Avete mai notato come le sezioni salute della maggior parte dei giornali (e blog) siano ormai intente nell’impresa titanica di dividere ogni singolo alimento e ingrediente in cosa fa venire il cancro e cosa no?
E, non fraintendetemi, capisco il principio che c’è dietro. Il cancro è probabilmente una delle cose più terrificanti per la maggior parte delle persone, e sei vuoi leggere, o beccarti il click, o sei genuinamente interessato a morire il più tardi possibile e vivere nel mentre restando il più in salute possibile, ecco che la nutrizione diventa sproporzionatamente importante.
Così, su nelle torri eburnee è stata inventata l’epidemiologia nutrizionale, una disciplina legittima che si trasforma in circa un migliaio di pubblicazioni scientifiche l’anno, che, apparentemente, si trasformano in un migliaio di articoli pop che senza la benché minima nuance si trasformano in articoli tipo “Il cibo x fa venire il cancro” e “l’ingrediente y protegge dalle malattie cardiache”, etc. E di conseguenza non c’è da meravigliarsi se i consumatori sono confusi sotto questo bombardamento di informazioni, e vanno o in panico per ogni nuovo “rivoluzionario studio” o ad un certo punto diventano scettici e cominciano a sbattersi le palle.
A questo si può aggiungere che in Italia non serve quasi nessuna qualifica specifica per farsi chiamare Nutrizionista; secondo l’Ordine dei Biologi, basta essere iscritti all’albo per poter potersi definire tale; il che significa che sebbene io mi occupi di evoluzione e genetica di popolazione domani potrei mettere “Dott. Biologo Nutrizionista” forte dei 3 crediti scarsi di alimentazione umana nella mia carriera accademica, e nessuno potrebbe legalmente dirmi niente. Il fatto di ottenere prima una specifica qualifica in ambito di alimentazione è semplicemente un consiglio o una raccomandazione dell’ordine. Questo non significa che i biologi nutrizionisti (o i dietologi, a cui si applicano più o meno le stesse regole, con l’aggravante che il termine non è legalmente protetto) siano necessariamente profittatori incompetenti e senza scrupoli, ma, ad esempio l’Associazione Nazionale Dietisti ha recentemente pubblicato un report, in cui esprime preoccupazione per ” […] l’eterogeneità e la numerosità degli accessi (ai master in nutrizione, ndr), aperti contemporaneamente a molteplici tipologie di laureati con provenienze formative e ambiti professionali molto diversi tra loro, e molti dei quali senza alcuna competenza di base in ambito nutrizionale e sanitario “. E per quanto improvvisarsi senza il benché minimo di qualifiche sia più o meno il tema conduttore di questo blog, farlo per profitto sparlando di nutrizione penso sia come minimo poco etico; e anche quando viene fatto in buona o buonissima fede e non per mero guadagno, rischia di perpetuare perniciosi miti da una supposta posizione di autorità.
(N.B: Non sono assolutamente sicuro che sia ancora così da quando esistono le lauree specialistiche in biologia della nutrizione, ma lo era appena 4-5 anni fa e quelle lauree già esistevano, quindi se dovessi sbagliarmi non c’è bisogno di divorarmi nei commenti: al massimo quello che sto dicendo è out-of-date. se così fosse, fatemi sapere)
E ovviamente, questa cacofonia di consigli e questa iper-medicalizzazione della dieta crea una nuova enorme nicchia per ciarlatani e pseudoscienziati di ogni tipo per approfittarsi di chi vorrebbe solo stare meglio (o essere più magro).
Breve parentesi metodologica su come funzionano gli studi epidemiologici sulla nutrizione: se già sapete come funziona, e siete familiari con termini come studi longitudinali o meta analisi, skippate con gusto la prossima parte.
Un gattino puccioso segna l’inizio e la fine della parte skippabile dai lettori “avanzati”.
Il problema della causa e dell’effetto dovrebbe essere noto a tutti. È difficile distinguere causalità, correlazione e sequenzialita, quasi sempre, e particolarmente nell’epidemiologia. Abbiamo tutta una serie di fallacie logiche che si basano sul fatto che intuitivamente siamo scarsi a capire causa -effetto. Esempio: cum hoc ergo propter hoc, che sarebbe “quando avevo le mutande blu ho sempre vinto la partita, ergo le mutande blu portano fortuna”. Post hoc ergo propter hoc: ogni volta che mangio fagioli poi scorreggio, quindi i fagioli fanno scorreggiare. Correlazione e causazione: quando a Roma ci sono più turisti si mangia anche più gelato, quindi i turisti fanno venir voglia di gelato.
Non è un problema semplice da risolvere, quello della correlazione e della causazione, e un sacco di superstizioni si basano sul fatto che l’intuito fa schifo per queste cose. E l’epidemiologia, come disciplina, è particolarmente ingarbugliata proprio per queste difficoltà che abbiamo nel distinguere correlazione e causazione.
Diciamo che c’è una correlazione tra cancro e mangiare uno specifico alimento (facciamo, per comodità, le mele, che dovrebbero scacciare i medici; sia chiaro che è un esempio del tutto ipotetico.). Come facciamo a dimostrare che c’è causa ed effetto?
Con l’osservazione e basta non si può sapere. Se la gente a cui viene il cancro è, per caso, lo stesso tipo di gente che mangia mele, l’osservatore non può facilmente distinguerlo. Ma è importante, perché se non c’è causa ed effetto non mangiar mele non ridurrà il tuo rischio di cancro. La premessa sulla gente e sul caso vi sembra irrealistico? Beh, nel primo mondo la gente mangia più mele e muore più di cancro. Nel terzo mondo, si mangiano meno mele e si muore meno di cancro. Se avessi solo questa osservazione potrei sentirmi giustificato nel dare la colpa alle mele, ma nel mondo reale sappiamo che è una cosa insensata: mille altre cose influiscono sull’incidenza del cancro ben più delle mele, non in ultimo il fattore specifico “Non morire prima di altre malattie prevenibili”.
Quando fai uno studio di epidemiologia nutrizionale puoi far 3 cose: studio osservazionale, uno prospettico o un RCT.
Nello studio osservazionale prendi due gruppi con due diete diverse per ragioni loro e retroattivamente cerchi di capire che cambia. Ad esempio confronti le cartelle cliniche e le diete di 300 americani e 300 cinesi e guardi le differenze tra i due gruppi. Vedi che i cinesi hanno meno cancro e mangiano meno mele e concludi che la colpa è delle mele. Ma è una inferenza debole, una prova scrausa, che funziona solo quando l’effetto è molto grande. Con uno studio del genere vedi che le sigarette causano il cancro, ma se le mele aumentano il rischio non lo puoi dire con convinzione, perché hai poca sensibilità.
Quanta poco attendibili sono gli studi osservazionali? C’è un famoso articolo di epidemiologia che viene tipicamente riassunto sarcasticamente con “Ogni affermazione che viene da uno studio osservazionale è probabilmente falsa “. Lo studio in questione prendeva in considerazione 52 affermazioni derivate da studi osservazionali, e cercava di verificare quante di queste fossero poi ripetibili in studi più precisi e rigorosi, come gli RCT (spiego dopo). Nessuna, ovvero 0/52, aveva avuto riscontro in studi successivi che utilizzassero metodologie più rigorose.
Puoi fare uno studio prospettico allora. Segui un singolo gruppo per un lungo periodo annotando che fa o non fa, e poi registri le malattie e le morti che saltano fuori. Questo è ben meglio di uno studio osservazionale perché puoi seguire le stesse persone nel tempo invece che trarre conclusioni da una fotografia su gruppi diversi: ma ancora ha il problema che non è randomizzato. La gente sceglie cosa fare e mangiare,e quindi i gruppi sono ancora sbilanciati. Se i cinesi hanno una resistenza genetica al cancro che gli americani non hanno, con uno studio prospettico non te ne accorgi: magari vedrai l’effetto ma lo attribuirai ad altre cose che stai misurando, tipo il consumo di té verde.
La maggior parte degli studi in ambito di epidemiologia nutrizionale sono osservazionali o prospettici, perché difficilmente riesci ad avere gruppi di persone abbastanza grandi che siano disposte a cambiare la loro dieta, se non per qualche minimo dettaglio, da un gruppo di persone in camice bianco. Ma sia chiaro: un numero maggiore di individui inclusi non è garanzia di maggiore attendibilità, anzi: dataset grossi rischiano di dare falsa precisione a variazioni statistiche casuali, e questo è particolarmente vero negli studi osservazionali ma anche negli studi prospettici.
Questa maledizione è difficile da evitare, ed è una cosa che non colpisce solo l’epidemiologia, ma tutti i campi che lavorano con grossi set di dati. Ad esempio, la ricerca di biomarker, indizi o segnali che aiutino la diagnosi precoce o similia: molto spesso, quando si usa proteomica, transcrittomica o metabolomica per andare a caccia di segnali da associare con una malattia, si trovano falsi positivi; la chiave nel distinguere un biomarker reale da uno fasullo sta nella plausibilità scientifica e biologica, cioè quanto è in accordo con quello che sappiamo già sul funzionamento della malattia o della molecola che è un potenziale biomarker. E nonostante ciò, la letteratura scientifica è piena di falsi positivi, per semplici accidenti statistici dovuti al lavorare con montagne di dati.
Ma nell’epidemiologia questo problema si può aggirare usando gli RCT.
Un RCT, randomized control trial, divide in due gruppi a caso le tue 600 persone, e gli dà una dieta tra le due che vuoi confrontare a caso. In questo modo in media tutti gli altri fattori confondenti saranno bilanciati tra i due gruppi. I cinesi hanno una resistenza al cancro (a tua insaputa) ? Nei casi precedentemente citati questo inficierebbe lo studio, ma con un RCT non c’è pericolo, perché avrai in media lo stesso numero di cinesi nei due gruppi, il che ti permette di vedere chiaramente l’effetto della singola differenza che vuoi misurare. Con un RCT fatto bene puoi parlare di causa ed effetto anche di un evento che capita una volta su un milione. Ovviamente, il campionamento diventa di primaria importanza. Purtroppo, più che altro per ragioni pratiche incluse quelle accennate prima, nell’epidemiologia nutrizionistica gli RCT sono i tipi di studi più rari.
Che fare dunque in assenza di studi randomizzati? Una buona cosa, anche se non infallibile, è fare meta analisi, cioè mettere insieme più studi in una stessa analisi statistica, per avere più sensibilità. È come se avessi un campione più grande e più variegato in questo modo, il che mi permette di ridurre certi tipi di distorsione (d’altro canto, ne amplifica sistematicamente altri). Questo attenta combinazione di altre analisi dataset permette di stabilire con maggiore precisione specificamente le dimensioni dell’effetto: quanto effettivamente la mela è correlata ad un rischio aumentato o diminuito di cancro. Il risultato delle meta analisi, idealmente abbinato ad altri studi sul meccanismo di causa effetto, dovrebbe rendere implausibile che i collegamenti osservati negli studi epidemiologici siano coincidenze.
Quindi, tutto quello che si può mangiare causa il cancro.
Pensate che stia esagerando? Per fortuna, oltre agli aneddoti, c’è uno stupendo paper di Ioannidis, che è più o meno la dimostrazione statistica di quello che sto dicendo.
Ioannidis e i suoi colleghi hanno scelto 50 ingredienti comuni a caso da libri di cucina, e sono andati a vedere che dice l’epidemiologia nutrizionale a proposito della loro associazione con il cancro. I risultati?
Forty ingredients (80%) had articles reporting on their cancer risk. Of 264 single-study assessments, 191 (72%) concluded that the tested food was associated with an increased (n = 103) or a decreased (n = 88) risk; 75% of the risk estimates had weak (0.05 > P ≥ 0.001) or no statistical (P > 0.05) significance. Statistically significant results were more likely than nonsignificant findings to be published in the study abstract than in only the full text (P < 0.0001)
Per l’80% degli ingredienti considerati (40/50) esistevano studi che prendevano in esame la loro associazione con il rischio di cancro; il 72% degli studi concludeva che esisteva un effetto positivo o negativo sul rischio di cancro, e il 75% degli studi che diceva di aver trovato un’associazione aveva risultati a malapena statisticamente significativi, e se non li aveva li nascondeva dall’abstract.
I 40 ingredienti in questione, per la cronaca, sono: sale, pepe, farina, uova, pane, maiale, agnello, burro, pomodori, limoni, anatra, cipolle, sedano, carota, prezzemolo, noce moscata, ciliege, olive, funghi, latte, caffè, formaggio, pancetta, zucchero, aragosta, patate, tea, rum, arancia, vitello, manzo, trippa, mostarda, noci, vino, piselli, grano, cannella, pepe di cayenne.
Cioè, quasi tutto, specialmente considerato che lo studio in questione fa riferimento a libri di cucina americani.
Ripeto, per essere chiaro: abbiamo un sacco di studi (più di 250) che riportano un associazione tra un cibo o un ingrediente e un aumento o una diminuzione del rischio di cancro, ma la stragrande maggioranza ha un effetto estremamente minuto e solo nominalmente dimostrabile da un punto di vista statistico, anche nel 75% di studi che sostenevano variazioni di rischio. Per quelli a cui piace la statistica e i dati esatti, riporto la tabella dal paper.
A questo punto, passiamo alle meta analisi. Dei 50 ingredienti selezionati, 36 erano stati considerati in meta analisi, studi che mettono insieme con la magia della statistica più studi differenti e cercano di trovare l’effetto reale ignorando le variazioni casuali intrinseche in ciascun studio individuale. Come ci si aspetta sempre, anche quando gli studi sono allo stato dell’arte (per via dell’effetto declino e del publication bias), le meta analisi hanno trovato effetti più piccoli; ciò detto, sono ancora più insignificanti di quanto sarebbe legittimo aspettarsi. Solo 13 meta analisi su 36 riportano un rischio aumentato o diminuito di cancro; e anche quando lo riportano, l’aumento di rischio relativo è molto vicino allo zero, cioè l’effetto protettivo o negativo è molto vicino allo zero.
Il che significa due cose (non è una dicotomia, può essere benissimo una combinazione delle due opzioni): può darsi che esista un rischio o un beneficio associato ad uno specifico cibo, ma in media, gli effetti si controbilanciano e la variazione di rischio si approssima a zero, o la maggior parte dei risultati in letteratura sono accidenti statistici, distribuiti più o meno a caso, e quindi nelle meta analisi, che considerano gli effetti complessivi, questi vanno a zero – probabilmente perché la maggior parte dei risultati non sono veritieri.
A dimostrazione di ciò, c’è un grafico veramente utile nell’articolo:
Vedete qui gli ingredienti su cui ci sono stati più di 10 studi a riguardo. Ciascun puntino è uno studio: la linea verticale mediana significa “nessun effetto significativo”; tanto più uno studio è a sinistra della mediana tanto più lo studio ha trovato un effetto protettivo; tanto più è su la destra, tanto più lo studio ha trovato un aumento di rischio di cancro. Come potete vedere, i puntini sono più o meno distribuiti a caso, senza essere particolarmente ravvicinati; con l’eccezione del bacon nessun ingrediente con più di 10 studi non ha almeno uno studio che contraddice tutti gli altri, e nella maggioranza degli studi coi valori più estremi, più vicini ai lati del grafico, tanto più piccola era la dimensione dei campioni studiati. E’ un altro effetto tipico nell’epidemiologia: in un campione piccolo, variazioni casuali sembrano più importanti.
Se prendete 10 persone, e, per caso, trovate 4 mancini, finirete per credere che il 40% della popolazione è mancina; ma se prendete un campione più grande l’errore di campionamento e i fattori casuali saranno meno, e sarà più probabile che vi avviciniate al risultato reale del 10% di popolazione mancina.
Però, la pancetta fa comunque venire il cancro, giusto? E’ risaputo, no? Anche lasciando stare l’ovvio “la dose fa il veleno”, non è così ovvio. Scrivono gli autori:
The vast majority of these claims were based on weak statistical evidence. Many statistically insignificant “negative” and weak results were relegated to the full text rather than to the study abstract. Individual studies reported larger effect sizes than did the meta-analyses. There was no standardized, consistent selection of exposure contrasts for the reported risks. A minority of associations had more than weak support in meta-analyses, and summary effects in meta-analyses were consistent with a null average and relatively limited variance.
Per dirla semplice, ci sono un sacco di studi che dicono che esiste un legame tra un cibo e un effetto protettivo o un rischio aumentato, ma solo una netta minoranza ha prove e dati statistici a supporto della sua tesi. Non solo: spesso capita che nell’abstract (che nella stragrande maggioranza dei casi è l’unica cosa a cui i giornalisti e il pubblico possono accedere aggratis) si proclami una associazione forte mentre le debolezze dell’associazione e i casi speciali sono sepolti e nascosti nel full-text.
Ovviamente uno studio del genere non rappresenta la totalità dell’epidemiologia nutrizionistica, che, ripeto, è una disciplina legittima e interessante. Ma quelli che gli autori hanno considerato sono specificamente gli studi più citati, cioè quelli che è più probabile che uno studente, consumatore, paziente o giornalista trovi facendo una breve ricerca nella letteratura scientifica. Quattro categorie che, al contrario dei ricercatori nelle torri d’avorio, non possono tipicamente neppure accedere al full text (E nel caso dello studente, se può accederci, non ha voglia di leggerlo).
Il che significa che tanto meno una persona è qualificata o si occupa professionalmente di discipline sanitarie, tanto più è probabile che trovi una cacofonia di studi conflittuali, o peggio ancora annunci stampa mascherati da abstract e articoli sensazionalistici nella stampa generalista.
Questo sarebbe già sufficiente per sospettare che con l’overmedicalizzazione della dieta e il terrorismo mediatico stiamo facendo un disservizio alla persona media per quanto riguarda il suo preoccuparsi della nutrizione. Le linee guida su cosa rende una dieta bilanciata e salutare sono note da decenni: il focalizzarsi (e a volte l’inventarsi) della nostra cultura sugli effetti specifici di singoli alimenti rischia di causare più danni che profitto, per quanto abbia creato tutto un nuovo mercato e nuove figure professionali etc.
Ma c’è di peggio. Insieme all’articolo citato, è stato pubblicato un editoriale dall’eloquentissimo titolo: “Nutritional epidemiology in practice: learning from data or promulgating beliefs?” che fa notare che, oltre al dato ovvio che il lavoro di Ioannidis mostra (cioè come tutto quello che mangiamo è associato con il cancro in qualche modo), l’articolo stesso è involontariamente una prova del publication bias nel campo della nutrizione, il pernicioso fenomeno per cui studi che riportano nessun effetto non sono pubblicati.
However, Schoenfeld and Ioannidis proceeded to show that biases exist in the nutrient-cancer literature. The fidelity of research findings between nutrients and cancer may have been compromised in several ways. They identified an overstating of weak results (most associations were only weakly supported), a lack of consistent comparisons (inconsistent definitions of exposure and outcomes), and possible suppression of null findings (a bimodal distribution of outcomes, with a noticeable lack of null findings).
I risultati piccoli vengono gonfiati, i paragoni sono studiati di modo da dare il più grande effetto possibile, e i risultati nulli (I.e: non cambia niente), probabilmente non vengono pubblicati.
Cospirazione galattico-rettiliana per nascondere quello che veramente sappiamo sulla salute? Non esattamente. C’è quel motto, per chi scrive romanzi, che dice più o meno “Ogni cattivo credibile crede di essere un eroe “. In termini scientifici, questo viene definito “White Hat Bias”, il “bias dei cappelli bianchi”. E’ una deformazione sistematica dei risultati della ricerca, più spesso inconscia che conscia, che porta a considerare più i risultati in servizio di quello che viene considerato uno scopo virtuoso (Per chi è pratico di queste cose, è un caso particolare di bias di conferma). Il nome peculiare credo sia dovuto al fatto che nei film in bianco e nero i cowboy buoni avevano il cappello bianco, termine mutuato poi per descrivere in tempi moderni gli “hacker etici”, ma non prendetemi in parola.
Questi risultati poi vengono disseminati al pubblico, il che porta non solo all’inappropriata demonizzazione o santificazioni di cibi, ma anche direttamente alla ciarlataneria e ai venditori di olio di serpente. Chiunque è un minimo familiare con la medicina “alternativa” e tutto il movimento che gli va dietro, troverà tipicamente esempi di “supercibi” che proteggono da tutti i malanni o sono la cura del cancro, etc; le catene di Sant’Antonio idiote su Facebook si sprecano, dalla cipolla sul comodino che assorbe i virus (?), alla graviola che “scioglie” i tumori, all’Aloe come panacea, ai limoni e peperoncini.
Pubblicare studi con associazioni fasulle ritoccate per sembrare inattaccabili dà solo munizioni a quelli che già sono cecchini quando si tratta di sparare stronzate; come dice il proverbio, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
Ovviamente è ingiusto dare tutta la colpa di come gli studi nutrizionali ed epidemiologici vengono usati ed abusati agli autori e ricercatori. La peer review è solo il primo passo, e la cattedrale della scienza si costruisce uno, spesso insignificante, mattoncino alla volta. Il bias dei cappelli bianchi è principalmente inconscio, e anche controlli più stretti della metodologia, o di quello che finisce nella stampa, non può certo fermare il bisogno fondamentale dell’essere umano di avere il controllo su quello di cui ha paura.
Quello che si può fare, e che si dovrebbe fare, è smettere di ripetere deboli correlazioni per il gusto del sensazionalismo, e dibattere alla nausea i soliti discorsi, e concentrarsi su il segnale invece che il rumore. Viene spesso citata la cifra della World Health Organization, secondo cui un terzo dei tumori può essere prevenuto con cambiamenti di dieta, e quasi la metà con cambiamenti dello stile di vita, e viene utilizzato come prefazione a riportare altre deboli correlazioni, quando la stragrande maggioranza dell’effetto è attribuito al consumo di alcool, il fumo, l’obesità e una vita sedentaria; l’unico effetto che si rifà alla dieta vera e propria, è la carenza di frutta e verdura nella dieta, che si aggira attorno al 3% per i paesi occidentali. Per fare un paragone, il sesso non protetto, con il rischio di trasmissione dell’HPV, vale l’1% dei cancri prevenibili da cambiamenti nello stile di vita: eppure penso che ben meno di un terzo delle persone che si preoccupa del contenuto di avocado nella dieta pensi al sesso come una possibile causa del cancro.
E sia chiaro, questo non è un l’inno al fatalismo del dire “Beh, siccome probabilmente consigli specifici sul contenuto di pompelmi nella mia dieta sono falsi, tanto vale che continuo a fare quello che faccio “. E’ una stronzata, e lo sapete anche voi, e state usando il mio articolo che descrive una situazione epidemiologica per giustificarvi con voi stessi. Come ho già detto, le linee guida di una dieta generalmente sana si conoscono da decenni, quindi nulla di questo è una scusa per non usare due dita di cervello quando mangiate.
Senza ossessionarsi. Senza contribuire ad un’isteria mediatica che distrae dalla vera prevenzione, senza che degenerare in guerre ideologiche tra fazioni su quello che si mangia, e senza dimenticare che più o meno tutto causa il cancro, e il vostro forte desiderio (o certezza) di avere controllo sul vostro destino non significa, purtroppo, che ce l’abbiate veramente.
Applausi. Non ne potevo più di spiegarlo a tutti i seguaci dei salutisti/vegan/paleo/fruttarian/natural/postmodernisti.
Diciamo che un articolo così corrisponde ad una contrazione dei dotti deferenti.
Due considerazioni:
a) quale cancro?
b) a quale età?
c) di che cosa vogliamo morire ? perchè pure dovremo morire!
d) la salute è troppo importante per lasciarla nelle mani dei medici, purtroppo se non hai esperienza di medicina praticata ( la fetente corsia ) tenderai a cadere nelle spire delle pseudoscienze. Non che in corsia ci siano dei genii ma almeno un sano scetticismo e un vago senso di saperne meno del necessario, aiuta a sparare meno ca…volate
Cerco sempre, perché lo trovo più giusto, di dire “cancri”, invece che cancro, per infilare in testa alla gente che sono l’equivalente di tante malattie e non un monolite, ma nel caso specifico, siccome tanto i dati alla fine erano ricomputati da Ioannidis et al sul rischio vitalizio di ogni tipo di cancro, ho lasciato perdere. Per la cronaca, la figura 1 nel paper ha un forest plot proprio sui rischi relativi a specifici cancri (seno, gastrointestinale, orofaringeo, genitourinario, polmoni, “altri”) ma penso che il messaggio passi comunque.
Quando e di cosa vogliamo morire? Come diceva un saggio filosofo (beh, dai, più o meno), quello che diciamo al Dio della Morte è “non oggi”. 😛
Non ho capito dove vuoi arrivare a parare, che i riferimenti citati nel post sono ca…volate?
Bello. Conoscevo il problema della rilevanza relativa delle osservazioni e dei campioni statistici per altra via, ma non mi intendo né di salute né di alimentazione. Nonostante debba mangiare anch’io per sopravvivere.
Una sola curiosità: ma per ogni ingrediente sono stati considerati i sotto ingredienti? Studiare il grano tout court considerandolo uniforme mi pare insufficiente: e se studiassimo il grano con o senza metalli pesanti? Così il mais: imbottito o non imbottito di metaboliti del glifosato è diverso. E i pomodori? Quelli allevati sopra alle discariche di rifiuti speciali hanno qualche probabilità di non essere identici agli altri. E il pesce zeppo di mercurio? Potrebbe essere diverso da quello che non lo è? Sono cliché, certo, ma contengono tutti qualcosa di reale.
Il grafico che mostra i rischi relativi indica dispersioni pazzesche. Il mio sospetto è che gli ingredienti in sé siano poco significativi, e siano enormemente più significativi gli eventuali contaminanti in traccia (cosa che darebbe forse conto delle dispersioni). E’ una idea troppo stupida questa??
Dipende dallo specifico studio, di sicuro non la maggioranza. Certo, una grano contaminato da micotossine o aflatossine può spiegare uno studio o due che deviano parecchio dalla media(na), e una variazione relativamente piccola di questo genere di contaminanti in traccia può presumibilmente far variare il rischio relativo.
Ma, se tieni presente che tipicamente gli studi con l’effetto relativo più grande sono tipicamente quelli con la metodologia più raffazzonata, e quelli con gli effetti più vicini allo zero sono tendenzialmente i più rigorosi, l’idea che siano i contaminanti a causare la dispersione è implausibile: se così fosse avresti un cluster attorno alla dimensione reale dell’effetto cancerogeno del mercurio, non attorno a nessun effetto, specialmente con l’aumentare del numero degli studi, e specialmente sulle meta-analisi.
Che qualche studio individuale che ha risultati freak è il risultato di contaminazione in tracce è possibile; che il trend generale di effetti fantasma sia spiegabile con ciò, un po’ meno. Anche perché, come accennato nell’articolo, distribuzioni simili le trovi anche quando vai a caccia di biomarkers et similia.
Veramente un ottimo post: ormai si sta diffondendo sempre più la ricerca della “dieta anticancro” che sta diventando una pericolosa psicosi, che bisogna cercare di contrastare.
L’ha ribloggato su laVoceIdealista.
Vorrei capire perché tirare in ballo i biologi e non anche gli altri professionisti .l.e poi perché non si firma mettendo nome e cognome …
Tiro in ballo i biologi perché io stesso, come dico nell’articolo, sono un biologo, e credo nel principio della pagliuzza e della trave. Ho forse detto qualcosa di sbagliato sulle regole dell’ordine? Ho anche messo la postilla, su come non sono assolutamente sicuro che la situazione sia attuale, ma sono abbastanza persuaso che sia così; quello che dice Parpaglioni, che è anche un nutrizionista serio, nel suo blog, collima con quello che ho detto sulla normativa in materia:
http://www.nutrizionistabrescia.com/p/il-biologo-e-la-nutrizione.html
Ma se sbaglio, oh, bastan 10 minuti, me lo dimostri e cambio il paragrafo. Quando si vuole, scripta volant.
Inoltre, la stragrande maggioranza dell’articolo, tolta la postilla esplicita all’inizio, ce l’ha con chi va a pubblicare roba di epidemiologia nutrizionistica, che sono in larga parte medici, dietisti, statistici, igenisti e altre professioni del genere; e siccome non ci facciamo mancare niente, c’è anche tutto un sottotono sarcastico contro i giornalisti generalisti che pubblicano notizie a caso. Mi sembra di aver tirato in ballo un po’ tutto.
Non mi firmo per poter esprimere liberamente quello che penso senza troppa paura di ripercussioni o harassments vari; cosa che non funziona, comunque, perché bastano 10 minuti ad una persona sufficientemente motivata per trovare i miei dati personali (l’anonimato, su internet, è pressoché morto). Resto convinto nel principio scientifico e metodologico per cui l’argomentum ad auctoritas sia fallace, e una tesi vada giudicata nel merito, e non guardando a chi la espone (e l’anonimato aiuta); e il mio nome e cognome sarebbero comunque irrilevanti al fine di stabilire la mia expertise o quello che è il suo scopo, visto che nel terzo paragrafo ho specificato che normalmente mi occupo di tutt’altro.
dai, Parapiglioni no però… Parpaglioni!
Argh, scusa, sono andato a memoria e son pessimo coi nomi
Innanzitutto se lei e un biologo e tenuto al rispetto del codice deontologico http://www.onb.it/2013/09/10/codice-deontologico/ e poi leggendo la prima parte sembra che si lascia intendere che i biologi che si occupano ,di nutrizione sn degli improvvisati quando così non è ..ledendo la loro immagine e cozzando contro l articolo 27 .ma sei vuole fare un appunto su chi scrive articoli di epidemiologia nutrizionistica perché tirare in ballo sl i biologi e non fare un discorso più generico visto che si fanno chiamare nutrizionisti anche tanti altri professionisti .Le consiglio vivamente di cambiare la prima parte perché lede la dignità di molti biologi che fanno tale professione con scienza e coscienza ..sul restante concordo con lei …
L’associazione nazionale dietisti, nel suo recente libro bianco, parlando sia di dietisti che di nutrizionisti in senso più ampio, denuncia chiaramente
” […] L’eterogeneità e la numerosità degli accessi, aperti contemporaneamente a molteplici tipologie di laureati con provenienze formative e ambiti professionali molto diversi tra loro, e molti dei quali senza alcuna competenza di base in ambito nutrizionale e sanitario.” e i buchi narrativi, in cui facilmente i disonesti si possono infilare.
Per quanto non metto assolutamente il dubbio che ci siano un sacco di biologi che praticano con “scienza e coscienza”, negare l’esistenza di questo problema è negare un fatto: triste, ma pur sempre un dato statistico.
Un dato di fatto non dovrebbe essere lesivo o offensivo.
Però, visto che apparentemente ci sei rimasto male e mi stai simpatico, Franco, cercherò di riformulare il paragrafo in maniera che sia più chiara la distinzione che faccio, e aggiungerò un altro pezzettino alla nota paraculo.
EDIT: Modificato 🙂
debbo precisare il mio primo intervento dettato dall’entusiasmo e irriguardoso sopratutto della sintassi. parlavo di cancri non in polemica con doppia M per per sottolineare il pressapochismo dei siti di cui si parla.
Parlavo di quando vogliamo morire perchè la maggior parte delle persone pensa di prevenire e si chiede chi abbia “la colpa” di fenomeni che comunque appartengono al nostro destino biologico. Parlo dei carcinomi dei 70enni e degli 80enni e più in cui la tendenza naturale delle cellule a degenerare e forse predominante sui fattori esogeni.
Non intervengo nelle questioni ordinistiche dei biologi ma affermare che la preparazione dei biologi sia insufficiente a definirli tout court dei nutrizionisti sarà sbagliata ma non diffama nessuno.
E’ statoaffermato che l’esame di odontoiatria di medicina non è sufficiente a fare di un medico un dentista e nessuno a querelato nesuno
Oddio dovrebbero caccciare me dall’ordine visti gli errori ortografici!
Occhio a non confondere dietisti (corso di laurea triennale i cui professionisti devono sottostare alle direttive di medico o biologo per stilare diete) e dietologi (termine ufficioso per i medici nutrizionisti). 😉
Ciao Connacht, potresti spiegarmi cosa intendi? Che i dietisti, essendo sottoposti alla prescrizione medica, sono una classe inferiore ai dietologi/nutrizionisti e ai medici stessi? Il dietista fa un corso di laurea di 3 anni ed è OVVIO per tutti che non possa paragonare la propria preparazione, riguardo la salute umana, a quella di un medico, che si spara 6 anni di corsi più 2/6 altri anni a seconda della specialità e tutta la gavetta in corsia. Tuttavia, posso assicurarti che un bravo dietista ha una grande preparazione in ambito nutrizionale, a volte nettamente superiore a medici che nella vita han preso altre strade (es. medici di base o fisiatri ecc ecc perchè se non frequentano scienze della nutrizione non fanno manco mezzo esame in nutrizione), ma soprattutto a tanti biologi/farmacisti che dopo il corso di laurea, senza fare scienze della nutrizione, pensano di potersi mettere a fare diete. Poi dovresti informarti meglio: il dietista ha bisogno della prescrizione del medico, non del biologo.
Buona serata!
Non mi interessa, prima c’era un riferimento al fatto che i dietisti potessero operare senza specializzazione come i biologi ed io ho corretto dicendo di non confondere i nomi dietisti/dietologi.
Buongiorno a tutti vorrei precisare che di fatto un dietista ha le conoscenze tecniche derivanti da una laurea triennale ex diploma universitario; il biologo nutrizionista, castrato nella sua professione, ha 5 anni di studio (se basta) e può essere una figura importante, se affiancato ai medici, nel coaduviare la terapia con uno stile di vita sano e aumentare la qualità della vita stessa di malati e non, operando nei limiti di competenza ( non diagnosi o prescrizione di farmaci perchè in questo caso è sicuro che il medico è l’unico in grado di poter operare in questo senso) e alla pari del medico. La legislazione è lacunosa su questo punto ma sarebbe il caso di scendere dal piedistallo e riconoscere che il vero biologo nutrizionista ( laureato magistrale spesso con master di 2 livello o con specializzazione di 4 anni) qualcosa in più forse la sa rispetto a una perona che presenta 3 anni di studio seppur di ottima qualità. Mi scuso per il mio sfogo ma è fastidioso quando anni e anni di sacrificio non vengono riconosciuti. A ognuno il proprio lavoro!!! E, sopratutto, limitazione dell’iscrizione all’albo dei biologi nutrizionisti solo a chi ha studiato per biologo nutrizionista!
Invece di concentrarci in sterili discussioni a chi è più bravo, credo che sia più utile e costruttivo per tutti fare informazione corretta verso chi non ha le difese culturali per proteggersi da claims allarmistici di trasmissioni televisive, giornalisti (e sedicenti tali), naturopati, erboristi, personal trainer e casalinghe di Voghera che si mettono a parlare di nutrizione a sproposito.
Considerando che io non ho mai tirato in ballo differenti gradi di bravura e te ne sei uscito tu gratuitamente con sto film, direi che apprezzo la tua onesta autocritica nel suggerire di non proseguire la sterile questione di tua invenzione. 😉
Ma sai che mi sa che hai ragione?
Ti chiedo scusa, ma avevo letto dell’ironia nel tuo primo commento. Abbi pietà, appartengo a una categoria parecchio maltrattata ed arrivo da discussioni accese su questi temi, siamo abituati a star troppo reattivi 🙁
Dai tranquillo. 😉
Ho visto fare e dire cose allucinanti da parte di biologi (studenti e non) comunque, nessuno non ha pagliuzze nell’occhio.
Ad essere pignoli anche il Biologo dovrebbe agire sull’indicazione di un medico che prescriva una dieta iposodica o ipoproteica ecc. Il Biologo nutrizionista dovrebbe elaborare la dieta identificando i valori nutrizionali ( quantità di proteine , glucidi, loro ripartizione ecc.), il dietista dovrebbe tradurlo in spaghetti e bresaola ( la bresaola non manca mai).
La stessa cosa avverrebbe in laboratorio analisi:il tecnico di laboratorio per esempio esegue il dosaggio della glicemia, il boilogo verifica la compatibilità biologica ( se è 20 è da ricontrollare perchè incompatibile con la vita), il medico controlla la correttezza rispetto all’indicazione ( 80 in un coma diabetico non ci sta). Nei fatti il biologo se la cava benissimo senza il medico, infatti i laboratoristi si sono riciclati come esperti di qualità ( due palle!) Ci si augura che il il medico di laboratorio recuperi un suo spazio consigliando i clinici sugli esami da eseguire per una determinata diagnosi, visto che ormai le possibilità sono enormi e non è possibile per il medico pratico conoscerle tutte .
(saccente e diplomatico eh..eh.. eh…
Ottimo articolo. Complimentissimi
Ci vorrebbe uno studio epidemiologico su coloro che basano la propria dieta sugli studi epidemiologici … Anche se quasi sicuramente non concluderebbe niente neppure questo.
Io intanto ho ripreso il post nel mio diario, ho aggiunto solo una brillante strip di xkcd di qualche anno fa. https://passanuvoli.wordpress.com/2014/03/31/gli-orsetti-gommosi-sono-la-causa-dellacne/
è appena comparso nelle news di google la notizia di uno studio epidemiologico secondo il quale mangiare 7 porzioni di frutta e verdura al giorno diminuisce i rischi di morte del 42%
Anche io sono un biologo nutrizionista e vorrei sollevare un argomento che forse esula dagli intenti del post..che trovo comunque interessante.
In Italia si parla troppo di qualifiche nonostante, ammetto, la figura stessa del nutrizionista è quella più…nebulosa. Ma forse il problema è più ampio, perchè l’appartenenza ad una certa categoria ormai non garantisce ne un miglior servizio ne una miglior consulenza erogata….In Italia lentamente sta scemando la qualità della classe medica, della class dirigente, quella dei biologi ecc…Categorizziamo certe figure a norma di legge senza renderci conto che non è questa la strada da seguire….Io ho sempre voluto fare questo mestiere e ci sono riuscito, purtroppo dall’inizio mi hanno detto: “devi iscriverti a Scienze Biologiche”..ho fatto il percorso consigliatomi da persone ritenute informate e preparate…se avessi detto “voglio fare il dietologo”…mi sarei iscritto a Medicina. Ma oggi mi rendo conto che questa scelta, che ho ritenuto errata per molto tempo e per il solo fatto che è giuridicamente sospesa in una sorta di limbo (ogni tanto mi giungono pure lettere di “consiglio” da alcuni dietisti e dietologi), non fa di me un professionista meno preparato di altri.
DoppiaM…con i tuoi tre crediti e l’esame di stato puoi fare il nutrizionista, è vero, e nessuno potrà dirti nulla, ma ti garantisco che chiuderai baracca e burattini entro un anno…..Molti miei colleghi, davvero preparati, hanno alle spalle, tra master e formazione post universitaria, oltre 10.000 ore tra didattica teorica ed esercitazioni pratiche….Giuridicamente per esercitare basta l’esame di stato ma per lavorare no…..esiste anche qui la “selezione naturale”, forse per molti non è abbastanza e allora che dire…consoliamoci con poco.
Vero che il problema rimane
PS1: Perchè un nutrizionista dovrebbe collaborare con un medico, come scrive qualcuno qui sopra? I medici saranno pure “giuridicamente inquadrati” ma non sanno nulla manco della glicolisi, come si potrebbe collaborare? Guardate che a medicina di nutrizione non si fa quasi nulla…vi garantisco che sono molto ma molto più preparati i dietisti….escluso il caso, naturalmente, di un medico specializzato in dietologia.
PS2: lo statistico è uno che fa un calcolo giusto partendo da premesse dubbie per arrivare a un risultato sbagliato. Jean Delacour…:)
Premessa: sono assolutamente d’accordo sul fatto che in Italia c’è una fissa inutile sulle qualifiche, in tutti i campi; se uno prova anche a esular di poco da quello di cui si occupa normalmente ecco subito tutti a dire “ma chi sei? ma che fai? perché non ti firmi con il tuo nome? etc.” invece che guardare alla validità delle argomentazioni in sé. Succede un po’ dappertutto ma in Italia è peggio e non so esattamente perché.
Ciò detto: Non so se chiuderei baracca con la mie qualifiche ~=0, è probabile, anche perché con le persone non so trattare; so però che vedo molti “colleghi” nutrizionisti/dietologi/dietisti, anche con master ed affini, fare test fantascientifici e pseudoscientifici come il VEGA test o test kinesiologici per le intolleranze, e mi chiedo quanto l’utente finale cerchi effettivamente competenza scientifica e quanto invece voglia rassicurazioni e attenzioni o “lifestyle coachs” e roba del genere.
PS: La gente normalmente usa la statistica come un ubriaco usa un lampione: come sostegno invece che fonte di illuminazione.
E’ vero quello che scrivi, ma è un problema culturale e direi, pure antropologico. Un dietologo è un medico laureato e specializzato, se poi propone un Dria test o il test delle intolleranze alimentari (e in Italia abbiamo dei grandi nomi che fanno tutto questo), dipende dal fatto che sono “strumenti” insegnati e propagandati persino dentro quelle strutture che poi rilasciano le stesse qualifiche appese al muro. Quindi a questo punto a cosa potrebbe servire la qualifica? Non certo per discriminare tra chi è culturalmente preparato ed eticamente… onesto. Perchè la verità è che alcuni sono davvero convinti, altri lo fanno per il portafoglio (un Dria costa da 150 a 250 euro, andrebbe bene farne anche uno o due al mese).
Cosa cercano gli utenti finali? Un po’ di tutto, ma fortunatamente stanno aumentando coloro che spendono in maniera oculata….scelgono a chi affidarsi per ottenere dei risultati. E se non arrivano il cliente è perso, non si presenterà più!! Ho notato però dei cambiamenti negli utenti, se un tempo avevano molte certezze, adesso con internet sono divisi in due gruppi, coloro che hanno certezze ancor più radicate e coloro che sono confusi.
PS DoppiaM, ho utilizzato te come esempio non certo per dire che non sei qualifcato, ma per rendere l’idea, probabilmente sei molto più informato di altri……!!! Bello l’aforisma..!
Credo che serva a poco lottare contro l’ignoranza, ma è un ottimo articolo. Vorrei invece dire che avendo fatto sia la triennale in dietistica che i +2 in nutrizione umana di biologia (colmando i crediti necessari per iscriversi all’albo dei biologi) chi proviene dalla triennale in biologia non ha sufficienti mezzi nemmeno per stilare una dieta e credo che la legislazione sia approssimativa, ma tanto l’Italia premia sempre i mediocri furbetti.
Per fortuna che stai invecchiando e scrivi meno…ti avevo aggiunto tra i blog nel mio blog e ieri quanti, n post a raffica a breve distanza l’uno dall’altro…glom 🙂
Mi sento di aggiungere una postilla (il tempo e’ per tutti tiranno ma prometto di tornare): e’ vero che in un campione piccolo le variazioni casuali sono (e non ‘sembrano’) più importanti ma l’importanza e’ relativa alla ‘forza’ dell’associazione (o alla dimensione della differenza ad es. tra due interventi, trattamenti, etc etc): tanto piu’ grande la differenza tanto piu’ piccolo il campione e viceversa tanto piu’ piccola la differenza tanto piu’ grande la dimensione del campione per poterla evidenziare. Questo per dire che la qualita’ di uno studio e l’affidabilita’ dei risultati non dipendono di per se’ da quanto grande sia il campione di per se’: un campione grande N = 25 di per se’ non e’ ne’ piccolo ne’ grande ne’ medio, un campione puo’ essere solo sottodimensionato, sovradimensionato o corretto ma sempre in relazione all’ipotesi che si vuole testare.
In ultimo anche l’esito di un test di significativita’ dev’essere considerato cum grano salis e non di per se’ , cioe’ se un test non e’ signifcativo le ragioni possono essere due, o il campione e’ corretto in relazione all’ipotesi e dunque si conclude per un’assenza dell’effetto o il campione e’ sottodimensionato e dunque inadatto a mettere in evidenza l’effetto se questo e’ reale.
PS: se compaio come Firstname Lastname e’ perche’ ancora non sono riuscito a correggere i dati dell’account
Sulla seconda parte, ho in programma di scrivere da millenni un articolo su p-value, p-hacking, false discovery rate etc; ma il tempo è tiranno.
Sulla prima parte: sì, campione può essere solo sovra-sotto-equamente dimensionato in generale; ma stiamo parlando di (come forse dico quando parlo dei vari tipi di studi) effetti tipicamente piccoli, ragion per cui – di norma – campioni piccoli sono sotto-dimensionati. Ciò detto, Ioannidis stesso, non mi ricordo se in questo articolo specifico o in un altro, dice chiaramente che fare l’ennesimo large scale observational trial con 234234 persone non risolverebbe nulla lo stesso (e lo dice, IMO, a ragione).
E’ già un articolo pieno di caveat e lungherrimo, ma se riesci a riassumere tutto il tuo commento in due righe due edito e lo infilo dentro.
Also, non ho la minima idea di chi tu sia, Firstname Lastname
In generale ci provo a riassumere ma la sintesi e’ un dono che non ho (e questo a dispetto del fatto che e’ il mio lavoro, sigh…) se trovo il tempo nei prossimi giorni ci provo.
Also, non sai chi sono perche’ non ho mai scritto sul tuo blog, il nick dovrebbe essere Spline ma non so per quale motivo e nonostante lo abbia cambiato e appaia nelle impostazioni, resta sempre Firstname Lastname. Vediamo se compare bypassando g+.
Pensavo che “stai invecchiando” fosse un riferimento al mio compleanno una settimana fa e fossi una persona che viene a infestarmi dal mondo reale.
Bengiunto, Spline.
Sei consapevole che ora la gente capiterà qui cercando su google “gattino puccioso”, vero?
(comunque io non sono arrivata qui da google)
Penso che nel rank per “gattino puccioso” su google resto abbastanza basso. Purtroppo un sacco di gente mi trova cercando “come ammazzare un gatto”.
Mi fai capire, per favore, la seconda parte del titolo , quella riguardante i capelli bianchi?
Grazie!