Oggi a pranzo è saltato fuori un discorso particolare. Stavo avvertendo altri biologi della conferenza di mercoledì di Massimo Pigliucci con lo stesso distacco emotivo con cui una dodicenne parla di un imminente concerto di Justin Beiber, con tanto di squee e polso accelerato. Sebbene la platea mi fosse favorevole, almeno rispetto allo standard delle persone su cui vomito saccenza, il messaggio non mi sembrava accolto con particolare entusiasmo. Più che altro perché gli infedeli in questione non sembravano sapere chi fosse Pigliucci.
“Ma dai, è uno di quelli della sintesi estesa!” Esclamo, con quel tono che sembra voler dire “la tua ignoranza è sconvolgente”, ma che in realtà vuol sottointendere “ti compatisco”. Perché mi piace farmi amica la gente.
Così sto saccentando spiegando qua e là che cosa vuol dire sintesi estesa, quando una brillante osservazione arriva da uno dei miei interlocutori: “sintesi estesa” è, a guardarlo bene, un ossimoro. E non ci avevo mai fatto caso, una di quelle cose che si nascondono in
piena vista.
Ovviamente ossimoro non lo è poi di fatto, perché sintesi estesa si rifà nel nome alla ben più famosa sintesi moderna, quel famoso neodarwinismo degli anni 40… come sintesi di che? Non avete fatto un esame di storia della biologia? Come no? Ah invece tu si e comunque non hai idea di cosa sto parlando? Beh ma la insegnano proprio a cazzo…
In realtà sto millantando, perché non sono neanche eccessivamente sicuro di quello che sto per dire, ma se non trovo una risposta plausibile al “sintesi de che?”, Ci faccio una pessima figura.
Via, spariamola. “Eh, la sintesi moderna perché mette insieme Darwinismo e Mendel, perché non so se lo sai, ma fino agli anni venti molta gente era convinta che Mendel confutasse Darwin, la sintesi moderna ha riconciliato le due cose. ”
” Che cosa che cosa? ” occhi sgranati e sopracciglia aggrottate. ” come dovrebbe fare Mendel a confutare Darwin? “. Phew, li hai dirottati su un argomento di cui sai la risposta con certezza. E giù di prosopopea.
Agli inizi del novecento c’è stata quella che in retrospettiva viene chiamata “eclissi del darwinismo“. Ai biologi andava bene l’idea di evoluzione e di albero della vita, ma la selezione naturale, il trionfo di Darwin, non sembrava un meccanismo convincente alla luce della riscoperta di Mendel e dei suoi piselli.
I piselli sono lisci o ruvidi, gialli o verdi: le variazioni nelle eredità sono a salti, discrete, non graduali ed infinitesimale come diceva Darwin; tanto più che la selezione naturale può certamente abbattere gli inadatti, ma non è una forza creativa; può solo potare i rami secchi di quello che già esiste. Il darwinismo può spiegare la permanenza della specie, non certo la sua origine.
Così incalzavano i Mendeliani, e anche i più accaniti Darwinisti accusavano il colpo: perfino T.H. Huxley, il bulldog di Darwin, alla fine si era messo a difendere l’idea che l’evoluzione andasse a strappi e balzelli, invece che per lenta accumulazione.
La convinzione che l’evoluzione funzionasse a balzi e la selezione naturale non fosse così importante si fece ancor più forte dopo l’introduzione della gaussiana, la curva a campana.
Mostrando come la maggior parte dei tratti non discreti seguono questo andamento, i genetisti erano convinti di aver messo una pietra tombale sul Darwinismo. La selezione naturale eliminava la coda a sinistra, e poteva anche favorire quella a destra, ma finché la maggioranza della popolazione se ne stava nel mezzo e ad ogni generazione c’era un rimpasto genetico, non poteva certo spostare la media.
Se il fortunato superdotato si fosse accoppiato, l’avrebbe fatto probabilmente con un mediocre, dando origine ad una progenie mediocre, e così via, impedendo agli esemplari superiori di progredire. Idee che oggi sono sostenute giusto dai Creazionisti più sfacciati, ma che agli inizi del novecento erano fin troppo comuni, per via della diffusione delle idee dell’eugenetica.
Darwin poverino era morto da un pezzo, e Galton, suo nipote, che aveva applicato la gaussiana alla biologia e inventato l’eugenetica, aveva fatto tanto per distruggere il lavoro dello zio agli occhi degli scienziati, e renderlo socialmente odioso a quelli dei letterati che incolpavano ingiustamente Charles del darwinismo sociale.
L’evoluzione non poteva funzionare per gradi, ma solo per salti discreti. Bateson, già collezionista di insetti mutanti, che chiamava “mostri speranzosi” sostenendo che fossero balzi evolutivi in avanti, dimostrò per la prima volta che un gene era legato ad una malattia, l’alkaptonuria, in cui l’ urina dei bimbi si tinge di nero. E non è che alcuni bambini pisciavano grigio topo, altri grigio ardesia e alcuni nero pece: niente gradazioni, solo on-off. Bateson scriveva:
To Darwin the question, What is a variation? presented no difficulties. Any difference between parent and offspring was a variation. Now we have to be more precise. First we must […] distinguish real, genetic, variation from […] variations due to environmental and other accidents, which cannot be transmitted.”
Non tutta la variazione è ereditabile, sostenevano giustamente i Mendeliani. Come si può avere un gradiente di variazione continua di generazione in generazione se quelli che vengono trasmessi sono elementi discreti?
Nel 1904, uno scienziato tedesco, Eberhart Dennert scriveva “siamo sul letto di morte del darwinismo, e ci stiamo preparando a fare una colletta per assicurargli una sepoltura dignitosa.Era il momento più buio dell’eclissi Darwiniana. I genetisti stavano per spazzare via Darwin.
In realtà sebbene i genetisti facessero fronte unito contro la minaccia barbuta, al loro interno erano alquanto separati. Diverse scoperte si stavano accumulando, dalla nucleina (che oggi chiamiamo DNA), al fatto che i cromosomi sono in duplice copia, che i geni non erano assortiti in maniera veramente indipendente come diceva Mendel… In questo melting pot, nascevano un sacco di teorie alternative che non riuscivano però a mettere insieme tutti gli elementi: alcuni scienziati sostenevano che i geni non stavano sui cromosomi, altri che i cromosomi fossero l’equivalente dei geni (un cromosoma=un gene), altri ancora che i cromosomi non contassero nulla, e le mutazioni si propagassero da proteina a proteina.
I pezzi del puzzle erano tutti presenti, ma i genetisti del tempo erano troppo occupati a seppellire prematuramente Darwin per rendersene conto.
Finché Thomas Hunt Morgan non decise di mettersi a lavorare sulla questione.
Thomas Hunt Morgan era probabilmente il più pragmatico scienziato del suo tempo. Non solo non credeva ad una parola della teoria Darwiniana, ma pensava che i genetisti sparassero un sacco di fregnacce. Morgan non accettava la benché minima speculazione che non fosse immediatamente dimostrabile con una prova empirica visibile: e per visibile intendo letteralmente visibile. Per convincerlo che esistessero i cromosomi, i suoi colleghi dovettero mostrargli decine di esempi al microscopio. Ma Morgan aveva anche una totale onestà intellettuale ed era totalmente oblivio all’ideologia, tanto che una volta convinto, cambiava idea in un battito di ciglia.
Tommy aveva sentito degli insetti mutanti di Bateson, ma non era persuaso: in fondo non ne aveva mai visto uno vero. In un viaggio ad Amsterdam, un’altro scienziato del tempo, Hugo De Vries, gli mostrò delle primule mutanti in un campo di patate vicino fuori dalla città. Le nuove primule, che avevano più petali del normale, non potevano incrociarsi con la generazione precedente: ma dozzine di primule mutanti erano apparse in un sol balzo. L’idea di De Vries era che in situazioni di stress, i genitori potessero generare una serie di mutanti che apparivano già totalmente formati, e potevano quindi proseguire la specie tra loro.
Thomas Hunt Morgan aveva visto coi suoi occhi le prove che i mutanti esistevano, ma non era convinto del meccanismo. Era speculazione, e lui odiava la speculazione. Quindi, tornato alla sua patria New York, decise di provare a riprodurre il fenomeno in laboratorio, potendolo seguire passo passo.
Cominciò a sperimentare sui piccioni, ma ci mettevano un’eternità a riprodursi. Inoltre, il laboratorio di Morgan consisteva di una stanza di 5 metri per 6, e le voliere erano ingombranti. Strozzato dagli affitti di Manhattan, Morgan cominciò ad allevare moscerini della frutta, la Drosophila melanogaster. Cambiando animale, finì per cambiare per sempre la storia della biologia.
Dodici giorni per generazione. Con una banana potevi sfamarne un migliaio, che potevi tranquillamente tenere in una bottiglia di latte da litro. Da quel giorno, il laboratorio di Morgan smise di essere un laboratorio, e divenne ” The Fly Room “, la stanza delle mosche.
Anche con Drosophila, i mutanti non arrivavano. Morgan provò a mettere i moscerini sotto ogni tipo di stress: sotto ghiaccio, al caldo, spruzzando acidi e basi, iniettando sali nei genitali. Niente. Era più di un anno che osservava minuziosamente migliaia di mosche, senza trovare nulla.
Finché, un giorno fortunato del Marzo 1910, vide una strana drosofila, con delle setole vicino alle ali, delle “ascelle pelose”. Un’altro mutante, quest’altro con il corpo color oliva, invece che ambra.
A maggio comparve il mutante più evidente, forse il mutante più importante della storia: un moscerino della frutta con gli occhi bianchi.
Morgan ormai avrebbe venduto l’anima al demonio per un passo in avanti. Isolò con indicibile fatica il moscerino, e lo fece accoppiare con femmine con gli occhi rossi. E poi i discendenti con i discendenti. E poi i discedenti con i genitori, in tutte le possibili combinazioni. Alla fine, trovò che i moscerini normali stavano in rapporto 3 a 1 con i mutanti. 3:1, proprio come i piselli di Mendel.
Vedendo questo 3:1, Morgan subito si conformò ai fatti. Voleva dire che la teoria del gene, qualunque cosa fosse poi fisicamente un gene, poteva avere senso. Ma i moscerini della frutta avevano solo 4 cromosomi, lui li aveva visti e contati. Non poteva essere un singolo gene per cromosoma.
Morgan non voleva essere trascinato nei dibattiti sulla teoria dei cromosomi, ma suo malgrado, si rese conto che tutti i moscerini di prima generazione con gli occhi bianchi erano maschi. Tutti tutti. Ma allora quelli della teoria del gene non potevano aver ragione, perché era già noto che fosse un cromosoma, l’X, a determinare il sesso degli insetti. Ma se gli occhi bianchi erano collegati al sesso, allora su quel cromosoma dovevano esserci due geni… E Morgan andò avanti, e ne trovò ancora, altre mutazioni esclusive dei maschi. Alla fine, Morgan e i suoi assistenti dimostrarono incontrovertibilmente che più geni stavano su un solo cromosoma. L’aveva fatto praticamente contro la sua volontà, contro ogni idea con cui era partito: ma una volta visti i fatti, poof, divento il più importante sostenitore della teoria dei cromosomi.
Dal momento che la prole eredita una copia di ciascun cromosoma da ciascun genitore, i cromosomi devono passare i geni da una generazione alla successiva. Le mutazioni cambiano i cromosomi un pochettino, il che rende ciascuna creatura un pochettino diversa. Ma i cromosomi e i geni restano perlopiù intatti, come “perle in una collana”; ed ecco che, finalmente, una teoria completa dell’eredità era stata formulata. Non solo da Morgan, certo: i suoi assistenti fecero molto del lavoro di cui lui poi si prese il merito, e Morgan non ebbe neppure paura di plagiare altra gente. Non è poi così importante da chi viene l’informazione, se si può tranquillamente verificare se è vera o meno. Neppure lo scettico più indefesso poteva obiettare alle conclusioni di Morgan, perché questi semplicemente togliendo un barattolo ronzante dallo scaffale, poteva mostrare diecimila mosche mutanti che dimostravano quello che sosteneva. Anche e soprattutto per il suo lavoro di dimostrazione sperimentale, Thomas Hunt Morgan si portò a casa il premio Nobel per la medicina e la fisiologia.
Ma, per quanto questi progressi potessero rallegrare i genetisti, Morgan non aveva riconciliato genetica e Darwinismo. L’opposizione era meno intensa, forse, e l’eclissi aveva ormai passato l’apice, perché la nuova teoria dell’eredità concedeva abbastanza spazio perché le variazioni positive potessero trasmettersi attraverso le generazioni senza essere diluite.
Oltre alla prova incontrovertibile della genetica mendeliana, la stanza delle mosche conteneva un’altro tesoro, sotto forma di assistente: Hermann Muller.
Muller era il factotum di Morgan, e questi lo trattava come una pezza da piedi: non solo abusava della sua pazienza, non solo plagiava ogni sua idea, non solo non lo pagava causandogli un tracollo fisico e mentale, ma lo disprezzava a viso aperto. Muller era uno speculatore, un teorico, un socialista e, ancor peggio, un sostenitore della teoria dell’evoluzione.
Nonostante ciò Muller era rimasto per anni nella fly-room, contribuendo con la sua logica inattaccabile e il suo intuito a tutte le altre scoperte del gruppo, senza riceverne credito ufficiale. Alla fine, Muller riuscì a convincere Morgan di come funzionasse l’evoluzione.
Usando le parole di Hermy: i geni danno alle creature i tratti, le mutazioni dei geni cambiano i tratti, e di conseguenza cambiano qualche caratteristica del nuovo individuo. Ma le mutazioni, al contrario di quello che sosteneva De Vries, non erano salti di specie in specie, ma cambi sottili, come un manto che da ambra diventa oliva. La selezione naturale agiva poi su le varianti generate da riproduzione sessuata e mutazioni, e siccome i tratti venivano trasmessi integralmente, come voleva Mendel, non poteva esserci diluizione verso il mediocre. Non solo: Muller fu tra i primi a rendersi contro che i tratti come quelli dei piselli i Mendel (on-off, controllati da un singolo gene), erano l’eccezione e non la regola. Molti tratti potevano essere controllati perfino da dozzine di geni, e quindi potevano mostrare gradazioni continue, a seconda di quale combinazione dei tanti geni veniva ereditata. Gradazione che, negli individui, si manifestava inevitabilmente come una gaussiana.
Quella che sembrava essere la più convincente condanna nei confronti di Darwin, fu la prova schiacciante che convinse Morgan delle argomentazioni di Muller. Su due piedi, un uomo che era partito vent’anni prima per convincere il mondo del saltazionismo genetico, era diventato un accanito Darwinista. Il suo supporto cambiò l’opinione dominante nella comunità scientifica. Se perfino quell’integralista della sperimentazione che era Thomas Henry Morgan era stato convinto della veridicità della teoria di Darwin, beh, le prove dietro dovevano essere veramente forti.
Sapendo tutto quello che sappiamo, non c’è dubbio che Darwinismo e Mendelismo si rinforzano tra di loro in maniera splendida, la loro unione sarà il primo passo verso la vera e propria Sintesi Moderna, quella che la successiva generazione di biologi più scientifici fonderà unendo a Darwinismo e Mendelismo la genetica delle popolazioni, l’ultima architrave nella costruzione della cattedrale dell’evoluzione. Una magnifica sintesi, che vale più della somma delle sue parti. L’eclissi passò com’era venuta, e la luce del Darwinismo continua a illuminare ogni aspetto della biologia. Dobszhansky, uno degli artefici della vera e propria sintesi moderna, dirà famosamente che ” Niente nella biologia ha senso se non sotto la luce dell’evoluzione. “. Oggi, una nuova eclissi è semplicemente impossibile da immaginare.
Muller sarà cacciato dalla Fly Room. Sarà cacciato dall’università del Texas in quanto socialista, e fuggirà in Germania negli anni ’30. Finché i nazisti non cominceranno a perseguitare lui e il suo istituto. Fuggirà allora in Unione Sovietica, cercando di spiegare il Darwinismo a Stalin, ma il regime rimase sempre Lamarckiano, accecato dall’ideologia anche di fronte a tutte le prove. Si arruolerà volontario tra i comunisti nella guerra civile spagnola, e dovrà fuggire, sconfitto, negli Stati Uniti. Alla fine, Hermann Muller vincerà da solo il suo premio Nobel, per aver dimostrato che le radiazioni provocano mutazioni nei geni, senza che Morgan gli possa rubare le luci delle ribalta.
Lo vincerà nel 1946, un anno dopo Hiroshima e Nagasaki.
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Bellissimo articolo. Dietro la scienza si nascondono splendidi aneddoti storici, che non vanno assolutamente tralasciati. Sono stimoli che appassionano e incuriosiscono. È come se si volesse spiegare Darwin senza parlare del suo epico viaggio a bordo del Beagle..
Grazie evolutionario, se hai fatto un giro anche tra gli altri post avrai certamente intuito che la storia della scienza è un po’ il mio pallino 🙂
Si, ho notato 🙂 E anche per questo ti seguirò con molto piacere. Troppo spesso, anche e soprattutto in ambiente universitario, le teorie scientifiche vengono del tutto distaccate dagli aneddoti storici che stanno alla base della scoperta stessa. In questo modo agli studenti viene chiesto di apprendere qualcosa di freddo, lontano e asettico.Come fare a omettere i mitici discorsi e gli aneddoti che circolano su Watson e Crick nel mitico Pub “The Eagle” dalla scoperta stessa del Dna?..e così via 🙂
Ho appena scoperto il tuo blog e lo trovo molto interessante. Da grande saccenza, però, derivano grandi responsabilità, in primis quella di non cappellare brutalmente l’italiano: “un’uomo” è da fucilazione in schiena, modello disertore al fronte.
Non ne sono orgoglioso, ma ho fatto roba persino peggio in passato. In generale più indietro vai nel tempo più troverai articoli grammaticalmente e sintatticamente aberranti. Grazie della segnalazione, ora fixo.
Sei proprio un bradipo.
complimenti, articolo interessante
Grazie 🙂
eh, ma la sintesi estesa…? 😉
Da quando ho scritto questo articolo ho parlato sia con Pigliucci, sia con Gerd Muller, sia con Eva Jablonka. 3 di quelli che erano ad Altemberg a ” inventare “la sintesi estesa.
Non l’ho ancora capita.
Prima o poi scriverò qualcosa a proposito. Non è che l’essere completamente incompetente mi abbia mai fermato dallo scrivere alcunché.