Archivio Categoria: Storia

Il mulo di Fairchild e il sesso nelle piante

Durante il diciassettesimo secolo, i giardini inglesi cominciarono a riempirsi di bastardi, muli, mostri, canaglie, freaks e altre stranezze assortite. Naturalisti e giardinieri di ogni tipo erano disposti a pagare bei soldoni per queste nuove piante che sembravano miscugli di altre piante segnate negli erbari. Ma erano i filosofi naturali che in particolare erano ossessionati da queste stramberie.

Nella prima metà del 1600 Nehemiah “Nel tempo libero ho inventato l’anatomia vegetale” Grew aveva proposto la sconvolgente e controversa idea che le piante avessero due sessi. Rubacchiando dagli appunti del grande microscopista italiano Marcello Malpighi, teorizzò che gli stami fossero gli organi maschili dei fiori, e che il polline era lo sperma maschile. Fu un ligio osservatore, ma non si sporcò mai le mani a dimostrarlo: ci volle un medico tedesco, Rudolf Jakob Camerarus, per dimostrare in una dozzina di piante differenti che sì, per fare i semi le piante dovevano fare sesso. Di fonte a queste scoperte, gente come John “ho inventato il concetto biologico di specie” Ray e Carl “tienimi la birra che devo inventare la tassonomia” Linneo cominciarono a classificare le piante esaminando gli organi riproduttivi e quali si potevano incrociare.

Ma un sacco di piante si rifiutavano di comportarsi bene e lasciarsi classificare. Da cui, la pletora di aggettivi infami con cui venivano coperti. Alcuni nella prima metà del 1700, stavano cominciando a tirare in ballo concetti allucinanti ed eretici, come la trasmutazione delle specie (gasp!) o addirittura l’evoluzione (stragasp!).

Prima però che si diffondessero certe idee balzane, il mistero di questi bastardi fu risolto da Richard Bradley, professore di botanica a Cambridge, e dal modesto giardiniere e fiorista Thomas Fairchild.

Thomas Fairchild, sulla sinistra in un ritratto, e Nathaniel Grew, sulla destra, da un’incisione a legno, entrambi autori ignoti. Già questo dà l’idea di chi dei due si sporcava le mani. Public Domain

Nel 1717, Fairchild aveva intenzionalmente incrociato il Garofano comune (Dianthus caryophyllus) e il Garofano dei poeti (Dianthus barbatus), due piante simili all’occhio di una persona qualsiasi, ma non ad una persona “Naturalmente incline al Genio” come si autodescriveva Bradley. Quello che nè uscì fu il primo ibrido artificiale che conosciamo, il “mulo di Fairchild “, di cui è sopravvissuto questo esempio nell’erbario dell’università di Oxford. Mulo, perché come il mulo, la pianta era sterile, e non faceva semi.

Per chi come me non è un piantologo e non ha in testa com’è il garofano comune figuriamoci quello dei poeti:
A sinistra catyophyllus, a destra barbatus, foto di Noordzee23 e Hitromilanese via wikimedia commons, su licenza CC BY-SA 4.0

Uno dei due muli di Fairchild sopravvissuti, quello dell’Università di Oxford. L’altro lo ha il museo di Storia Naturale di Londra, e sono leggermente diversi, probabilmente perché Fairchild fece più incroci tra più genitori diversi per trovare nuovi fiori da vendere. Photocredits: Oxford University

In un sol colpo, questo confermava che le piante facevano sesso, che la definizione biologica di specie funziona, e che non c’è nessuna trasmutazione o nuove specie naturali sulla terra, solo rimescolamento di quello che c’è già, stai trà arcivescovo! Dai, in 1 su 3 ci avevano preso.

Oggi gli ibridi di prima generazione, sterili o meno che siano, sono la spina dorsale dell’agricultura, dell’orticultura e del miglioramento vegetale. E sono tutte nate da un mulo.

Photocredits: Oxford University
Bibliografia: History of Botanical Science: An Account of the Development of Botany, Alan G. Morton

Le Vestiges e l’origine delle pseudoscienze

In 1844, Robert Chambers, un autore ed editore scozzese, pubblicò un libro di storia naturale, Vestiges of The Natural History Of Creation (tradotto in italiano in tiratura assai limitata come Storia Naturale della Creazione) in forma totalmente anonima.

Il frontespizio della prima edizione

Il frontespizio della prima edizione

Nel libro, Chambers sostiene che tutti gli organismi, inclusi gli esseri umani, sono il risultato di un lungo, lento processo di sviluppo da materia inorganica verso forme primitive e via via più complesse. Nella sua opera Chambers ricicla pezzi da ogni sorta di fonte, dalla nascente geologia al tradizionale folklore britannico, passando per i filosofi naturali illuministi. Da Kant e Laplace ad esempio prende in prestito l’ipotesi delle nebulose, sostenendo che l’universo intero si era condensato da semplice gas; descrive come la condensa sui vetri sgocciolando forma strutture indistinguibili dalle felci; narra di come riesce a far nascere insetti da scintille elettriche, e di come gli esseri umani non sono la forma finale di questo processo di, ehm, evoluzione, ma che una futura “razza superiore” potrebbe sostituirci. Il libro, anche grazie ad una scrittura considerata brillante, fu un grande successo editoriale e di pubblico, ma detiene anche un interessante primato: è uno dei primi libri nella storia ad essere descritto con il termine pseudoscienza.

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Apocalisse Azteca, fuori tempo massimo

Una persona sana di mente, o quantomeno non totalmente e indicibilmente pigra, probabilmente avrebbe scritto di escatologia azteca e miti sull’apocalisse tipo, non so, quattro anni fa, nel mezzo dell’isteria collettiva per il 2012, quando la gente (e per gente intendo Giacobbo) era piena d’interesse. Ma io sono irragionevolmente pigro e non del tutto sano di mente, ergo metà Aprile 2016 è un momento buono come un altro per raccontare (più o meno) uno dei miti fondamentali del mondo mesoamericano: la leggenda dei cinque soli (o della quinta apocalisse, se vi è utile da usare come titolo per acchiappar più click).

Gli aztechi credevano in un dio creatore primigenio, Ometeotl, che, per ragioni non del tutto chiare, creò quattro divinità, una per ciascuna delle quattro direzioni cardinali, e gli delegò il compito di creare il mondo.

Le quattro divinità, bontà loro, si misero d’impegno per ordinare il mondo dal caos primigenio. Ma siccome il Sole non esisteva ancora, la maggior parte delle loro creazioni cadeva nel Grande Vuoto, dove veniva divorato da Cipactli, il Grande-Demone-Marino-Rospo-Coccodrillo-Con-Bocche-Su-Ogni-Articolazione-E-Denti-Su-Tutto-Il-Corpo.

Cipactli, il Grande-Demone-Marino-Rospo-Coccodrillo-Con-Bocche-Su-Ogni-Articolazione-E-Denti-Su-Tutto-Il-Corpo

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La vita, le opere e il genere(!?) del Dottor Barry

Nel luglio del 1865, a Londra, il Dottor James Barry, che aveva ottenuto il rango di Inspector General of Military Hospitals, il più alto grado per un ufficiale medico nell’esercitò inglese, morì di dissenteria.

Il suo ultimo desiderio fu che il suo corpo non fosse toccato, neanche per essere aggiustato per la sepoltura, dopo la morte; ma vista la situazione, una donna zelante decise di andare contro all’ultimo desiderio del defunto.

E scoprì che il defunto Dr James Barry, uno dei medici più rispettati d’Inghilterra, era una donna.

Un ritratto di James Barry nel 1813, autore ignoto

Un ritratto di James Barry nel 1813, autore ignoto.

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Haeckel: evoluzionista, artista, antipapa

Non scrivo quasi mai in occasione di anniversari perché ciò richiede due skill critiche (essere puntuali e non essere pigri) che non ho minimamente, ma oggi è il compleanno di Ernst Haeckel, probabilmente uno dei 10 biocosi più importanti della storia della biologia, quindi faccio un’eccezione e ci provo.

Se avete presente Haeckel lo avete presente per una di due cose: le stampe litografiche sparaflesciose che faceva e che ancora adesso sono un capolavoro, o il fatto che è quello che ha promulgato la legge biogenetica, alias ” L’ontogenesi ricapitola la filogenesi “, alias ” Se guardi un embrione umano mentre si sviluppa all’inizio sembra un pescetto, poi un rettilino, poi un mammiferotto, e infine una persona, come se durante lo sviluppo embrionale ripercorresse tutto il suo albero genealogico a ritroso.”

A fare i pignoli, no, non è vero che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi: è un’analogia carina, che funziona e rende l’idea, ma insomma, no, la realtà è più complicata di così. Ma era un precetto fondamentale della versione della teoria dell’evoluzione di Haeckel, di cui però raramente si fa menzione perché si è tutti impegnati a tirar in mezzo Lamarck (A questo proposito: avete mai provato a leggere gli scritti di Lamarck? Non si capisce niente orcoschifomadò. Praticamente che abbia detto qualcosa sull’eredita dei caratteri acquisiti lo devo prendere per atto di fede).

Haeckel aveva studiato medicina in Germania, ma della medicina gli fregava relativamente: era rimasto fulminato da quella che era in quel momento (prima metà del 1800) la teoria scientifica figosa du jour: l’idea che la vita fosse fatta da cellule. Una volta che ha una cattedra, a Jena, prende e scappa in sud Italia, dove si mette a studiare gli invertebrati marini, perché nelle loro forme macroscopiche vede chiari collegamenti con la loro natura microscopici. Ah, che bei tempi il 1850, quando i cervelli in fuga erano verso l’Italia invece che da!

La maggior parte delle stampe di Haeckel sono di dominio pubblico! Gioa gaudio e tripudio! Questo viene da Kunstformen der Natur, la piastra nello specifico è quello sui Prosobranchia, una sottoclasse di molluschi gasteropodi, ed è stata scelta esclusivamente perché contiene "Proso" nel nome.

La maggior parte delle stampe di Haeckel sono di dominio pubblico! Gioa gaudio e tripudio! Questo viene da Kunstformen der Natur, la piastra nello specifico è quello sui Prosobranchia, una sottoclasse di molluschi gasteropodi, ed è stata scelta esclusivamente perché contiene “Proso” nel nome.

Si studia quindi bene radiolari e cnidari vari, finché non gli capita in mano, intorno al 1860, la traduzione in tedesco dell’Origine Delle Specie. La sua reazione è ” FIGATA PAZZESCA ADESSO VADO IN MEZZO ALLA STRADA E URLO AL MONDO QUANTO HA RAGIONE DARWIN ” torna in patria e più o meno fa quello, al punto di diventare uno dei più accaniti propositori dell’evoluzione fuori dal Regno Unito, nonché uno dei responsabili primari del fatto che per mezzo secolo la Germania sarà all’avanguardia nello studio di tutte le bioscienze.
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Nella tela della selezione di gruppo

Intorno al 1960 l’evoluzione aveva trionfato. Forse anche grazie alla rivoluzione culturale, tolti pochi baluardi come la bible belt del sud degli USA per ragioni più politiche che intellettuali, la teoria proposta appena un secolo prima da Darwin si era definitivamente cristallizzata nella Sintesi Moderna non solo negli ambienti intellettuali, ma anche nei programmi scolastici. Si era arrivati, 20 anni dopo il libro omonimo di Julian Huxley, ad avere un sistema completo e integrato che metteva insieme Darwin, Mendel, selezione naturale, genetica di popolazione e deriva genetica. Le principali novità teoriche erano più vecchie, degli anni trenta e quaranta, ma erano finalmente passate attraverso il setaccio che separa le torri d’avorio dalla cultura popolare.

Il problema è che quando si passa attraverso un setaccio, si perde sempre qualcosa. E tra le cose che rimasero al di sopra della maglia, e che invece sono tornate di moda nell’ultimo periodo, c’è la selezione di gruppo, che ultimamente è tornata alla ribalta (purché per ultimamente intendiate “negli ultimi trent’anni” e per ribalta intendiate “Vecchi barbosi si scannano sulla validità del concetto”).

Facciamo però un passo indietro, e partiamo dall’inizio invece che in media res. E come spesso succede in questo campo, per partire dall’inizio bisogna andare dal barbuto per eccellenza: Carletto Darwin.

La teoria dell’evoluzione darwiniana originale, quella rivoluzionaria dell’origine delle specie, è inquadrata in termini di individui. E’ l’insetto che si nasconde meglio che si riproduce di più e trasmette le sue capacità mimetiche ai figli: è un singolo specifico insetto (Prendiamoci confidenza, chiamiamola Genoveffa) che trasmette il tratto alla prole. I figli di Genoveffa hanno un vantaggio locale perché sopravvivono meglio di tutti gli altri insetti non-genoveffini con cui hanno un ambiente condiviso. Quello che la selezione naturale “vede” è Genoveffa e la sua prole individualmente per decidere se sono mimetizzati bene o no.

Se teniamo questo livello di zoom, tratti che aiutano altri individui non sono localmente vantaggiosi. Genoveffa decide, invece di deporre uova, di aiutare a crescere i figli dei vicini: per quanto l’azione sia per il bene del gruppo di insetti che vivono in uno stesso luogo, a livello individuale è localmente svantaggiosa, perché non fare figli significa che il tratto “aiutiamo gli altri” di Genoveffa muore con lei.
L’evoluzione di tratti vantaggiosi per il gruppo ma svantaggiosi per l’individuo sono un problema teorico non semplice per la teoria dell’Evoluzione, al punto che è una di quelle cose su cui i creazionisti si buttano alla disperata ricerca di buchi. Darwin, che di sicuro era più sveglio di me, si rese subito conto del problema quando si trovò a doverlo affrontare parlando di morale umana ne “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”. Darwin scrive (parafraso leggermente per non dover citare due pagine intere) che per quanto essere più “morali” e “altruisti” non conferisca alcun vantaggio a ciascun individuo e ai suoi figli rispetto ai membri della sua stessa tribù, dà un grande vantaggio al suo gruppo rispetto ad altre tribù. Una tribù in cui la gente si sacrifica per il bene comune perché piena di empatia coraggio e obbedienza sostituirà una tribù di stronzi egoisti, e anche questa è selezione naturale.

Darwin, insomma, non aveva problemi a dire: “Sì, beh, guardiamo l’individuo e la lotta per la sua sopravvivenza, però quando serve possiamo anche guardare la lotta tra gruppi e la loro sopravvivenza”. David Sloan Wilson, che è il principale teorico moderno in favore di questa idea, la chiama “selezione multilivello”.

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Hasta i Vittoriani siempre

A volte ricevo mail su articoli che ho pubblicato qui. Il più delle volte, sono mail totalmente e completamente folli, come quel tizio che voleva convincermi che nei cromosomi c’è la prova della divinità della Bibbia, visto che in Genesi c’è scritto che Eva è stata creata togliendo una costola ad Adamo e il cromosoma Y ha un braccio in meno del cromosoma X.

A volte sono cose che mi lasciano semplicemente perplesso: mail vuote che hanno come oggetto solo “Re:” e nel testo solo un link. Nel caso specifico, questo link.

Più o meno un anno fa scrissi un blogpost in reazione ad un paper, popolarissimo nella stampa generalista, che sosteneva che i Vittoriani erano più intelligenti di noi e col tempo stiamo diventando tutti scemi. A quanto pare la gente che vuole fare del passato imperiale inglese un mondo ideale non manca: ed ecco che il link qua sopra vorrebbe persuadermi che l’età Vittoriana era l’età d’oro della salute umana, in cui la speranza di vita era superiore a quella moderna, in cui nessuno assumeva alcool o tabacco, il cibo industrializzato non aveva rovinato la nostra salute, e le malattie degenerative non esistevano.

In pratica, in barba a WHO, vegetariani vari e 200 anni di scienza della nutrizione, la dieta ideale esiste ed è più o meno quello che mangiava Darwin.

E, giusto per dovere di cronaca, partiamo con il dire che sono profondamente pregiudizievole contro questo tipo di argomentazioni ancora prima di leggerle nel merito. Perché, per quanto supporre che il presente sia l’ultima parola sul progresso e il benessere umano sia arrogante e opinabile, tutte queste affermazioni che vogliono indorare il passato come fosse un mito arcadico mi fanno veramente cadere le braccia. Negli ultimi 50 anni la medicina ha visto la comparsa di vaccini per la polmonite, per le meningiti, per le epatiti, per il morbillo e per l’HPV; RM, PET, TAC e altre sigle diagnostiche improponibili; chirurgia laser, chirurgia robot, telechirurgia, chirurgia estetica e liposuzione; centinaia di farmaci tra cui fluoxetina, paroxetina e mirtazapina, per cui ho particolare affetto; abbiamo avuto il tempo di inventare e far perdere di efficacia per colpa di uso sconsiderato una dozzina di antibiotici; cuori artificiali, coclea artificiali e arti artificiali così efficaci che se provi ad usarli per competere alle olimpiadi alla gente viene il serio dubbio che ti avvantaggino; occhi artificiali e fegati artificiali sono lì lì dietro l’angolo. Abbiamo un posto dove puoi accedere da qualsiasi parte nel mondo e avere accesso ad una versione approssimativa di tutto il sapere umano, dai fossili di generi di lemuri estinti a strani formaggi polacchi.

Ma, a quanto pare, quando lo stato dell’arte della medicina era un corpetto coi magneti per far crescere le tette e l’arsenico era sicuro e onnipresente, i vittoriani (che giustamente erano più intelligenti di noi) avevano trovato lo stile di vita e la dieta perfetta per una vita senza malanni.

Ora, io posso capire che a leggere Ugo Bardi alla gente venga il male di vivere, e che spesso queste affermazioni pro-saggezza-millenaria-si-stava-meglio-quando-si-stava-peggio siano più che altro motivate da comprensibile furia contro lo status quo che da un genuino credere che sotto la regina Vittoria la gente stesse alla grande; ma vedere scritto in letteratura scientifica, che tra il 1850 e il 1870 ” a generation grew up with probably the best standards of health ever enjoyed by a modern state. ”  mi fa quasi rivalutare la costola di Adamo.

Messo in chiaro che sono più pregiudizievole di un membro del Ku Klux Klan a Lampedusa, andiamo a vedere quali sono le argomentazioni e le prove che Clayton e Rowbotham portano nel loro articolo pubblicato sull’International Journal Of Environmental Research And Public Health (Impact Factor: 1.99).

Quello che vogliono sostenere, nello specifico, è che:

We argue in this paper, using a range of historical evidence, which Britain and its world-dominating empire were supported by a workforce, an army and a navy comprised of individuals who were healthier, fitter and stronger than we are today. They were almost entirely free of the degenerative diseases which maim and kill so many of us, and although it is commonly stated that this is because they all died young, the reverse is true; public records reveal that they lived as long – or longer – than we do in the 21st century. These findings are remarkable, as this brief period of great good health predates not only the public health movement but also the great 20th century medical advances in surgery, infection control and drugs,

 

Che, tradotto in breve per la mia mamma, significa che l’Impero Britannico aveva una forza lavoro, un esercito e una marina più in salute, più forte e più atletica di quanto non siamo noi moderni, in cui le malattie degenerative sostanzialmente non esistevano, e che vivevano tanto a lungo, se non più a lungo di noi, nonostante spesso si dica il contrario, il tutto ben prima dell’invenzione non solo della medicina pubblica, ma anche degli antisettici e dei primi farmaci.

Una affermazione sorprendente, e, direbbe qualcuno, straordinaria. Su quale evidenze si basa?
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Sferoidi oblati, triangoli e orologi: la misura della terra né piatta né tonda

Recentemente su Italia Unita Per La Scienza è uscito un post in due parti (Prima e Seconda) sul mito della terra piatta nelle ere. Per una fortuita coincidenza, ho iniziato da poco a leggere il Ciclo Barocco di Neal Stephenson, una mostruosità da 3000 e rotte pagine di romanzo storico sulle origini della scienza illuminista scritto da un famoso autore di fantascienza; una lettura leggera sotto l’ombrellone.

Che c’entra? C’entra perché (Spoilers?) uno dei personaggi del romanzo, pre-Newton, utilizza un pendolo per dimostrare che la forza di gravità diminuisce allontanandosi dal centro della terra. Il collegamento resta oscuro (mancano un po’ di passaggi) ma ho fatto l’associazione di idee con il post di IxS visto che è per merito di un pendolo che si è passati dal considerare la terra una sfera al più accurato sferoide oblato. Ergo, prima che mi dimentichi del tutto come si fa a scrivere visto che son passati mesi dall’ultimo post, uno spiegone su come sappiamo che la terra non solo non è piatta, ma non è neanche una sfera.

Partiamo dall’ultima parte del trittico del titolo: gli orologi. Intorno al quattordicesimo secolo, in Italia, nei campanili, cominciano ad apparire orologi con scappamento a verga. Lo scappamento è, per farla semplice, il meccanismo che determina ogni quanto l’orologio ticchetta; lo scappamento a verga ha una corona coi denti a seghetto e una verga che, con due palette, blocca la rotazione della corona in passi fissi della durata di un tic.  Il problema intrinseco di questo tipo di meccanismo è che la regolarità del ritmo dipende moltissimo dall’attrito del sistema: se i denti della corona si consumano, o una paletta impiega anche una frazione di secondo in più del dovuto a spostarsi, o la verga non è ben lubrificata, ecco che subito cominciano i casini e l’orologio perde rapidamente di precisione.

Lo schema di uno scappamento a verga, da Henry Evers (1874), A Handbook of Applied Mechanics, William Collins & Sons, London, fig.58, p.153 Pubblico Dominio

Anche gli orologi ad acqua, l’altra alternativa popolare del periodo, che sfruttavano la regolarità del flusso dell’acqua attraverso un poro, hanno lo stesso problema: il flusso dell’acqua non è mica poi detto che sia così perfettamente regolare. E se hai orologi che scattano a intervalli irregolari, misurare il tempo è roba da pazzi. Galileo, che per i suoi esperimenti dovette accontentarsi degli orologi di questo tipo, sapeva che facevano acqua da tutte le parti (ehm). GG sapeva anche, ed era forse una delle prime persone nella storia dell’umanità a saperlo, che il moto oscillatorio regolare di un pendolo poteva essere la soluzione. Cosí, si impegnò a progettare uno dei primi orologi a pendolo del mondo. Sfortunatamente per lui il suo progetto non sarà realizzato se non parecchio dopo la sua morte, lasciando l’onore (e l’onere) di costruire la prima pendola funzionante a Huygens.
Christian Huygens sarebbe stato comunque uno dei più grandi fisici del suo tempo anche se, nel 1656, non avesse costruito uno strumento che quel tempo lo misurava. Il suo primo modello perdeva non più di un minuto al giorno; successive iterazioni portarono il ritardo al massimo a 10 secondi per die, una precisione senza precedenti. Parte del successo di Huygens dipese dal fatto che determinò matematicamente quanto dovesse essere lungo un pendolo perché una oscillazione completa durasse un secondo, nell’assoluta convinzione che questa lunghezza sarebbe stata una costante universale, e il pendolo avrebbe oscillato con il medesimo periodo ovunque.

C’era solo un piccolo problema: la sua costante non era veramente costante. Immenso miglioramento sui ticchettatori precedenti, di sicuro, ma non costante universale. Fu astronomo francese, Jean Richer, a far nascere i primi dubbi sull’universalità del pendolo.

Jean Richer fa le sue misurazioni in Guyana. Da un incisione di Sebastein Leclerc, pubblico dominio

Richer era a Cayenne con Cassini, il più famoso astronomo francese, per cercare di misurare precisamente il parallasse di marte. Il suo orologio a pendolo, fondamentale per la riuscita della misura, che funzionava perfettamente ed era sincrono a Parigi, aveva però perso più di due minuti rispetto alle pendole locali a Cayenne nel giro di sole 24 ore. “Ben strano“ pensò probabilmente Richer, che decise di pubblicare anche questo fattoide nel suo rapporto alla Franca Accademia delle Scienze, che prese la cosa terribilmente sul serio. Presto l’anomalia fu verificata da fonti indipendenti, e i due più importanti fisici del tempo, Huygens e Newton, si trovarono a competere per cercare di spiegare cosa non tornava.

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Fleming, Semmelweis e la mitologia scientifica

Io non sono uno storico, tantomeno uno storico della scienza; sono un appassionato che si diverte a parlare e scrivere ogni tanto di storia e storie di Scienza senza alcuna educazione formale in discipline storiografiche o roba del genere (Del resto il sottotitolo del blog è “scienza con saccenza” non “scienza con cognizione di causa”).

E come tutti, anche i non scienziati, anche i non storici, sono stato esposto a tutta una serie di aneddoti e esempi vari dalla storia della scienza, siano Mendel, Darwin, Galileo o chi per loro. La cosa con cui ho qualche problema, però, è che più vado a scavare negli esempi più famosi, più trovo seri problemi con quello che nei libri di scienze passa come storia della scienza, al punto che sono arrivato a credere che la vulgata sia attivamente dannosa, promuovendo stereotipi falsi e distorcendo la percezione di come funziona normalmente il metodo e progresso scientifico.

Incanalando lo spirito di Leo di Tempi profondi proverò ad essere un po’ più serio e rigoroso del solito, e cercare di esporre con due esempi lampanti come quello che spesso passa per storia della scienza in realtà è una sorta di mitologia, nel senso più antropologico del termine.

Prima di cominciare, lasciatemi essere pignolo e verboso e chiarificare cosa specificamente intendo per mitologia e mito. Nel parlato comune, quando uno parla di miti, tipo quando un venditore di fumo parla de “il mito del metodo scientifico”, il termine viene utilizzato come sinonimo di “falsa credenza”, spesso intesa come “falsa credenza creduta perché promulgata da una figura autorevole” (nel caso dell’esempio specifico, l’autorità del mondo scientifico). Usare mito in questo senso è chiaramente un becero espediente retorico che il venditore di fumo usa per mettersi nella posizione di figura autorevole alternativa che salva il povero innocente dalle fallacie del pensiero popolare. Non uso mito in questo senso, ovviamente.

Altri critici più seri usano il termine di mito, anche quando riferito ad un idea scientifica, come “mito fondazionale” o “metafora religiosa fondamentale” (Midgeley 1992). Parlano di mitologia come “metastruttura cognitiva”, “prospettiva culturale” o, per farla più semplice, “visione complessiva del mondo”, che tinge tutte le percezioni e le idee, tipicamente per poi poter usare l’accusa di scientismo come martello per picchiare idee che non gli piacciono. Non uso mito neanche in questo senso.

In greco, il termine Mythos  significa racconto, o storia. Spesso questi miti, come parabole, hanno funzione esplicativa, o funzionano come giustificazione (Bauer, 1992) e utilizzano espedienti retorici e narrativi specifici per essere persuasivi; spesse volte incarnano archetipi, una sorta di progetti e linee guida che vengono presentate come esemplari e degne di essere seguite. Il mio punto, e il problema che ho con la vulgata, è come la realtà storica venga distorta in mito (in quest’ultimo senso) con questa intenzione pseudo-didascalica (conscia o inconscia) e per volontà di scrivere una bella storia, un racconto interessante, popolare, che emozioni.
E non sto parlando di essere saccenti e “diti-in-culo” per il gusto di esserlo, anzi; riuscire a creare una narrativa interessante intorno ad un fatto scientifico o storico è un mezzo praticamente indispensabile per fare divulgazione, è bello e utile e di norma una cosa buona: il problema è quando, per amore di una buona storia, si spargono idee false ed erronee sulla natura stessa del processo scientifico, facendo più danno che altro.

Non ho problemi con Archimede nella vasca che urla “Eureka!”, o la mela che cade in testa a Newton, o Kekulé che sogna un serpente che si morde la coda e si sveglia per risolvere la struttura del benzene; per quanto siano tutti aneddoti “agiografici”, cioè servono a far sembrare dei geni fighi da ammirare i protagonisti, l’unica concezione erronea che trasmettono è che per avere successo nella scienza bisogna essere geni.

Ma ci sono miti scientifici che trovo controproducenti, e mi accingo a presentare due esempi tra loro complementari, che coprono più o meno tutto lo spettro retorico che trovo sbagliato. Nell’ordine, Fleming e la scoperta della penicillina, e Ignac Semmelweis e la febbre puerperale.

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Come sappiamo perché il cielo è blu

Una delle domande tipiche dello stereotipico bambino curioso, quello che esiste più come artificio retorico che come reale individuo, è ” Perché il cielo è blu ? “.

La risposta del genitore tipico che torna a casa dopo una tipica giornata di lavoro è ” Non fare domande stupide “.

La risposta esatta è, notoriamente, ” É per via lo scattering di Rayleigh combinato alla risposta fototipica dell’occhio umano”.

Ma la stragrande maggioranza delle persone che sono esistite nel corso della storia umana non avevano neanche per sbaglio una risposta credibile alla tipica domanda dei bimbi curiosi. Può darsi che ” Perché il cielo è blu ? ” sia una di quelle domande ataviche che ossessionava i nostri antenati, ma una delle prime persone a lasciarci scritte le sue elucubrazioni sul perché del colore del cielo è il solito Aristotele, una persona che mai si sottrasse dall’opinare su tutto l’opinabile.

Aristotele era estremamente affascinato dal cielo e specialmente dalla meteorologia, perché secondo lui era la disciplina in cui la perfetta regolarità delle sfere celesti si scontrava con il caos e l’imprevidibilità del mondo terrestre. Resosi conto di quanto fosse un campo incasinato, Aristotele decise di scrivere un intero libro sulla questione, la Metereologica, fondando, tanto per cambiare, una intera disciplina.

Leggendo Aristotele, però, dobbiamo stare attenti ad una peculiarità linguistica che spesso finisce per essere “Lost In Translation”. Quasi da nessuna parte nella letteratura greca il cielo (o il mare) viene descritto utilizzando l’aggettivo blu: famosamente, nell’Odissea Omero dice che Ulisse affronta un mare nero come il vino. Quello che viene perso nella traduzione è il fatto che per i greci la luminosità di un colore era molto più importante della tonalità. Così, il termine kyanos (da cui il moderno ciano, il blu delle stampanti), viene utilizzato alternativamente per descrivere il colore del ferro, i capelli di Ettore, degli smeraldi, degli iridi e, tra le altre cose, il cielo.

Platone, il maestro di Aristotele, aveva un’idea molto semplice come teoria del colore. Gli occhi di ciascuno di noi sparano raggi visivi in ogni direzione, che poi andavano a toccare meccanicamente il bersaglio, e rimandavano indietro la percezione sulla base delle particelle di cui erano composte: più chiaro se erano piccole, più scure se erano grandi, e diversamente colorate a seconda che contenessero diverse quantità di aria/acqua/terra/fuoco, perché la chimica era più facile una volta.

Sono anche pedanti uguali, lui e Ciclope.

Sono anche pedanti uguali, lui e Ciclope.

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