato sperimentalmente inoculato, ragion per cui sono sin da subito in condizioni migliori per lottare contro il virus

–       In secondo luogo, il trattamento con questi antivirali è iniziato 8 ore dopo l’infezione (per motivazioni etiche, suppongo); nessun paziente umano può ragionevolmente aspettarsi che un infezione del virus sia riconosciuta in così poco tempo e il trattamento iniziato così rapidamente, almeno per ora

–       In generale, il MERS-CoV colpisce più severamente gli esseri umani che i Macachi, perché è meglio adattato all’uomo.

Tolti questi dati preliminari, non ci sono molte ragioni per essere ottimisti riguardo un trattamento efficace, almeno non nel breve periodo.

Perché ne sappiamo così poco ?

E’ facile giocare a scaricare il barile, e le colpe sono molte e molto ben distribuite. Ciò detto, il comportamento dei governi medio orientali, in particolare dell’Arabia Saudita, è quantomeno opinabile. In particolare, il Center For Disease Control e la WHO lamentano l’assoluta mancanza di cooperazione del governo saudita quando si tratta di condividere le informazioni sui pazienti. Il governo saudita si difende sostenendo che lo fa per proteggere la privacy dei pazienti, ma quelli che sono necessari agli esperti non sono certamente i dati sensibili, quindi si tratta di una scusa alquanto debole. Inoltre, fino a pochi mesi fa il governo sembrava facesse il possibile per insabbiare l’epidemia, nascondendo la sua diffusione; solo da poche settimane le televisioni e i giornali mandano messaggi per preparare la popolazione, ma che comunque non raggiungono le zone più remote della nazione, dove si sono verificati la maggior parte dei casi. Inquietantemente, anche il personale ospedaliero delle città colpite dal virus tipicamente nega anche di fronte all’evidenza che la MERS abbia colpito, quasi a voler nascondere un disonore; e un solo laboratorio in tutta la nazione è abilitato a verificare che i casi definiti “probabili” siano effettivamente causati da questo coronavirus: una procedura che non solo rallenta terribilmente le operazioni, ma che permette anche una sorta di censura governativa. E’ raro che si possa usare la Cina come termine di paragone per la trasparenza, ma in questo caso l’Arabia Saudita si sta comportando molto peggio di quanto la Cina abbia fatto con l’influenza Aviaria (in cui, per la verità, il comportamento cinese è stato ineccepibile), e con la SARS. Quando ci si lamentava della mancanza di cooperazione orientale, non ci si aspettava certamente che l’Arabia Saudita, il paese più amico delle superpotenze dell’occidente in medio oriente, potesse fare peggio.

– Ultimo Update: 28/09/2013

Bibliografia:
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=%3Cli%3E+A.M.+Zaki+et+al.+Isolation+of+a+Novel+Coronavirus+from+a+Man+with+Pneumonia+in+Saudi+Arabia.+N+Engl+J+Med.+(2012)
http://www.who.int/csr/disease/coronavirus_infections/update_20130920/en/index.html
http://www.eurosurveillance.org/ViewArticle.aspx?ArticleId=20596
http://www.pnas.org/content/early/2013/09/18/1310744110.short?rss=1
http://www.nature.com/nm/journal/vaop/ncurrent/abs/nm.3362.html
http://online.wsj.com/article/SB10001424127887324807704579086821158272430.html?mod=wsj_share_tweet

Il Gallo che scoprì il Gallio (e la tavola periodica)

Oggi è il 138esimo anniversario della scoperta del Gallio. Può sembrare una nozione assolutamente inutile, ma in realtà è stata uno dei momenti più importanti nella storia della chimica, per cui vale la pena spenderci due righe.

E’ il 1871. Dimitri Mendeleev ha pubblicato la sua prima versione della tavola periodica. E’ uno strumento nuovo che cerca di organizzare in maniera sistematica le conoscenze sugli elementi noti al tempo. Purtroppo per Mendeleev, però, ha dei buchi: perché torni la periodicità, dovrebbero esistere degli elementi che non sono mai stati isolati.

La tavola periodica di Mendeleev. I trattini ripetuti erano gli elementi ignoti al momento della sua composizione.

” Sono rari “, dice Mendeleev, e su alcune caselline vuote scrive Eka-alluminio, Eka-silicio e Eka-germanio, assieme alle proprietà che la sua tavola prevede. ” Sei un cialtrone”, gli risponde la società internazionale di chimica, che paragona la sua nuova tavola alla Legge degli Ottavi di Newlands, un precedente tentativo di sistematizzare gli elementi chimici che conteneva intuizioni sorprendentemente giuste, condannato al ridicolo da un parallelo infelice con le ottave musicali.

Il sistema periodico di Newlands. Cinque anni dopo il riconoscimento della tavola periodica di Mendeleev, la Società di Chimica Internazionale fece marcia indietro, riconoscendo il lavoro pionieristico di Newlands e conferendogli la sua medaglia d’oro, oltre che un pacco di soldi. Ben meritati, visto che sulla base di questo lavoro Lewis costruirà la regola dell’ottetto.

Il fatto di doversi “inventare” degli elementi per mantenere la periodicità della sua tavola, non piaceva ai contemporanei di Mendeleev. Sembrava un ipotesi ad hoc, un trucco per far tornare i conti, più che una legittima previsione.
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Sopravvivere all’olocausto fa bene alla salute

Qualche giorno fa, in occasione dell’anniversario del bombardamento di Hiroshima, il sempre bravo Gianluigi Filippelli ha scritto un interessante articolo dal provocatorio titolo ” I salutari effetti della bomba atomica “. La conclusione della review riportata da Filippelli però la riporto, in due righe, anche qui:

The evidence presented indicates that acute, low dose irradiation induced lifetime health benefits for Japanese survivors of atomic bombs. (…) The flash exposure for those in Hiroshima and Nagasaki was equivalent to a radiation vaccination. That suggests an important concept. These data indicate that acute exposure to low dose irradiation is adequate, with or without chronic exposures, to provide lifetime health benefits.(1)

Cioè, se ignoriamo per un momento tutti gli ovvissimi effetti collaterali immediati delle bombe, incredibilmente i sopravvissuti hanno tratto dei benefici per la loro salute. Che è una cosa apparentemente fuori dal mondo, roba che se non avendo i risultati alla mano la reazione spontanea di una persona normale sarebbe ribaltare il tavolo ed andarsene.

Ma, siccome io non sono normale, ho deciso di prendere quella di Dropsea come una sfida a trovare qualcosa di più inaspettatamente benefico per la salute. E come il titolo sopra dice, nella maniera più infiammatoria che mi venisse in mente: sopravvivere all’olocausto fa bene alla salute.

E’ la conclusione di questo paper che trovate in libero accesso su PLOS ONE, dall’eloquente titolo ” Against All Odds: Genocidal Trauma Is Associated with Longer Life-Expectancy of The Survivors “. E’ un risultato interessante anche perché dubito che i ricercatori, due dei quali sono di origine ebraica, e finanziati da associazioni come il ” Center for Advanced Holocaust Studies”, lo ” United States Holocaust Memorial Museum “, si aspettassero questo risultato.

Gli autori inizialmente si rifanno ad una grande meta analisi, con più di 12 mila partecipanti, che mostra come coloro che sono sopravvissuti all’Olocausto mostrano molti sintomi da stress post-traumatico (ma và?) ma nessun generale deterioramento delle capacità cognitive o della salute fisica. La meta analisi in questione non aveva però raccolto alcun tipos di dati sulla sopravvivenza e la speranza di vita, e quindi gli autori si son lanciati in questa impresa.

Se avete letto il mio precedente articolo sull’intelligenza dei vittoriani e il selection bias e ne avete colto la morale (sbagliando il campionamento tutto il resto non è attendibile), vi sarà chiaro che la difficoltà più grande per questo studio sia effettivamente trovare un gruppo di persone il più simile possibile a chi ha sofferto per l’olocausto, senza però aver dovuto sottostare ad un genocidio. Non solo: per quanto l’olocausto degli ebrei possa essere considerato un evento di stress acuto confrontato con la vita intera di una persona, bisogna che la vita prima e dopo l’olocausto, dei due gruppi che vai a comparare fosse il più simile possibile, per evitare altri fattori confondenti.

Per costruire i due gruppi, quindi, i ricercatori hanno considerato gli ebrei emigrati dalla Polonia in Israele subito prima dell’Olocausto (dal 1919 al 1939), e quelli emigrati in Israele, di origini polacche, subito dopo l’olocausto (Dal 1945 al 1950). Il gruppo di controllo non è perfetto, chiaramente, perché si possono immaginare obiezioni per cui i due gruppi non sono comparabili, ma vista la questione è difficile fare meglio di così: il background genetico è più o meno lo stesso, l’ambiente di vita dopo l’olocausto è più o meno lo stesso, e usando i dati del censimento si sono stratificati i campioni in base alle condizioni socioeconomiche, per evitare effetti falsati dal confrontare un gruppo ricco con un gruppo di poveri, e in classi di età.

Precisazione importante: sopravvissuti all’olocausto NON SIGNIFICA sopravvissuti all’internamento in un campo di concentramento: il gruppo dei sopravvissuti include non solo coloro che sono stati liberati dai campi di prigionia, ma anche chi era nascosto in conventi o altrove.

” Ma allora è una stronzata! ” direte voi impulsivamente: in realtà, è effettivamente una procedura che ha un senso visto che si vuole misurare l’effetto dello stress. Come ho detto prima,  ci sono studi precedenti su campioni enormi che ci dicono che l’effetto sul lungo periodo delle deprivazioni dei campi di prigionia sono abbastanza piccoli; quello che gli autori vogliono misurare è l’effetto del trauma psicologico del genocidio sulla speranza di vita.

In ogni caso, l’effetto finale trovato è talmente grande che sinceramente sarei sorpreso se fosse solo un artefatto statistico:  analizzando in totale 55220 uomini e donne, salta fuori che i sopravvissuti all’olocausto sopravvivono 6.5 mesi più a lungo di quelli che l’olocausto l’hanno evitato stando in Israele. L’effetto è ancora più grande per gli uomini, per i quali la speranza di vita aumenta in media di 14 mesi, o addirittura diciotto se nel 1940 erano tra i 16 e i 20 anni. E’ un risultato assurdo. Come lo spieghiamo ?

La mia prima idea, leggendo il paper, era comunque un effetto di selezione. Perché se è vero che gli autori hanno cercato disperatamente di abbinare i due gruppi, sopravvivere all’Olocausto non è una variabile casuale. Considerato lo stress, l’asperità, le difficoltà etc, non è difficile immaginare che le persone che sono sopravvissute siano quelle che già dall’inizio erano le più in salute, mentre i più deboli e malati non ce l’hanno fatta. Il gruppo di controllo, che non ha dovuto subire questo terribile esperimento di selezione artificiale, contiene anche gente che per ragioni genetiche o ambientali è generalmente meno in forma, e quindi abbassa la media. In realtà gli autori considerano brevemente questa possibilità, ma non è la spiegazione che ritengono più probabile:

An alternative interpretation would be differential mortality, meaning that those vulnerable to life-threatening conditions had an increased risk to die during the Holocaust. Holocaust survivors by definition survived severe trauma, and this may be related to their specific genetic, temperamental, physical, or psychological make-up that enabled them to survive during the Holocaust [12]–[15] and predisposed them to reach a relatively old age.”

Secondo gli autori del Paper, la spiegazione più probabile è ” L’effetto di crescita post traumatica “.

Such findings may highlight the resilience of survivors of severe trauma, even when they endured psychological, nutritional, and sanitary adversity, often with exposure to contaminating diseases without accessibility to health services. This may be considered an illustration of the so-called posttraumatic growth [9] that is observed to occur, for example, in soldiers having experienced combat-related trauma but finding greater meaning and satisfaction in their later lives because of those experiences.

Che darebbe ritrovata veridicità al proverbio ” Ciò che non mi uccide mi rende più forte ” (o quanto meno mi dà EXP)

Nelle parole di uno degli autori, il professor Sagi-Schwartz :
“The results of this research give us hope and teach us quite a bit about the resilience of the human spirit when faced with brutal and traumatic events”

Io, sarà che sono cinico, sono ancora abbastanza convinto che sia un effetto di selezione, ma l’effetto paradossale rimane: sopravvivere all’olocausto allunga la vita.

ResearchBlogging.org
Sagi-Schwartz A, Bakermans-Kranenburg MJ, Linn S, & van Ijzendoorn MH (2013). Against all odds: genocidal trauma is associated with longer life-expectancy of the survivors. PloS one, 8 (7) PMID: 23894427

L’intelligenza dei vittoriani (e il selection bias)

Hey, sono finalmente in ferie.

Il che significa che posso andare a prendere articoli scientifici vecchi di due mesi, sculacciarli perché contengono cattiva scienza con una gran dose di alterigia, e avere comunque tutto il tempo che mi serve per cancellare tutti i commenti che non dicono ” OMG MM ma quanto hai ragione? “.

Questo articolo pubblicato su “Intelligence” è finito perfino sulla stampa generalista ( es. su repubblica ) per via della sua conclusione che comunque piace ai nostri istinti nostalgici: stiamo diventando tutti più idioti. Ah, “ai miei tempi si leggeva… ora tutti a instupidirsi davanti a facebooke”. Secondo gli autori, la migliore educazione, la migliore alimentazioni, le migliore cure rispetto al passato non riescono comunque a mascherare il fatto che nel 1880 la gente era biologicamente più intelligente.

Perché secondo loro siamo diventati più scemi ? Perché c’è una correlazione inversa tra intelligenza e fertilità, per cui la gente più stupida fa più figli, e quindi presto saremo invasi da oceani di gente mentalmente sottosviluppata, alla faccia di quelli che credono che l’evoluzione sia un continuo trionfo verso il progresso. In pratica, la trama di Idiocracy.

Ci si aspetta questa diminuzione generale dell’intelligenza da quando ci si è resi conto del collegamento inverso tra intelligenza e fertilità, ma questo pattern si rifiuta di diventare palese: anzi, su ogni generazione bisogna rinormalizzare a 100 i test del QI, per colpa di quello che in gergo viene chiamato Effetto Flynn. Più o meno 5 punti di QI in più per generazione, effetto che viene normalmente spiegato con fattori sociali vari (migliore educazione, nutrizione, etc.) piuttosto che con un’evoluzione reale.

A prima vista lo studio, che si intitola ” Were the Victorians cleverer than us? The decline in general intelligence estimated from a meta-analysis of the slowing of simple reaction time ” sembra fatto bene. Ma solo a prima vista.
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